venerdì 30 novembre 2018

Salute & Informazione. Hiv, ritorno al passato: così l’Italia affonda tra ignoranza e discriminazione.

E' di nuovo tempo di sierofobia, come negli anni 80: untori, vestiti contaminati. E nell'indifferenza istituzionale aumentano i pregiudizi e la diffusione del virus.

Hiv, ritorno al passato: così l’Italia affonda tra ignoranza e discriminazione

Vestiti che bruciano e persone ai margini. Untori e peccatori. Non è una storia manzoniana ambientata nel 1600, ma l’Italia del 2018. Torna lo stigma verso per le persone sieropositive, quello degli anni Ottanta e della “peste gay”, quello della pubblicità progresso con l’alone viola minaccioso e ansiogeno che suggeriva: “Se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide”.

Se i media continuano a fare confusione tra HIV e AIDS (tra sieropositività e malattia), non va meglio dentro le istituzioni.
Dal punto di vista della prevenzione: il governo ritira l’emendamento alla legge di bilancio sulla distribuzione gratuita del preservativo agli under 26.
Da quello dell’informazione: quest’anno il ministero della Salute non comunicherà messaggi istituzionali durante la giornata mondiale contro l’AIDS. E non per ultimo, ad alimentare lo stigma anche la Procura della Repubblica di Catania: giorni fa fece discutere l’accusa all’ONG Aquarius di non aver smaltito gli indumenti dei migranti portatori di HIV.

«Sembra di essere tornati agli anni Ottanta» dichiara Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay che nel 1987 fondò la LILA (Lega italiana per la lotta contro l'AIDS). «Leggevo la nota della Procura di Catania e ho pensato al gay camp del 1983 a Porto Sant'Elpidio: le lavanderie si rifiutarono di lavarci lenzuola e coperte. Signorilmente risolvemmo il problema comprandocene delle nuove. Fu uno choc. Si parlò allora di "gay cancer", di "peste gay". Poi si è visto che "un virus non ha morale". Eppure, oggi stiamo ritornando indietro. Pericolosamente».Nel 2017 sono state segnalate 3.443 nuove diagnosi di infezione da HIV pari a 5,7 nuovi casi per 100.000 residenti, lo confermano i dati dell'Istituto Superiore di Sanità. L’incidenza maggiore di infezione è nella fascia di età 25-29 anni. La modalità di trasmissione principale tra le nuove diagnosi HIV è attraverso rapporti eterosessuali. E anche se il numero dei decessi rimane stabile, è il pregiudizio a fare più danni. “Non c’è niente di più punitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è invariabilmente moralistico” scriveva Susan Sontag nel 1989. A distanza di trent’anni essere sieropositivi è una colpa, una vergogna che “sarebbe meglio nascondere per vivere meglio” racconta Stefano, 24 anni e positivo al virus dell’HIV da quando ne aveva 20: “Non l'ho detto al mio dentista e negli ambienti in cui sapevo che sarei potuto essere discriminato”.

I sommersi
Le persone sieropositive diventano per la società italiana i sommersi. Gli sconosciuti. Gli invisibili. È negli ambienti sanitari che la discriminazione si annida, come spiega Paola, responsabile di un progetto della Parsec Cooperativa che si occupa di prevenzione e advocacy per le persone sieropositive: «Lo stigma si trova spesso già in ambito sanitario. Se nei centri dedicati c’è un’attenzione molto precisa verso le persone sieropositive, altrove la situazione è più complessa. A chi è sieropositivo ancora oggi può succedere di venire inserito per ultimo nella lista degli appuntamenti, a donne sieropositive è successo che durante una visita ginecologica il medico, che intimamente ha dei pregiudizi o che ingiustificatamente è poco informato sulle norme igienico-sanitarie universali, abbia messo incomprensibilmente due paia di guanti. L’HIV nelle strutture sanitarie ancora per alcuni scatena un no-sense. È la paura nei confronti dell’altro».

Una paura che paralizza mentre il tempo fa marcia indietro. Come spiega Elisa, 32 anni: “Durante una visita ginecologica e dovendo assumere farmaci piuttosto importanti, misi al corrente il medico della terapia che assumo per l’HIV per evitare eventuali contrasti tra gli eccipienti attivi. Resosi conto della situazione si rifiutò di visitarmi e nemmeno si avvicinò. In che anno vivo?». 
Giuseppe, che di anni ne ha 36, racconta: «Il mio dentista ha smesso di curarmi dopo il mio coming out da sieropositivo. Non trattava tali patologie e avrebbe avuto seri problemi a sterilizzare i ferri. Una scusa imbarazzante considerando che i ferri andrebbero sterilizzati non solo per l’HIV. Fuori dagli ambienti sanitari c’è l’ignoranza comune: “Fui obbligato a fare un corso HCCP per lavorare in un ristorante - racconta Luca - il docente che ci preparava alle norme igienico sanitarie disse, dandolo per scontato, che ovviamente le persone che vivono con HIV non dovrebbero lavorare né in cucina né in sala. Un pensiero antiscientifico e criminalizzante. Un pensiero criminale che però suonava a tutti come qualcosa di estremamente logico, quando non lo è per niente».

Le testimonianze trovano riscontro negli ultimi dati raccolti da Arcigay sullo stigma all’interno delle istituzioni sociosanitarie “Pensare Positivo”. Negli operatori c’è paura di contagio (un operatore su tre lo dichiara). La grande maggioranza (oltre il 70% del campione) non si mostra in disaccordo rispetto all’eventualità di introduzione di pratiche di discriminazione istituzionale: otto persone su dieci, ad esempio, non sono contrarie all’imposizione dell’obbligo di dichiarazione del proprio stato sierologico al personale sociosanitario, a prescindere dal tipo di intervento richiesto.

Silenzio istituzionale
Intanto il governo del cambiamento in occasione della Giornata mondiale contro l'Aids del primo dicembre sceglie il silenzio. Per quest’anno non è prevista nessuna campagna ministeriale. L'alibi o se preferite la buona ragione, come ovunque, è la crisi economica: «Le campagne hanno un costo per motivi anche economici preferiamo mantenere vivi gli slogan che abbiamo utilizzato negli anni scorsi», dichiara a L’Espresso il Ministero della Salute.

Zero informazione, ma anche poca prevenzione. È stato recentemente bocciato uno degli emendamenti alla Legge di Bilancio, che con un costo stimato di cinque milioni l'anno rendeva gratis i preservativi per gli under 26, per i richiedenti asilo, per le persone con MST e per le donne sottopostesi a un'interruzione volontaria di gravidanza. La storia di questo emendamento è una giostra da capogiro: proposto dalla deputata Pd Giuditta Pini in Commissione Affari Costituzionali, viene bocciato dal M5s che però lo ripropone dopo averlo copiato e infine lo ritira causa l’opposizione della Lega. Ma l’emendamento resta in piedi, depositato in un’altra commissione, quella di bilancio, proprio dalla deputata Pini. «E speriamo che passi - dichiara la deputata Pd - L’emendamento deve essere ancora votato in commissione Bilancio. La totale indifferenza da parte del governo su questo tema resta un problema per la sicurezza di tutti. Con un prezzo bassissimo potremmo aumentare la qualità di vita di tanti. Ma questo governo non intende fare nulla sulla prevenzione». E ricordando l’accusa della Procura di Catania, Pini attacca il ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Invece di informarsi rilancia la notizia causando un danno dal valore inestimabile. Si torna indietro di trent’anni”.

Il dato
L'ombra del pregiudizio è densa sulle persone sieropositive quando a illuminare le loro vite basterebbe un dato. Lo fornisce a L’Espresso Andrea Antinori, Direttore U.O.C. Immunodeficienze Virali, Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma: «Possiamo dire con assoluta sicurezza che una persona in terapia regolare e con viremia controllata non trasmette l’infezione. Questa è un’informazione tecnica che va contro lo stigma. Se il paziente non è contagioso si elimina l’elemento fondamentale dello stigma che oltre a essere negativo sul piano morale, allontana le persone anche dal fare il test».

In Italia sarebbero circa 15 mila le persone sieropositive inconsapevoli. «C’è uno studio molto interessante - aggiunge Antinori - tra l’Europa e l’Australia che ha raccolto persone sieronegative che avevano rapporti con sieropositive ma con viremia non rilevabili perché controllati dalla terapia. A fronte di 90 mila atti a rischio non protetti, non c’è stato neanche un solo episodio di trasmissione. Questo ha reso possibile che si parlasse di malattia non trasmettibile e rischio infettivo non esistente». E conclude: «Abbiamo delle persone che hanno un’infezione cronica che non è trasmissibile, occupiamoci della loro vita e normalizziamo questo processo».

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