In un celebre passaggio del ‘Faust’, Johann Wolfgang von Goethe ci descrive il terribile tormento cui è sottoposto il personaggio della sua opera:
A me nel petto, ah! vivono due anime, e l’una vuol dividersi all’altra. In una crassa bramosia d’amore una si aggrappa al mondo con organi tenaci, e l’altra si solleva con forza dalla polvere, verso i campi di nobili antenati
Deve essere una situazione con cui è estremamente complicato convivere e, sinceramente, non la augureremmo a nessuno. Neanche ad un personaggio che ha fattospesso capolino in queste pagine, e mai per prendersi complimenti.
Possiamo, infatti, solo immaginare quanto il petto di Tito Boeri possa essere dilaniato. Da un lato, l’opinione pubblica, specialmente nell’ultimo anno, lo ha imparato a conoscere come fidato cane da guardia dell’austerità pensionistica più severa. Sono state sufficienti timidissime proposte – allo stato attuale non attuate e lungi dall’essere attuate – da parte del governo gialloverde, di provare ad intaccare in misura minima ed insufficiente gli effetti più deteriori della Riforma Fornero, perché il Tito nazionale, eroe della pseudo-opposizione all’attuale maggioranza, prospettasse scenari apocalittici. In particolare, allentare l’innalzamento dell’età pensionabile – un processo iniziato molti anni fa con Amato e Dini e portato a compimento dalla Fornero – causerebbe un’esplosione del debito pensionistico di 100 miliardi, la violazione del patto intergenerazionale ed altre catastrofi assortite.
Soffermandosi però solamente su uno degli aspetti dell’anima di Boeri, si rischierebbe di fare un torto alla grande ricchezza interiore del nostro novello Faust. Ecco perché, allora, può essere utile andare a ripescare un contributo del settembre 2016, scritto dal nostro insieme a due co-autori. Si parte subito con un tema molto sensibile, l’esplosione della disoccupazione giovanile negli anni seguenti alla Grande Recessione, un fenomeno che ha interessato in particolare i paesi della periferia meridionale dell’Europa, tra cui ovviamente l’Italia. Come ci ricordano gli autori dell’articolo, la letteratura scientifica aveva anticipato da diversi anni che la diffusione di forme contrattuali precarie e l’aumento della percentuale dei contratti a termine avrebbero avuto, come conseguenza naturale, gravi conseguenze occupazionali per coloro che sono entrati per ultimi sul mercato del lavoro, i più giovani. Tuttavia, il mistero pare più profondo, e necessita di un ulteriore approfondimento. Guardando alla figura 1, gli autori notano la contemporanea presenza di tue trend contrapposti.
FIGURA 1: tasso di occupazione per ‘giovani’ (linea blu continua) e ‘vecchi’ (linea rossa tratteggiata), UE15 (paesi dell’Unione Europea prima dell’allargamento del 2004)
Fonte: Boeri, Garibaldi e Moen (2016)
Il tasso di occupazione per i ‘giovani’, infatti, è in caduta libera. D’altro canto, il tasso di occupazione per i ‘vecchi’ cresce in maniera continua. Ecco allora che si fa largo negli autori LA domanda: “il declino nell’occupazione giovanile è, per caso, collegato a cambi nelle regole per andare in pensione?”
A questo punto la storia si fa interessante davvero, perché l’articolo passa a concentrarsi su un “eccellente caso-studio” di aumento inatteso nell’età necessaria per andare in pensione, rappresentato dall’implementazione della Riforma Fornero nei ruggenti anni del Governo Monti.
FIGURA 2: tasso di occupazione per ‘giovani’ (linea blu continua) e ‘vecchi’ (linea rossa tratteggiata), Italia
Fonte: Boeri, Garibaldi e Moen (2016)
Come ci ricordano Boeri e co-autori, la Legge Fornero ha previsto un innalzamento dell’età pensionabile che, per alcune categorie di lavoratori, arriva fino a cinque anni. Che cosa scoprono i nostri insospettati amici, attraverso sofisticate analisi econometriche? Beh, per usare le loro parole, “i risultati sono chiari”: le imprese più soggette all’applicazione dell’innalzamento obbligatorio dell’età pensionabile “hanno ridotto significativamente l’assunzione di giovani” e la Riforma ha “ridotto le prospettive lavorative dei giovani”. Addirittura, ci mettono in guardia, “corriamo il rischio di una generazione perduta in Europa”, poiché riforme di questo tipo causano “un prolungato e pressoché totale congelamento delle nuove assunzioni, particolarmente quando i lavoratori più anziani sono costretti a rimanere attivi dall’aumento dell’età pensionabile”. Nulla di tutto questo ci stupisce, ovviamente. È buonsenso, più che sofisticato ragionamento economico. E, altrettanto ovviamente, prendere atto di queste cose non rende Boeri e co. meno innamorati dell’austerità pensionistica. Come si premurano di ricordare nelle loro conclusioni, “ridurre la generosità delle pensioni nel mezzo della crisi europea dei debiti sovrani era probabilmente inevitabile”, suggerendo anche che questo si sarebbe potuto e dovuto effettuare penalizzando coloro che decidono di andare in pensione anticipatamente, prima della ‘normale’ età pensionabile.
Rimane solamente, a questo punto, il dubbio su cosa sia successo, negli ultimi due anni, all’anima di Boeri. Le opzioni ci sembrano due: o il Boeri del 2018 ritiene che l’analisi fatta dal Boeri del 2016 fosse viziata da qualche problema tecnico o teorico e, quindi, non degna di essere presa sul serio e meritevole di abiura. Oppure il Boeri del 2018, sempre più invischiato nella guerra per bande che vede contrapposti due diversi schieramenti – ‘europeisti’ contro ‘sovranisti’ – che si contendono il poco invidiabile primato di comeimpartire la macelleria sociale, ribadisce la sua adesione cieca, acritica ed irrazionale alla versione ‘ufficiale’ del dogma dell’austerità, rinfocolata dal mito dell’insostenibilità dei conti dell’INPS. E se questo significa sacrificare e buttare a mare la “generazione perduta”, tanto peggio.
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