Demofobi, euroinomani e turboglobalisti. Ecco come stanno uccidendo la democrazia.
Il fiduciario dei mercati, l’euroinomane più impenitente, Mario Monti, in un’intervista rilasciata a Der Spiegel ebbe
ad asserire senza perifrasi che, al fine di evitare che il costrutto
europeo andasse in frantumi, i governi dovrebbero operare con maggiore
indipendenza rispetto ai parlamenti e, anzi, erziehen, “educarli” (sic!).
La classe dominante e il suo ceto intellettuale di completamento sono ab intrinseco demofobi:
i loro interessi sono antipodici rispetto a quelli delle masse
nazionali-popolari. Essi oggi esprimono il loro odio di classe verso
queste ultime con la categoria di “populismo”, con cui viene accusato indistintamente chiunque non assuma lo sguardo dall’alto proprio dell’aristocrazia finanziaria.
Sotto questo profilo, è inconfessabilmente conservato il significato
primigenio del termine: “populisti”, infatti, erano in origine, nella Russia a cavallo tra il 1860 e il 1880, i socialisti che aspiravano ad “andare verso il popolo” – espressione che costituirà per Gramsci la
base del nazionale-popolare e della riforma morale -, per alfabetizzare
le masse e per favorirne l’emancipazione.
È esattamente questo aspetto
paideutico ed emancipativo che l’élite demofobica non può oggi
accettare.
Essa, com’è ogni giorno più evidente, opera affinché le masse
permangano nella propria passività inconsapevole, prive di orizzonti
emancipativi e di strategie del conflitto corale, distratta dallo
spettacolo mediatico sempiterno, in balia di microconflitti orizzontali in seno alla stessa massa damnata degli sconfitti e disposta eventualmente a battersi unicamente in nome della conservazione delle proprie robuste catene.
Nel suo Against Democracy (2016), Jason Brennan
ha conferito dignità teorica ai sentimenti post-democratici e demofobi
della nuova aristocrazia global-elitaria: la tesi su cui è costruito lo
studio di Brennan è quella in accordo con la quale occorrerebbe, in
certa misura, limitare il diritto di voto ai
“competenti”, ossia – questo il non detto – alle classi cosmopolite non
coincidenti con il servo nazionale-popolare precarizzato.
Il testo di Brennan, in fondo, si pone come un aggiornamento del lavoro The Crisis of Democracy: On the Governability of Democracies, lo studio del 1975 scritto da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki
per conto della Commissione Trilaterale. E prova a elaborare nuovi
strumenti concettuali per governare i popoli, insistendo sull’esigenza
della rigenerazione di quella giusta distanza tra il vertice e la base
che era, in quella fase, minacciata dalla crescente partecipazione
democratica e dalla non ancora del tutto anestetizzata capacità critica
delle classi subalterne. La riduzione
del potere sindacale, la diminuzione pilotata della partecipazione
popolare alla vita politica e la diffusione della apatia generalizzata
figuravano apertamente come alcune delle strategie privilegiate per il
riassestamento verticistico del rapporto di forza.
Una volta di più, l’odierna crisi finanziaria non presenta alcunché
di naturale, né può continuare a essere presentata e percepita come se
si trattasse di uno tsunami o di un terremoto, con cui pure condivide
gli effetti. Viceversa, rovesciando il paradigma dominante e
ricategorizzando altrimenti il reale, occorre ribadire con enfasi che la
crisi come condizione generale è cifra dell’accumulazione flessibile e
dell’instabilità fisiologica che essa diffonde in ogni ambito. Secondo
il nuovo paradigma della schock economy, la crisi viene
favorita come metodo governamentale, in modo da imporre senza alcuna
discussione democratica, sempre in nome dell’urgenza della situazione,
le politiche neoliberiste di riduzione dei salari, del
taglio della spesa pubblica, dell’abbassamento dei costi del lavoro,
dell’erosione programmata dei diritti.
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