Venerdì
30 novembre scenderanno in piazza studenti e lavoratori della scuola, i
quali, pur partendo da piani vertenziali apparentemente diversi, hanno
in comune un unico obiettivo politico: l’abolizione delle Legge
107/2015, la cosiddetta buona scuola.
Ma le intenzioni comuni hanno
anche una radice comune: lo sfruttamento sempre più sofisticato e
articolato del lavoro.La
“campagna Basta Alternanza” ha individuato il punto centrale delle
riforme europee tradotte dalla “Buona scuola”, ossia il completo
asservimento della formazione alle esigenze del sistema produttivo
attuale, sia dal punto di vista delle “competenze” (cioè le conoscenze
piegate alle finalità del mercato) che dal punto di vista della
mentalità. Non è un caso che nella nozione di “competenza”, oltre al
“sapere” e al “saper fare”, sia incluso il “saper essere”. L’“essere” in
questione è l’essere per il mercato, ossia per il capitalismo odierno.
In altre parole, non solo si deve sapere risolvere un problema che lo
sviluppo capitalistico pone (“saper fare”), ma si deve anche volerlo
risolvere, si deve accettarne le condizioni e le finalità (“saper
essere”, appunto). Per sottrarre lo sfruttamento della “pratica” ai fini
del mercato, gli studenti chiedono che essa venga “internalizzata”,
ossia gestita dalla scuola, secondo criteri formativi democraticamente
decisi dal mondo della scuola e tarata sui reali bisogni degli studenti
(ci sarebbe molto da dire sulla nozione di “bisogni formativi” e su chi
stabilisce quali essi siano).
Non
è un caso che un altro obiettivo degli studenti sia l’abolizione delle
prove Invalsi, ossia quel sistema di certificazione delle competenze su
cui la scuola (docenti e studenti) non esercitano nessun controllo, le
cui finalità non sono spesso conosciute alla stragrande maggioranza del
popolo della scuola e su cui non si può dire nulla: aspettiamo, infatti,
che qualcuno ci spieghi su quali basi si fondi la competenza
linguistica che le prove invalsi intendono misurare. Chi decide che
quella ricercata (e spessa imposta attraverso la didattica) dai sistemi
di valutazione sia l’abilità linguistica tout court?
Ma
non c’è solo questo ad essere preso di mira nella piattaforma
studentesca: l’autonomia scolastica e la regionalizzazione delle scuole
sono giustamente viste come strumenti di differenziazione che acuiscono
in senso territoriale e sociale le divisioni di classe all’interno del
sistema educativo nazionale, che sono funzionali alla competizione (già
in ambito formativo) nel mercato del lavoro (mercato sempre più
integrato a livello europeo).
L’USB
ha accolto l’invito degli studenti rivolto ai sindacati di base e
conflittuali ad appoggiare la loro lotta e ha indetto uno sciopero del
comparto scuola.
Quest’appoggio
ha un valore che va oltre la solidarietà rivendicativa (il punto
centrale è sempre la Legge 107/2015, oltre agli altri punti
rivendicativi che mirano a smantellare l’impianto di tutte le riforme
scolastiche degli ultimi 25 anni), ma ha un duplice valore politico
strategico: da una parte individua un obiettivo generale (le politiche
europee sulla formazione) e dall’altra tenta di ricomporre, per finalità
non “politiciste” (non si tratta di andare contro questo o quel
governo), un fronte di lotta nel mondo della scuola che metta assieme
lavoratori e studenti, avviando un necessario lavoro di ricostituzione
del blocco sociale, sottraendolo al blocco economico-sociale regressivo e
reazionario di questo paese, che sempre più si avvale del supporto
militare (leggi “scuole sicure” e militarizzazione).
Altro
bersaglio di questa lotta – va ricordato dopo l’ultima uscita di questo
governo – dovrebbe essere il tentativo di abolire il valore legale del
titolo di studio, che fa pendant con i tentativi di accelerare i
processi competitivi messi in atto con l’autonomia scolastica, la
regionalizzazione, il sistema dei crediti e la certificazione delle
competenze.
Quale
funzione dovrebbe avere l’abolizione del valore legale del titolo di
studio? Lo spiegava un anno fa Michele Tiraboschi (ordinario di Diritto
del lavoro Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e
coordinatore scientifico Scuola di alta formazione in Relazioni
industriali e di lavoro di ADAPT, l’associazione no profit fondata da
Marco Biagi nel 2000 per promuovere studi e ricerche di lavoro), in un
articolo sul Sole 24 ore: «all’epoca della Quarta rivoluzione
industriale, la competizione internazionale sarà sempre più una sfida
tra i diversi sistemi educativi e della ricerca che saremo in grado di
affrontare solo abbandonando la vecchia e falsa idea che il valore
legale del titolo sia garanzia e presidio dell’ideale egualitario».
Qualcuno
non lo ricorderà (o forse non lo sa proprio), ma il progetto di abolire
il valore legale del titolo di studio era già scritto (intorno alla
metà degli anni settanta) nel “Piano di rinascita democratica” (o della
“Rinascita nazionale”, come viene anche spesso indicato) della loggia
massonica P2 guidata da Licio Gelli. Sarà forse un caso che negli stessi
anni un progetto simile – soprattutto per la flessibilizzazione del
mercato del lavoro – era presente anche nel programma dei “Chicago
Boys”, ossia dei giovani economisti formatisi all’Università di Chicago
che furono i consiglieri economici del dittatore cileno Pinochet e
pionieri del neoliberismo? A noi sembra proprio di no. Dal Cile di
Pinochet al piano della P2 (totalmente applicato da tutti i governi
della seconda repubblica), passando attraverso tutte le controriforme
del lavoro (fino al Jobs Act) e fino al governo giallo-verde, la strada è
quella: la flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, ossia il
progetto neoliberista in tutte le sue varianti. L’Unione Europea
sostiene questo progetto, nella misura in cui i titoli di studio
dovranno contare sempre meno nel mercato europeo del lavoro, a favore
della certificazione delle competenze, che possono essere certificate da
enti non pubblici, come avviene in alcune parti degli USA dove esistono
enti non statali definiti “fabbriche di titoli” (“diploma mill” o
“degree mill”).
La
cornice della competizione internazionale dà un giro di vite alla corsa
competitiva nel mondo della formazione e del lavoro, ormai sono legati
in unico destino. E allora, l’alleanza tra lavoratori della scuola e gli
studenti/futuri lavoratori ha una ragion d’essere in più per ritrovarsi
in piazza il 30 novembre.
*Rete dei Comunisti
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