Manovra 2019 | Legge di stabilità | Presentiamo
di seguito, con alcune note esplicative, le slides della conferenza
tenuta da Riccardo Realfonzo al convegno dell’associazione Asimmetrie
“Euro, mercati, democrazia 2018”, svoltosi a Montesilvano l’11 novembre
2018.
1. La crisi dell’eurozona
L’Unione monetaria europea
si presenta oggi come una unione incompleta. Abbiamo una moneta unica
ma non una banca centrale che funzioni da prestatore di ultima istanza
(garantendo sempre l’acquisto di titoli del debito pubblico e quindi
assicurando l’impossibilità del default degli Stati dell’Unione).
Inoltre, non abbiamo un bilancio significativo dell’Unione né una
politica fiscale unitaria e dotata di strumenti di debito dell’Unione
(es.: eurobond) e di meccanismi redistributivi che riparino i Paesi
aderenti dagli shock che li colpiscono in modo asimmetrico.
Si tratta di
scelte politiche che hanno avuto come conseguenza la forte dinamica
degli spread
tra i rendimenti dei titoli del debito pubblico e che hanno accentuato i
processi spontanei di divergenza che portano lo sviluppo a concentrarsi
in alcune aree di Europa.
Unione incompleta: La speculazione, La crisi dell’eurozona (SLIDE 1)
Gli squilibri interni all’eurozona risultano sempre più gravi, e la preoccupante previsione formulata dal “monito degli economisti” (pubblicato nel 2013 dal Financial Times e da economiaepolitica.it) risulta sempre più attuale.
Da Economia e Politica del 2013: Monito degli economisti (SLIDE 2)
L’impetuosa dinamica dei processi di divergenza
in Europa, che rende i Paesi sempre più diversi tra loro e conferma che
l’unione monetaria non costituisce un’area valutaria ottimale (nella
quale i benefici dell’adesione alla moneta unica superano i costi),
risultano confermati dall’osservazione della dinamica del coefficiente
di variazione del tasso di crescita del pil pro capite: i Paesi crescono
a ritmi che divergono sempre più.
I processi di divergenza nell’eurozona | Differenza tra i tassi di crescita | Coefficiente di variazione del tasso di crescita (SLIDE 3)
2. Gli effetti dell’austerità
Dopo la crisi scoppiata tra le fine del
2007 e il 2008, i Paesi europei che al momento dell’unificazione avevano
fondamentali di finanza pubblica più deboli e condizioni di ritardo
competitivo sono stati costretti dai Trattati a praticare severe
politiche di austerità,
tagliando la spesa pubblica e aumentando la pressione fiscale
(consolidamenti fiscali). Secondo la letteratura più liberista e la
stessa Commissione Europea, queste politiche di austerità potevano
risultare espansive. Si riteneva, infatti, che gli aumenti della spesa
pubblica sul pil (il cosiddetto moltiplicatore della politica fiscale)
fossero negativi (o comunque prossimi allo zero). Pertanto, i tagli
della spesa avrebbero aumentato la crescita (o comunque non l’avrebbero
frenata). Questa teoria dell’“austerità espansiva” è stata subito criticata dagli economisti keynesiani, anche in numerosi lavori pubblicati da economiaepolitica.it. Secondo gli economisti keynesiani
il moltiplicatore è positivo e maggiore di uno. Pertanto, le politiche
di austerità avrebbero non possono che avere un impatto fortemente
recessivo.
La crisi, l’austerità espansiva e i suoi critici: moltiplicatori, la critica degli economisti keynesiani (SLIDE 4)
Effettivamente, le politiche di
austerità hanno determinato effetti recessivi intensi nei Paesi che le
hanno praticate, come si osserva ponendo pari a 100 il valore del pil di
tutti i Paesi nel 2007. La divergenza esplode. L’Italia è ancora
lontana dal recuperare il valore della ricchezza prodotta annualmente
nel 2007, mentre di contro la Germania è cresciuta negli ultimi dieci anni di circa il 12%.
Il Pil nell’eurozona: gli effetti dell’austerità dopo la crisi (SLIDE 5)
Le politiche di austerità non sono
nemmeno riuscite nell’intento principale che si erano poste: risanare le
finanze pubbliche, come si osserva guardando al dato relativo ai PIIGS
(Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna). La riduzione del pil
conseguente all’austerità, anche a causa della riduzione della raccolta
fiscale, ha peggiorato ampiamente il rapporto debito/pil.
Andamento dal 2007 al 2017 del rapporto debito pubblico/pil nell’eurozona (SLIDE 6)
La dinamica dei processi di divergenza e
le conseguenze delle politiche di austerità si possono apprezzare anche
sul piano occupazionale. In Italia l’occupazione
non è ancora tornata al livello del 2007 (nonostante il forte
peggioramento della qualità dell’occupazione e la ben maggiore
possibilità di ricorrere a contratti di lavoro a termine), mentre
contemporaneamente in Germania il numero complessivo di occupati è
cresciuto quasi del 10%.
La crisi occupazionale: numero degli occupati dal 2007 al 2017 (SLIDE 7)
3. Le stime del moltiplicatore fiscale
Negli anni passati i governi italiani
hanno sistematicamente sottostimato gli effetti recessivi delle
politiche di austerità che andavano a implementare. Addirittura, nel
caso del governo Monti
la differenza tra stime e realtà è risultata sbalorditiva. Basti
sottolineare che la differenza tra il rapporto debito/pil atteso per il
2013 e quello effettivamente misurato fu di 15 punti percentuali (un
errore di circa 100 miliardi di euro). I tecnici del ministero,
recentemente, considerati gli sbagli commessi, hanno rivisto il modello
econometrico ITEM, usato per le stime, ritoccando leggermente il
moltiplicatore della politica fiscale (da 0,55 a 0,75). Ma si tratta di
una modifica del tutto insufficiente, considerate ad esempio le analisi
dell’ex capoeconomista del FMI,
secondo cui il moltiplicatore è compreso tra 0,9 e 1,7. Non c’è da
meravigliarsi, quindi, se anche le stime future risulteranno errate.
Gli errori di previsione: previsioni DEF del Salva Italia del governo Monti e dati reali (SLIDE 8)
Con Angelantonio Viscione
ho sviluppato una ricerca, attualmente in esame per pubblicazione, su
circa 150 casi di shock espansivi della spesa pubblica sperimentati nei
Paesi europei. La slide riporta alcuni esempi dei casi considerati.
Economia e Politica: La nostra stima TSLS del moltiplicatore della spesa pubblica (SLIDE 9)
Effettuata l’analisi con tecniche
econometriche avanzate e controllati i risultati con alcuni test, il
moltiplicatore della spesa pubblica risulta essere maggiore di due
(precisamente: 2,18). Ciò significa che un aumento della spesa pubblica
di 1 miliardo di euro tende a determinare nei Paesi europei un
incremento medio del pil di oltre 2 miliardi di euro, mentre una
diminuzione della spesa pubblica di un miliardo di euro riduce il pil di
oltre due miliardi.
Il moltiplicatore di impatto della spesa pubblica in depressione (SLIDE 10)
4. Manovra 2019: La bassa competitività italiana e le politiche industriali
La manovra economica del governo in
carica prevede un cambiamento positivo sul piano dei saldi di finanza
pubblica. Infatti, il governo evita di tagliare ulteriormente il deficit
e aumentare l’avanzo primario
(l’eccesso della raccolta fiscale sulla spesa pubblica considerata al
netto degli interessi sul debito). Il governo prova a varare una manovra
timidamente espansiva, in contrasto con l’austerità ancora chiesta
dalla Commissione Europea. Ma come intende il governo utilizzare queste
risorse? Esse dovrebbero alimentare la domanda interna ma anche
aggredire le numerose strozzature che limitano fortemente la
competitività italiana.
La manovra del governo (SLIDE 11)
Infatti, il sistema produttivo italiano è
scarsamente competitivo nel confronto con la media europea, per non
parlare del confronto con Germania e Francia. Una analisi più
approfondita della questione è affrontata in un mio studio su “Il deficit di competitività del Mezzogiorno e del Paese”, che ho curato per la consulta economica del FIOM.
Il gap di competitività del sistema produttivo italiano (SLIDE 12)
Negli anni scorsi non sono state varate politiche industriali
adeguate a ridurre il gap di competitività del nostro sistema
produttivo. Non potendo nemmeno svalutare la moneta, l’unica politica
che è stata massicciamente praticata è stata la svalutazione del lavoro.
Si sono cioè ridotte le tutele sul lavoro ed è stato sempre facilitato
il ricorso al lavoro a termine che è molto meno costoso del lavoro a
tempo indeterminato (secondo i dati Eurostat la
differenza salariale di un’ora di lavoro tra le due tipologie di
contratti è di circa il 30%). In Italia abbiamo dunque tenuto fermi i salari
rispetto agli altri Paesi, tendando in tal modo di sostenere la
competitività delle nostre imprese. Una competitività tutta giocata
dunque sulla compressione dei costi relativi, non certo su innovazioni e
nuove tecnologie.
La stagnazione salariale per correggere il gap di competitività (SLIDE 13)
Le politiche di austerità e il ristagno
dei salari hanno determinato una contrazione drastica della domanda
aggregata, che ancora non è tornata ai valori del 2007-2008. Nella media
dei Paesi europei la domanda è invece cresciuta di oltre il 13%. La
stagnazione salariale ha contenuto la domanda e la crescita del Paese,
dal momento che in Italia la crescita è trainata dai salari, come
mostrano gli studi su quota salari e regime di accumulazione in Italia.
È grazie a questa dinamica di bassa domanda e bassa crescita che il
Paese è riuscito a mantenere, contenendo le importazioni e nonostante la
gravissima crisi di competitività, l’equilibrio della bilancia
commerciale.
Una domanda stagnante: la caduta dei salari sul pil (SLIDE 14)
Il gap di competitività rispetto alla
media europea è in larga misura il prodotto delle politiche di
austerità. Dal punto di vista della competitività territoriale, e dunque
del ritardo che riguarda soprattutto le infrastrutture materiali e
immateriali presenti sul territorio, dopo la crisi abbiamo assistito a
un ulteriore calo degli investimenti pubblici
che risultano sempre significativamente inferiori alla media europea.
In tal modo, il ritardo in termini di competitività territoriale si è
accentuato.
Il crollo degli investimenti pubblici: il ritardo italiano (SLIDE 15)
Il ritardo italiano in termini di
investimenti pubblici è ancora più apprezzabile ponendo il dato degli
investimenti europei 2007 pari a 100. Si osserva che in Italia gli
investimenti pubblici sono crollati di oltre il 30%; la riduzione media
europea è molto più contenuta. Viceversa, in Germania gli investimenti
sono aumentati vistosamente nello stesso periodo.
Dinamica degli incentivi: controtendenza italiana rispetto alla media europea (SLIDE 16)
Gravissima è anche la dinamica degli
incentivi e degli aiuti alle imprese. Ponendo pari a 100 il dato del
2007, si osserva che nel 2016 (ultimo dato ufficiale disponibile) nella
media dell’Unione Europea i finanziamenti risultavano
aumentati poco meno del 50%, mentre in Italia si sono ampiamente
ridotti. Si nota anche che nel 2008, anno di punta della crisi, in
Europa gli aiuti si sono quadruplicati mentre in Italia rimasero fermi.
In altre parole, mentre gli altri Stati europei correvano in soccorso
delle imprese in crisi, evitandone il fallimento, in Italia siamo
rimasti fermi, lasciando fallire migliaia di imprese e permettendo che
si distruggesse un capitale produttivo enorme.
La contrazione degli aiuti alle imprese: il sottofinanziamento italiano degli aiuti alle imprese e degli ammortizzatori sociali (SLIDE 17)
Per avere una dimensione numerica del
drammatico sottofinanziamento italiano degli investimenti pubblici,
degli aiuti alle imprese e degli ammortizzatori sociali (indispensabili,
affinché non vadano disperse professionalità importanti nelle fasi di
rallentamento della produzione e di crisi industriali) concentriamoci
sull’ultimo anno per il quale sono disponibili i dati ufficiali. Come si
osserva nella slide, tra investimenti, incentivi e ammortizzatori solo
nell’ultimo anno l’Italia ha speso 40 miliardi in meno di quanto avrebbe
dovuto stanziare per posizionarsi nella media europea. Come potrebbe
risultare competitiva?
La dimensione del sottoinvestimento pubblico 2017 (SLIDE 18)
Alla luce di questa analisi risulta
evidente che il Paese avrebbe bisogno di una nuova stagione di politiche
industriali capace di fare compiere un salto tecnologico-dimensionale
alle nostre imprese e ammodernare ampiamente il sistema
infrastrutturale. Gli investimenti dovrebbero muovere dal Mezzogiorno,
perché si tratta dell’area più arretrata del Paese e soprattutto perché
molti studi mostrano che qui l’impatto espansivo della spesa pubblica è
ancora maggiore, attivando un flusso di domanda che si rivolge alle
imprese del Centro-Nord.
La manovra del governo: non si tratta di una manovra che possa arrestare il sentiero declinante del Paese (SLIDE 19)
Ma la manovra del governo non sembra
andare in questa direzione. Se da un lato segna una inversione di
tendenza rispetto alle politiche di austerità, non emerge un nuovo
disegno di politica industriale. Né ci sono finanziamenti adeguati, dal
momento che vi è un incremento di risorse per il 2019 di appena 3,5
miliardi di euro (0,19% del pil). Non si tratta dunque di una manovra
che possa arrestare il sentiero declinante del Paese.
La realtà della manovra: il quadro appare insufficiente, mettendo a rischio l’obbiettivo di crescita per il 2019 (SLIDE 20)
* Riccardo Realfonzo è professore ordinario all’Università del Sannio, direttore di economiaepolitica.it e coordinatore della Consulta economica FIOM-CGIL
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