All’aeroporto
Ben Gurion a Tel Aviv vengo detenuto per quattro ore, scalzo, al freddo
di una stanza spoglia con indosso soltanto una maglietta. Mi hanno
sequestrato bagaglio, passaporto, cellulare e computer. Setacciano i
file, la mia vita, mi lasciano al freddo ad aspettare. Nel borsone ho,
ancora impacchettata, la kufia che Ehab Besseiso, il ministro della
cultura palestinese, mi ha regalato, insieme a Handala, il bambino che
si stringe le mani dietro la schiena, simbolo della resistenza della
gente dei territori occupati, e a una grande chiave di latta, altro
simbolo: ogni palestinese possiede ancora le chiavi della casa che è
stato costretto a sgomberare in fretta e furia sotto l’occupazione,
pensando che un giorno ci sarebbe tornato. E invece.
«Se voglio ti tengo qui per sempre», mi dice l’ufficiale di frontiera israeliano con in mano il mio iPhone, puntando il dito su una foto scattata da me a Hebron, coloni che per strada spintonano due ragazzini palestinesi, e su un’altra che mi ritrae con il ministro. Sono in Palestina per accompagnare l’uscita del mio ultimo romanzo, E tu splendi , in tutti i paesi del mondo arabo. Con Al-Mutawassit, il mio editore, decidiamo che debba essere il “luogo più silenzioso del pianeta” a ospitare il mio incontro con la stampa araba, il festival letterario di Ramallah. Io però nel paese ci sono entrato, al massimo adesso rischio di non uscirne.
La scrittrice palestinese Susan Abulhawa, in Palestina invece non riesce a entrarci, come molti dei palestinesi costretti all’esilio. Il 1. di novembre 2018, al Ben Gurion la Abulhawa è incarcerata per due giorni, atterrata per partecipare a un festival letterario a Gerusalemme, prima di essere respinta negli Usa, dove vive. «Noi palestinesi siamo gli unici che non possono entrare in Palestina», scrive poi su Facebook. «Sono gli israeliani che dovrebbero andarsene, non io. Io sono figlia di questa terra, qui c’è la casa della mia famiglia». Naturalmente si riferisce alla Nakba del 1948. La “catastrofe”, la creazione dello Stato d’Israele e la conseguente occupazione militare della Palestina. Il conflitto più lungo dell’era contemporanea.
La Palestina ti sfida a essere disposto a guardare l’ingiustizia della legge dell’uomo. L’esercizio più difficile. Un paese annientato tra le guerre tra i leader del mondo e le illusioni di pace.
«Qui la situazione è tremendamente semplice. Non c’è niente di complesso. C’è un paese occupato e un popolo che occupa», mi dice un ragazzo americano, volontario dell’International Solidarity Movement. La Palestina è un buco nero, è il buco nero del mondo. È lo scarto, ciò che resta dopo che i leader della terra hanno consumato le loro lotte di potere. La Palestina è l’osceno. Armi chimiche, fosforo bianco. Ogni arma proibita dagli accordi internazionali può essere utilizzata dagli israeliani contro i palestinesi. Più di centomila morti in settant’anni. Nessuno vede, nessuno parla. Se parli di ciò che accade in Palestina le parole vengono annerite. Scompaiono. Dai media, dal discorso pubblico. Conosce, l’uomo, ingiustizia più grande di questa: tutti sanno, e tutti fanno finta di non sapere?
Mi trovo a Ramallah, e so che per capire davvero gli equilibri - e i continui sfondamenti - che reggono il Medio Oriente (e su più vasta scala la dialettica tra Usa e monarchie del Golfo da un lato, e Russia, Iran e la Siria di Assad dall’altro) l’unica cosa che si può fare è sprofondare dentro quel buco nero. Non c’è oggi luogo sulla terra in cui la separazione tra parole e fatti, tra dialettica pubblico-diplomatica e realtà, sia più grande. “Due Stati”, “soluzione diplomatica” sono formule a cui in Palestina nessuno crede più. Di sicuro dal 14 maggio, giorno di duri scontri a Gaza e di più di 60 vittime, il giorno in cui Trump ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, di fatto chiudendo per sempre anche solo l’idea di un dialogo, e serrando le fila, apertamente e attraverso il genero e braccio destro Kushner, all’asse anti-Iran composta da Usa-Israele e dalle monarchie del Golfo. Questo è la Palestina oggi: lo scarto di una strategia anti-Iran.
«La verità è che ci hanno chiuso in prigione nella nostra terra», mi dice Khalid Mansour, un funzionario del ministero della Cultura. Oltre al festival di Ramallah, per me sono previsti incontri nelle università di Nablus, Hebron e Betlemme, e ci spostiamo a bordo di un fuoristrada. «Hanno preso tutto. Per entrare in quello che ci resta del nostro paese dobbiamo chiedere loro il permesso. Sempre che quel giorno abbiano voglia di aprire i check-point». Non è solo l’intifada dei coltelli mai cessata - l’ultima spiaggia della resistenza-, è il continuo stato di violenza a cui tutti sono ormai assuefatti.
A un altro check-point, quello di Kalandra, fisso negli occhi un soldato-ragazzino che stringe un mitragliere più grande di lui, in piedi davanti a una grande stella di David. Dallo specchietto retrovisore, l’autista della nostra jeep se ne accorge, e sibila “no” tra i denti. Il soldato assesta due potenti pugni sul vetro posteriore della vettura, la macchina si ferma. Il finestrino del lato del passeggero si abbassa, il giovanissimo militare infila la canna del fucile fino a una spanna dal viso di chi guida. Io non respiro, l’autista arabo invece gli sbraita contro, nella lingua dell’occupazione, in ebraico. Urla che avrebbe potuto spaccare il vetro, picchiando così forte. Il ragazzino si sfila gli occhiali da sole. Poi infila dentro la testa e ci scruta, noi zitti. Fissa me. Tre, quattro secondi. Non riesco ad abbassare lo sguardo, non sono abituato a una violenza così esibita, mi viene da resisterle. Gli viene detto, in ebraico, che sono uno scrittore italiano. Lui scrolla la testa. Poi fa segno che possiamo andare, in fretta. Quando siamo lontani, parte un applauso spontaneo all’autista. «Non si fissano. Mai», mi dicono. «I militari se vogliono sparano. Più sono giovani, più sparano. Ammazzano. Tengono coltelli pronti, in caso di uccisione. Estraggono il corpo dall’auto, gli affiancano un coltello e scattano due foto. Non gli accadrà mai niente».
Non è solo la violenza, è anche la continua vessazione. Sono gli ulivi millenari sradicati a ogni nuova confisca di terreno e insediamento di una nuova colonia, è l’acqua dei palestinesi razionata per colmare le piscine delle ville dei coloni. È una coppia di anziani malati ritratta in una foto diventata famosa tra i palestinesi, in carrozzina e bombole d’ossigeno davanti alle macerie della loro abitazione rasa al suolo dalle truppe d’invasione: smarriti, alla fine della loro vita non sanno dove andare. Sono gli arresti arbitrari (700 mila persone imprigionate negli ultimi trent’anni), senza capo d’imputazione né giudizio, rinnovabili ogni tre mesi, che possono estendersi anche per vent’anni.
Il ministro della Cultura mi porta a vedere il film-documentario palestinese di Raed Andoni, Gost Hunting . Conosco uno degli attori principali, Mohammed Khattab, lui stesso, come il regista, recluso per 17 anni, senza un motivo, un’imputazione. «Lo fanno per disgregarci socialmente», mi dice. «Se separi un padre dai suoi figli per diciassette anni stai rompendo una famiglia, e interrompendo la catena della memoria, cercando di portare quei ragazzi a scappare, a spopolare la Palestina». E invece, come Handala, devono resistere, mani intrecciate dietro la schiena. Tanto più dopo il 6 novembre scorso, quando Netanyahu ha approvato un disegno di legge per cui i giudici delle corti militari potranno sancire la pena capitale ai detenuti palestinesi anche senza la maggioranza del consiglio, in maniera arbitraria. Si potrà ammazzare in prigione.
Il giorno dopo dovremmo andare all’università di Betlemme, ma a Ramallah è tutto sospeso. Impossibile uscire dalla città. C’è una grande manifestazione contro un nuovo insediamento. Ci sono scontri. Forse c’è un morto, si dice. Forse c’è un ragazzo morto. La mattina seguente siamo a Hebron, dove c’è un insediamento di coloni nel centro della città. Faccio la mia conferenza all’università, i ragazzi sono interessati e curiosi, una decina di ragazze si presenta con copie pirata di Non dirmi che hai paura , che ha raggiunto un numero incredibile di lettori, soprattutto ragazzi, in tutti i paesi arabi. Nel centro della città di Hebron, una fitta rete metallica protegge i palestinesi dagli oggetti e dagli escrementi che i coloni lanciano loro addosso. Mentre camminiamo, alcuni coloni aggrediscono due ragazzini palestinesi che hanno l’unica colpa di passare di lì, sotto lo sguardo di militari israeliani di origine etiope (sono moltissimi gli etiopi che sentono la chiamata di Zion, in cambio di un posto sicuro e stipendiato dai coloni). Io scatto la foto che l’ufficiale all’aeroporto troverà, e che mi costerà il fermo. «Due giorni fa», mi spiega Khalid Mansour, «un colono ha investito in auto un ragazzo di diciassette anni che andava a scuola. È da due giorni quindi che i palestinesi lanciano pietre ai militari israeliani. E questa è solo la solita rappresaglia dei coloni».
«Il mio paese non è una valigia», dice un celebre verso del più famoso poeta palestinese, Mahmoud Darwish, nato prima della Nakba del 1948. «La mia casa invece è una valigia», mi dice Ghayath Almadhoun, poeta palestinese quarantenne - amico, prima di parole, poi di persona. Nato in un campo profughi di Damasco, Ghayath è ora cittadino svedese, ma la sua famiglia è stata espulsa due volte. Ghayath mi guarda, e sorride. Mi legge una sua poesia, che si chiama “Israele”. «Senza Israele, mio padre non sarebbe stato espulso dalla Palestina / Non sarebbe scappato in Siria / Non avrebbe mai incontrato mia madre / E io non sarei qui, ora / E tu non saresti la mia amante». Sull’aereo, una volta liberato dalla polizia di frontiera, ci penso. È vero, è tutto terribilmente semplice. «Noi palestinesi paghiamo le colpe dell’orrore europeo della Shoah», mi ha detto Ghayath. «Toccherebbe all’Europa cercare di mediare, per aiutare la Palestina a ritrovare una dignità». Già, l’Europa. Quale Europa?, penso.
«Se voglio ti tengo qui per sempre», mi dice l’ufficiale di frontiera israeliano con in mano il mio iPhone, puntando il dito su una foto scattata da me a Hebron, coloni che per strada spintonano due ragazzini palestinesi, e su un’altra che mi ritrae con il ministro. Sono in Palestina per accompagnare l’uscita del mio ultimo romanzo, E tu splendi , in tutti i paesi del mondo arabo. Con Al-Mutawassit, il mio editore, decidiamo che debba essere il “luogo più silenzioso del pianeta” a ospitare il mio incontro con la stampa araba, il festival letterario di Ramallah. Io però nel paese ci sono entrato, al massimo adesso rischio di non uscirne.
La scrittrice palestinese Susan Abulhawa, in Palestina invece non riesce a entrarci, come molti dei palestinesi costretti all’esilio. Il 1. di novembre 2018, al Ben Gurion la Abulhawa è incarcerata per due giorni, atterrata per partecipare a un festival letterario a Gerusalemme, prima di essere respinta negli Usa, dove vive. «Noi palestinesi siamo gli unici che non possono entrare in Palestina», scrive poi su Facebook. «Sono gli israeliani che dovrebbero andarsene, non io. Io sono figlia di questa terra, qui c’è la casa della mia famiglia». Naturalmente si riferisce alla Nakba del 1948. La “catastrofe”, la creazione dello Stato d’Israele e la conseguente occupazione militare della Palestina. Il conflitto più lungo dell’era contemporanea.
La Palestina ti sfida a essere disposto a guardare l’ingiustizia della legge dell’uomo. L’esercizio più difficile. Un paese annientato tra le guerre tra i leader del mondo e le illusioni di pace.
«Qui la situazione è tremendamente semplice. Non c’è niente di complesso. C’è un paese occupato e un popolo che occupa», mi dice un ragazzo americano, volontario dell’International Solidarity Movement. La Palestina è un buco nero, è il buco nero del mondo. È lo scarto, ciò che resta dopo che i leader della terra hanno consumato le loro lotte di potere. La Palestina è l’osceno. Armi chimiche, fosforo bianco. Ogni arma proibita dagli accordi internazionali può essere utilizzata dagli israeliani contro i palestinesi. Più di centomila morti in settant’anni. Nessuno vede, nessuno parla. Se parli di ciò che accade in Palestina le parole vengono annerite. Scompaiono. Dai media, dal discorso pubblico. Conosce, l’uomo, ingiustizia più grande di questa: tutti sanno, e tutti fanno finta di non sapere?
Mi trovo a Ramallah, e so che per capire davvero gli equilibri - e i continui sfondamenti - che reggono il Medio Oriente (e su più vasta scala la dialettica tra Usa e monarchie del Golfo da un lato, e Russia, Iran e la Siria di Assad dall’altro) l’unica cosa che si può fare è sprofondare dentro quel buco nero. Non c’è oggi luogo sulla terra in cui la separazione tra parole e fatti, tra dialettica pubblico-diplomatica e realtà, sia più grande. “Due Stati”, “soluzione diplomatica” sono formule a cui in Palestina nessuno crede più. Di sicuro dal 14 maggio, giorno di duri scontri a Gaza e di più di 60 vittime, il giorno in cui Trump ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, di fatto chiudendo per sempre anche solo l’idea di un dialogo, e serrando le fila, apertamente e attraverso il genero e braccio destro Kushner, all’asse anti-Iran composta da Usa-Israele e dalle monarchie del Golfo. Questo è la Palestina oggi: lo scarto di una strategia anti-Iran.
«La verità è che ci hanno chiuso in prigione nella nostra terra», mi dice Khalid Mansour, un funzionario del ministero della Cultura. Oltre al festival di Ramallah, per me sono previsti incontri nelle università di Nablus, Hebron e Betlemme, e ci spostiamo a bordo di un fuoristrada. «Hanno preso tutto. Per entrare in quello che ci resta del nostro paese dobbiamo chiedere loro il permesso. Sempre che quel giorno abbiano voglia di aprire i check-point». Non è solo l’intifada dei coltelli mai cessata - l’ultima spiaggia della resistenza-, è il continuo stato di violenza a cui tutti sono ormai assuefatti.
A un altro check-point, quello di Kalandra, fisso negli occhi un soldato-ragazzino che stringe un mitragliere più grande di lui, in piedi davanti a una grande stella di David. Dallo specchietto retrovisore, l’autista della nostra jeep se ne accorge, e sibila “no” tra i denti. Il soldato assesta due potenti pugni sul vetro posteriore della vettura, la macchina si ferma. Il finestrino del lato del passeggero si abbassa, il giovanissimo militare infila la canna del fucile fino a una spanna dal viso di chi guida. Io non respiro, l’autista arabo invece gli sbraita contro, nella lingua dell’occupazione, in ebraico. Urla che avrebbe potuto spaccare il vetro, picchiando così forte. Il ragazzino si sfila gli occhiali da sole. Poi infila dentro la testa e ci scruta, noi zitti. Fissa me. Tre, quattro secondi. Non riesco ad abbassare lo sguardo, non sono abituato a una violenza così esibita, mi viene da resisterle. Gli viene detto, in ebraico, che sono uno scrittore italiano. Lui scrolla la testa. Poi fa segno che possiamo andare, in fretta. Quando siamo lontani, parte un applauso spontaneo all’autista. «Non si fissano. Mai», mi dicono. «I militari se vogliono sparano. Più sono giovani, più sparano. Ammazzano. Tengono coltelli pronti, in caso di uccisione. Estraggono il corpo dall’auto, gli affiancano un coltello e scattano due foto. Non gli accadrà mai niente».
Non è solo la violenza, è anche la continua vessazione. Sono gli ulivi millenari sradicati a ogni nuova confisca di terreno e insediamento di una nuova colonia, è l’acqua dei palestinesi razionata per colmare le piscine delle ville dei coloni. È una coppia di anziani malati ritratta in una foto diventata famosa tra i palestinesi, in carrozzina e bombole d’ossigeno davanti alle macerie della loro abitazione rasa al suolo dalle truppe d’invasione: smarriti, alla fine della loro vita non sanno dove andare. Sono gli arresti arbitrari (700 mila persone imprigionate negli ultimi trent’anni), senza capo d’imputazione né giudizio, rinnovabili ogni tre mesi, che possono estendersi anche per vent’anni.
Il ministro della Cultura mi porta a vedere il film-documentario palestinese di Raed Andoni, Gost Hunting . Conosco uno degli attori principali, Mohammed Khattab, lui stesso, come il regista, recluso per 17 anni, senza un motivo, un’imputazione. «Lo fanno per disgregarci socialmente», mi dice. «Se separi un padre dai suoi figli per diciassette anni stai rompendo una famiglia, e interrompendo la catena della memoria, cercando di portare quei ragazzi a scappare, a spopolare la Palestina». E invece, come Handala, devono resistere, mani intrecciate dietro la schiena. Tanto più dopo il 6 novembre scorso, quando Netanyahu ha approvato un disegno di legge per cui i giudici delle corti militari potranno sancire la pena capitale ai detenuti palestinesi anche senza la maggioranza del consiglio, in maniera arbitraria. Si potrà ammazzare in prigione.
Il giorno dopo dovremmo andare all’università di Betlemme, ma a Ramallah è tutto sospeso. Impossibile uscire dalla città. C’è una grande manifestazione contro un nuovo insediamento. Ci sono scontri. Forse c’è un morto, si dice. Forse c’è un ragazzo morto. La mattina seguente siamo a Hebron, dove c’è un insediamento di coloni nel centro della città. Faccio la mia conferenza all’università, i ragazzi sono interessati e curiosi, una decina di ragazze si presenta con copie pirata di Non dirmi che hai paura , che ha raggiunto un numero incredibile di lettori, soprattutto ragazzi, in tutti i paesi arabi. Nel centro della città di Hebron, una fitta rete metallica protegge i palestinesi dagli oggetti e dagli escrementi che i coloni lanciano loro addosso. Mentre camminiamo, alcuni coloni aggrediscono due ragazzini palestinesi che hanno l’unica colpa di passare di lì, sotto lo sguardo di militari israeliani di origine etiope (sono moltissimi gli etiopi che sentono la chiamata di Zion, in cambio di un posto sicuro e stipendiato dai coloni). Io scatto la foto che l’ufficiale all’aeroporto troverà, e che mi costerà il fermo. «Due giorni fa», mi spiega Khalid Mansour, «un colono ha investito in auto un ragazzo di diciassette anni che andava a scuola. È da due giorni quindi che i palestinesi lanciano pietre ai militari israeliani. E questa è solo la solita rappresaglia dei coloni».
«Il mio paese non è una valigia», dice un celebre verso del più famoso poeta palestinese, Mahmoud Darwish, nato prima della Nakba del 1948. «La mia casa invece è una valigia», mi dice Ghayath Almadhoun, poeta palestinese quarantenne - amico, prima di parole, poi di persona. Nato in un campo profughi di Damasco, Ghayath è ora cittadino svedese, ma la sua famiglia è stata espulsa due volte. Ghayath mi guarda, e sorride. Mi legge una sua poesia, che si chiama “Israele”. «Senza Israele, mio padre non sarebbe stato espulso dalla Palestina / Non sarebbe scappato in Siria / Non avrebbe mai incontrato mia madre / E io non sarei qui, ora / E tu non saresti la mia amante». Sull’aereo, una volta liberato dalla polizia di frontiera, ci penso. È vero, è tutto terribilmente semplice. «Noi palestinesi paghiamo le colpe dell’orrore europeo della Shoah», mi ha detto Ghayath. «Toccherebbe all’Europa cercare di mediare, per aiutare la Palestina a ritrovare una dignità». Già, l’Europa. Quale Europa?, penso.
Nessun commento:
Posta un commento