Si
potrebbe scrivere una storia dell’Italia elencando le perdite di vite,
di ricchezza, di beni, conseguenti le frane e le alluvioni e la siccità ,
tutte ricorrenti, in tutte le parti d’Italia, con le stesse modalità e
cause, tutte rapidamente dimenticate.
Come anno zero può essere preso il
1951, l’anno della grande alluvione del Polesine provocata dal dissesto
idrogeologico del lungo periodo fascista e di guerra durante il quale
si è aggravato il taglio dei boschi ed è venuta meno la manutenzione dei
fiumi.
L’insostenibile Giorgio Nebbia
In
quell’anno del grande dolore nazionale, ci si rese conto che la
ricostruzione dell’Italia avrebbe dovuto dare priorità alle opere di
difesa del suolo; molte indagini e inchieste misero in evidenza la
fragilità di molti corsi d’acqua, oltre al Po, in cui i detriti
dell’erosione si erano depositati nell’alveo e avevano fatto diminuire
la capacità ricettiva dei corpi idrici. Inoltre era già stata avviata
una graduale occupazione e privatizzazione delle fertili zone golenali,
originariamente appartenenti al demanio fluviale proprio perché ne fosse
conservata, libera da ostacoli di edifici e strade, la fondamentale
capacità di accoglimento delle acque fluviali in espansione nei periodi
di intense piogge.
Il
“miracolo economico” degli anni cinquanta e sessanta del Novecento è
stato reso possibile dalla moltiplicazione di quartieri di abitazione,
di fabbriche e di attività di agricoltura intensiva che richiedevano una
crescente occupazione del territorio, nelle pianure e nelle valli.
Nello stesso tempo la intensa migrazione interna dalle zone più povere e
dissestate del Mezzogiorno verso un Nord che prometteva lavoro in
fabbrica e paesi e città più vivibili e con migliori servizi, ha
lasciato vaste zone del Mezzogiorno e delle isole e delle montagne e
colline esposte all’abbandono umano e esposte ad un crescente degrado
del territorio e a una serie crescente di frane e alluvioni.
Per
una nuova politica del territorio, per avviare serie iniziative di
difesa del suolo non servì la frana di un pezzo del monte Toc nel bacino
del Vajont, e i relativi duemila morti del 1963. E neanche la grande
alluvione di Firenze e Venezia del 1966, un altro momento del grande
dolore nazionale; anche allora fu riconosciuta, nel dissesto
territoriale la causa prima della tragedia; fu istituita la Commissione
De Marchi che riferì al Parlamento che occorrevano investimenti di
diecimila miliardi di lire di allora (circa 100 miliardi di euro del
2012) in dieci anni per opere di difesa del suolo. Opere che non sono
state fatte.
Nei
decenni successivi la costruzione di edifici e strade ha continuato ad
alterare, anzi in maniera accelerata, profondamente la superficie del
suolo creando ostacoli al flusso delle acque; si è innescata una
reazione a catena che ha fatto aumentare l’erosione del suolo, i detriti
dell’erosione hanno invaso gli alvei dei fiumi e torrenti e, di
conseguenza, è diminuita la capacità dei fiumi e torrenti e fossi di
ricevere l’acqua, soprattutto a seguito di piogge più intense.
Nello
stesso tempo si sta assistendo a modificazioni climatiche planetarie
che alterano i cicli delle stagioni e delle piogge. Di conseguenza
sempre più spesso, il territorio e la collettività italiani sono (e
saranno) esposti a siccità e frane e alluvioni che distruggono edifici,
strade, raccolti; sempre più spesso le comunità danneggiate richiedono
la dichiarazione di stato di calamità , che significa che lo stato deve
provvedere a risarcire i danni provocati da “calamità ” considerate
“naturali” ma che tali non sono: sono calamità dovute ad errori e
imprevidenza umani: per evitarli la politica della “protezione civile”
dovrebbe essere sostituita con una cultura della “prevenzione”.
Le
frane e le alluvioni derivano in Italia da vari fattori. Dalle piogge,
prima di tutto, che si alternano rapide ed intense in certi mesi e
scarse in altri; ma come si può organizzare la prevenzione delle
calamità se non si sa neanche esattamente quanto piove in una regione in
un anno ?
La
velocità con cui le piogge scorrono nelle valli, sul fianco delle
montagne e colline, e poi nei fiumi a fondovalle, la loro forza di
erosione del suolo, dipendono dalla vegetazione: se il suolo è coperto
di alberi e macchia spontanea, la “forza” contenuta nelle gocce d’acqua
delle piogge si attenua cadendo sulle foglie e l’acqua scorre sul suolo
abbastanza dolcemente. Se il suolo è nudo, la forza delle gocce d’acqua
lo sgretola in particelle fini che rapidamente sono trascinate a valle
e, quando il flusso di acqua è intenso, il ruscellamento si trasforma in
un fiume di fango, quello che abbiamo visto tante volte nelle immagini
delle alluvioni.
Se
poi il flusso delle acque incontra ostacoli, edifici, muraglioni, il
fiume di acqua e fango si rigonfia, cambia strada, si infiltra dovunque
e spazza via tutto. E di ostacoli le acque sul suolo italiano, in tutte
le regioni, ne incontrano tanti: decisioni miopi ed errate e
l’abusivismo edilizio, tollerato dalle autorità locali e addirittura
incentivato con due devastanti “condoni”, hanno fatto moltiplicare sul
fianco delle valli, addirittura nel greto dei fiumi, case, fabbriche,
edifici, strade.
Nel
1989 era stata emanata una legge, la “centottantatre”, che stabiliva
come rallentare ed evitare i disastri delle frane e delle alluvioni: La
difesa del suolo e delle acque deve, indicava giustamente la legge,
essere organizzata per bacini idrografici, quelle unità geografiche ed
ecologiche che comprendono le valli, gli affluenti, i fiumi principali,
dalle sorgenti al mare. Poiché i confini dei bacini idrografici non
coincidono con quelli delle regioni e delle province, per ciascun bacino
idrografico deve essere istituita una autorità di bacino che deve
redigere un “piano” per indicare dove devono essere fatti i
rimboschimenti, dove devono essere vietate le costruzioni, deve devono
essere fermate le cave o le discariche dei rifiuti, dove devono essere
costruiti i depuratori. Al piano di ciascun bacino dovrebbero attenersi —
lo voleva la legge, non sono ubbie di ecologisti — le autoritÃ
amministrative, i consorzi di bonifica, le comunità montane, gli enti
acquedottistici. Anche questa legge è stata abrogata dal testo unico
delle leggi sull’ambiente approvato dal governo nel giugno 2006.
Eppure
la salvezza del territorio contro le alluvioni e l’aumento delle
risorse idriche richiederebbero un grande illuminato programma di opere
pubbliche, sull’esempio di quelle intraprese dal presidente degli Stati
Uniti Roosevelt, nel 1933, per far uscire l’America dalla crisi con
investimenti per la sistemazione delle valli e del corso dei fiumi,
creando occupazione e tornando a rendere fertili terre erose e assetate
proprio per l’eccessivo sfruttamento del suolo.
Tali
opere richiederebbero un piano quinquennale che dovrebbe cominciare con
una indagine dello stato del territorio, oggi facilmente eseguibile con
mezzi tecnico-scientifici come rilevamenti satellitari e aerei. Tanto
per cominciare gran parte di questo lavoro è disponibile, sparso per
diversi ministeri e agenzie: in parte è stato fatto (avrebbe dovuto
essere fatto) nell’ambito delle autorità di bacino idrografico secondo
quanto richiesto a suo tempo dalla legge 183; in parte fu (avrebbe
dovuto essere) predisposto dal decreto del 1999 dopo l’alluvione di
Sarno. Tale indagine dovrebbe rilevare le vie di scorrimento delle acque
dalle valli verso il mare e gli ostacoli attualmente esistenti a tale
flusso, rivo per rivo, fosso per fosso, torrente per torrente, fiume per
fiume.
Come
secondo passo, l’indagine sullo stato del territorio indica
(indicherebbe) dove non devono essere fatte nuove opere come costruzioni
di edifici e strade e dove sarebbe opportuno localizzare futuri edifici
e strade in moda da assicurare il deflusso senza ostacoli delle acque.
Le decisioni conseguenti la pianificazione dell’uso del territorio —
l’indicazione di dove si può e di dove non si deve intervenire con opere
nel territorio — comporta due sgradevolissime conseguenze: la
modificazione del valore di molte proprietà private e la necessità di
una moralizzazione della pubblica amministrazione alla quale dovrebbe
essere iniettato il coraggio di “dire no” alle pressioni di molti
proprietari di suoli.
Come
terzo passo l’indagine sullo stato del territorio indica (indicherebbe)
dove esistono ostacoli al flusso delle acque; tali ostacoli sono
costituiti da edifici o opere costruiti, abusivamente o anche
“legalmente”, al fianco dei torrenti e fossi, talvolta nelle golene e
negli alvei; dalle arginature fatte per aumentare lo spazio occupabile a
fini economici e che fanno aumentare la velocità e la forza erosiva
delle acque, dai ponti e dalle strade e dalle opere che ostacolano il
deflusso delle acque o che si trovano in zone esposte ad erosione,
alluvioni e frane.
In
parte tali ostacoli devono essere rimossi; sarà una scelta politica
trovare delle forme di indennizzo per i costi di spostamento e di
demolizione di proprietà private o di opere pubbliche; in qualche caso
basta eliminare la cementificazione dei fianchi di colline; in altri si
tratta di recuperare e riattivare antiche note pratiche di drenaggio
delle acque, abbandonate in seguito allo spopolamento delle colline e
montagne; in altri casi si tratta di praticare una pura e semplice
“pulizia” di canali e torrenti. Opere di “manutenzione idraulica”
esattamente equivalenti alla manutenzione che viene praticata sulle
strade, negli edifici, ai macchinari, ma mirate allo scorrimento delle
acque.
Come
quarto passo, una accurata indagine territoriale è in grado di indicare
come è variata, nei decenni, la capacità ricettiva dei torrenti e
fiumi; tale variazione è dovuta sia al deposito di prodotti
dell’erosione nell’alveo dei fiumi e torrenti, sia all’escavazione di
sabbie e ghiaie; nel primo caso le acque piovane tendono ad uscire dagli
argini e ad allagare le zone circostanti, e non servono le opere di
innalzamento o cementificazione degli argini, ché anzi aggravano la
situazione, trasferendo a valle materiali che ostacolano altrove il
deflusso delle acque: nel secondo caso i vuoti lasciati dall’escavazione
fanno aumentare la velocità e la forza erosiva delle acque in
movimento. Va anche tenuto presente che quanto avviene nel corso di
fiumi e torrenti influenza i profili delle coste provocando avanzata o
erosione delle spiagge, con conseguente, rispettivamente, interramento
dei porti o perdita di zone di valore economico turistico — e quindi
ancora una volta costi per la collettività e anche per privati.
La
quinta azione — ma dovrebbe andare al primo posto come efficacia — per
rallentare e fermare i costi per frane e alluvioni, e per aumentare la
disponibilità di acqua di buona qualità , consiste nell’aumento della
copertura vegetale del suolo. La presenza di alberi e vegetazione fa sì
che la pioggia cada sulle foglie, anziché direttamente sul terreno; le
foglie e i rami sono elastici e attenuano la forza di caduta e quindi la
forza erosiva delle acque. Inoltre la loro presenza e la presenza di
sottobosco rallenta la discesa delle acque e quindi la loro forza
erosiva.
Normalmente
si ragiona in termini di rimboschimento delle terre esposte ad
erosione; il rimboschimento tradizionale richiede pazienza, cultura e
conoscenza delle caratteristiche del suolo, oltre che delle specie
vegetali, e tempo e manutenzione perché il trasferimento delle piante
dai vivai al terreno è opera lunga e delicata; ma l’attenuazione del
moto delle acque è svolto anche dalla vegetazione “minore”, dalla
macchia e dalla vegetazione spontanea. Purtroppo esiste una anticultura
che suggerisce o impone la “pulizia”, che vuol dire distruzione, del
verde, dalle campagne alle valli, ai giardini privati e pubblici
urbani.
La
macchia è spesso estirpata per lasciare spazio per strade o parcheggi o
edifici: non ci si rende conto che ogni foglia, anche la più piccola e
insignificante, anche quella che cresce negli interstizi delle strade,
ha un ruolo positivo non solo come “strumento” per sequestrare
dall’atmosfera un po’ dell’anidride carbonica responsabile dell’effetto
serra e dei mutamenti climatici, ma anche per contribuire allo scambio
di acqua fra il suolo e l’atmosfera — essendo, ancora una volta, l’acqua
la fonte vera della vita anche economica.
Alla
distruzione del poco verde contribuisce la gestione del territorio
agroforestale, l’abbandono dell’agricoltura di collina e montagna, la
diffusione di seconde case e attrezzature sportive proprio nelle valli,
una parte molto desiderabile del territorio, la mancanza di “amore” per
la vegetazione che è la forma prima di “vita”, dalla quale dipendono
tutte le altre forme di vita umana ed economica. La poca cura e
protezione del verde spontaneo è la fonte degli incendi (alcuni, molti
sono provocati proprio per sgombrare il terreno dal verde che ostacola
costruzioni e speculazioni); gli incendi, a loro volta lasciano il
terreno esposto a crescente erosione.
C’è
una sesta azione di sostegno alle cinque precedenti che avrebbe anche
il vantaggio di non costare niente; un’opera di informazione e di
“pedagogia” delle acque, di narrazione di come le acque si muovono nelle
valli e nelle città , delle interazioni fra il moto delle acque e il
suolo e la vegetazione e le opere umane; al di là dell’utilità pratica,
appunto per diminuire i costi annui dovuti al risarcimento delle perdite
economiche provocate da frane e alluvioni, la “cultura delle acque”
avrebbe un valore politico e civile, mostrando come la popolazione di
ciascuna valle è unita, nel bene e nel male, dalle acque che scorrono
nella valle stessa, mostrando le forme di violenza che opere
sconsiderate a monte esercitano sugli abitanti a valle.
Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it
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