giovedì 29 novembre 2018

Omicidio Regeni, la lezione della Procura di Roma

 
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Di fronte al collaborazionismo della Farnesina nella gestione Alfano (e governo Gentiloni), al silenzio omertoso di palazzo Chigi abitato da Renzi, Gentiloni e ora da Conte sui mille e passa giorni di bugie e depistaggi che pesano come macigni sull’omicidio di Giulio Regeni l’unica a muoversi è la Procura di Roma di Pignatone e Colaiocco. I due magistrati hanno iscritto nel registro degli indagati cinque mukhabarat del regime di Al Sisi che, nel mese di gennaio 2016, pedinavano il ricercatore friulano per poi rapirlo, torturarlo, assassinarlo. Si tratta d’un atto dovuto in base alle prove raccolte dai carabinieri del Ros, pur fra ostacoli viscidi come il limo del Nilo che sia la politica, sia la magistratura egiziane hanno frapposto in trentatre lunghi mesi di reiterata reticenza. Lo spazio dell’iniziativa è insignificante da un punto di vista legale, poiché la nostra magistratura non ha giurisdizione sul crimine avvenuto nel Paese arabo, ha però indirettamente un valore se vogliamo politico. Non secondo lo schema della ‘magistratura che fa politica’ sostenuto da chi odia l’operato dei giudici perché ha reati da nascondere.
Ha una ricaduta sul piano nazionale, che ha visto governi e ministri di svariate tendenze (Pd, Ncc, e ora figure tecniche sponsorizzate dai Cinque Stelle) fare passi di sostanziale ipocrisia oppure non fare nulla per mettere politicamente alle corde uno  Stato che fa dell’assassinio e della repressione indiscriminata la sua ragion d’essere. Ha, e può avere, un risvolto anche internazionale se altre componenti della vita pubblica italiana legata a interessi economici - come le aziende di Confindustria - in accordo coi ministeri preposti, intraprendessero la via della protesta civile, che migliaia di attivisti dei diritti praticano dalla scomparsa di Regeni, chiedendo verità e giustizia sul caso. Possono farlo tramite il disimpegno economico in terra d’Egitto e nelle prospicienti coste mediterranee dove l’Ente Nazionale Idrocarburi, tanto per citare la nostra azienda più nota e prestigiosa, lavora per il miliardario affare del gas del giacimento Zohr. Tutto ciò avrebbe certamente un’eco mondiale. Secondo taluni meschini commentatori sarebbe un autogol.
Beh, la nazione delle mille ‘partite del cuore’ se solo volesse potrebbe permetterselo, poiché rinunciare a commesse in risposta a un delitto commesso diventa la più alta delle risposte morali. Questi segnali sono, e possono essere, utili per far dibattere sullo scenario internazionale sull’anomalia del governo liberticida egiziano, come dovrebbe accadere per il regime saudita che ha smembrato con la sega per ossa il corpo di Jamal Khashoggi. Di fronte a simile cannibalismo geopolitico, i leader del G20 che da domani a Buenos Aires pensano e discutono solo di monete e affari hanno essi stessi sulla coscienza la condizione delle vittime già cadute in quella spirale omicida e, non mutando l’orizzonte, delle prossime che ci finiranno. Poiché Il Cairo, come Riyadh, celano i misfatti dei molti Regeni e Khashoggi liquidati con cinismo seriale. Rompere il cerchio di tale repressione delle idee, che rappresenta il motivo portante di quegli strazi, è compito della politica, dei partiti, dei governi, che invece sempre più risultano inerti e in altri casi complici o addirittura solidali coi mandanti.

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