“Rispondiamo il lunedì e mercoledì dalle 10 alle 13. Il martedì e il giovedì dalle 15 alle 17. Il venerdì dalle 9 alle 11. In tutti gli altri giorni e orari è in funzione un servizio di segreteria telefonica”.
Mario Alberto Marchi Giornalista, consulente di comunicazione
E invece no. Si tratta di vera emergenza, oltre la quale c’è solo il pronto soccorso o la volante della polizia: è la presentazione del servizio di un centro antiviolenza che fa capo a un ricco e civilissimo comune del Nord Italia.Innanzitutto cos’è un centro antiviolenza? Si tratta di una struttura che può essere comunale, privata, ma la cui attività viene riconosciuta dalla regione di appartenenza o ancora totalmente privata. Tutte, comunque hanno come missione offrire sostegno psicologico, sanitario e legale a vittime di violenza domestica. Ovvero, nella maggior parte dei casi, donne.
Va detto che ogni centro lavora con un suo metodo, secondo sue possibilità e disponiblilità, ma – soprattutto se si tratta di strutture finanziate da istituzioni pubbliche, come nel caso citato – ci si aspetterebbe che funzionasse diversamente. La persona vittima di violenze, prende coraggio, decide di chiedere aiuto, magari approfittando di un momento in cui è sola, ma non vuole lasciare casa per rivolgesi al pronto soccorso o alla più vicina stazione dei carabinieri nel timore di ritrovarsi un una condizione ancora peggiore quando dovrà rientrare. Dunque prende in mano il telefono cercando la parola di conforto, di aiuto che la induca ad andare avanti nel sottrarsi alla violenza , ma… ha sbagliato giorno, oppure orario!
Davvero difficile pensare alla soluzione di un messaggio lasciato in segreteria: chi chiede aiuto, ben difficilmente lo fa in attesa di essere richiamato. Questo – comunque – accadrebbe se si conoscessero i numeri dei centri antiviolenza locali. Cosa già piuttosto difficile, visto che ognuno ha il suo (e non si comprende su quale parametro la vittima dovrebbe sceglierne uno piuttosto che un altro). Per ovviare al problema nel 2009 è stato istituito il numero unico nazionale antiviolenza 1522.
Tempo fa provai a chiamarlo attorno alle 23. Mi pare un’ora indicativa: dopo il classico litigio a cena, magari dopo un bicchiere di troppo, al momento di dividere il letto… L’operatrice mi ha risposto al dodicesimo squillo. Fossi stato vittima di violenze, a quel punto avrei avuto probabilmente poco da confidare se non di avere bisogno di un’ambulanza. Oppure ancora più probabilmente avrei desistito, bruciando quella rara occasione di coraggio preso a due mani e mi sarei rassegnato a subire ancora.
Ma se l’operatore mi avesse risposto in tempo utile, cosa mi avrebbe detto?
Semplice: appurato che non avessi intenzione di far intervenire le forze dell’ordine o non avessi bisogno di assistenza medica (anche perché avrei composto altri numeri), mi avrebbe esortato a chiamare il giorno seguente il centro antiviolenza più vicino. Sì, proprio quello che riceve telefonate per due ore al giorno, a giorni alterni e rigorosamente non nei festivi : figuriamoci se i coniugi violenti non riposano di domenica pure loro…
Sia chiaro, meglio tutto questo che nulla e bisogna comunque ringraziare chi volontariamente si mette a disposizione delle vittime, ci mancherebbe altro. Sono spesso psicologi, assistenti sociali, perfino avvocati e medici che offrono il massimo, accollandosi fatiche e responsabilità: a tutti loro va un plauso, visto che colmano un vuoto pubblico sconfortante. E proprio questo è il problema, il vuoto pubblico, il sistema lasciato all’iniziativa personale.
Chi usa violenza tra le mura domestiche non lo fa rispettando orari e turni. Non santifica le feste comandate. E chi è vittima è quasi sempre prigioniero di una paura costante, mitigata solo dalla speranza che “ domani , forse sarà diverso”. Ma non è mai così.
Ho parlato con vittime di violenze domestiche: tutte mi hanno raccontato di quell’attimo che va colto, altrimenti si ricade nella spirale che fa apparire il maltrattamento costante, quasi come un sollievo a fronte delle botte.
Già la realtà dei centri antiviolenza – pur nella massima buona fede – offre approcci diversi, dall’iperfemminismo militante al perdonismo coniugale religioso, che chi vi si rivolge non può conoscere e quindi scegliere, ma se poi si deve seguire la turnazione o le attese telefoniche degne di uno sportello informazioni dell’anagrafe, allora forse bisognerebbe ripensare un poco tutto. Se funziona la libera iniziativa, la volontà di aiutare, quel che non funziona è ancora una volta l’intero sistema, soprattutto quando vive di soldi pubblici. E magari val la pena di riflettere sul fatto che nessuna legge finanziaria prevede mai un apposito capitolo di spesa e che l’ultimo provvedimento specifico è proprio quel benedetto 1522 che risale ormai a dieci anni fa.
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