C’è un
merito che bisogna riconoscere ai compagni di Noi restiamo da quando
sono nati: quello dello sforzo teorico di ricostruzione di un quadro
della questione sociale giovanile all’interno delle dinamiche della
competizione capitalistica globale, con particolare attenzione allo
specifico della situazione italiana.
Il nuovo lavoro di ricerca e di analisi, Giovani a sud della crisi
(ottobre 2018), è in qualche modo il punto di arrivo (certamente
temporaneo) di questo sforzo teorico, e lo fa cercando di mettere
assieme tanti pezzi di ragionamento a partire dai processi economici in
atto, dalla sua configurazione geografica, passando ad analizzare il
mondo della ricerca, della formazione universitaria e scolastica,
giungendo a trattare i nodi dello sfruttamento del lavoro giovanile e i
processi di emigrazione.
Lo
sforzo di afferrare tutti gli “anelli” (per utilizzare un’espressione
leniniana) di questa catena di sviluppo del processo in atto, è lo
sforzo di chi vuole dare una base concreta alla propria azione politica. Utilizziamo l’aggettivo “concreto” nel senso inteso da Marx, quando scriveva nei Grundrisse (gli appunti preparatori del Capitale):
«il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni,
quindi unità del molteplice. Per questo nel pensiero esso si presenta
come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza».
Per il pensiero il “concreto” è un punto di arrivo. Per l’azione è il punto di partenza.
Il libro
si divide in due parti. La prima parte comprende 4 capitoli (più quello
introduttivo) a firma dei compagni di Noi restiamo, in cui viene messa a
punto la loro analisi.
La
seconda parte è coperta dagli interventi di altri collettivi con cui gli
autori si sono confrontati in questo sforzo di analisi: il CAU Napoli,
il Collettivo Laika di Grosseto, il Collettivo Politico Porco Rosso di
Siena e Coniare rivolta di Roma, i quali propongono analisi dei contesti
locali in cui si trovano ad agire e offrono spunti di riflessione
importanti, sia per completare il quadro sia per allargare il campo
visivo.
I primi
cinque capitoli del libro indagano ognuno un tassello del ragionamento
generale su come si organizza in Europa il sistema di creazione di
“conoscenze e competenze”. Il cap. 2 prende in esame la distribuzione
dei fondi della ricerca in ambito europeo. Il cap. 3 analizza le riforme
universitarie in Italia alla luce dei mutamenti europei in ambito
formativo, facendo un raffronto tragli esiti di questi processi di
riforma in alcuni dei paesi PIGS (in particolare Italia e Spagna) con
quelli del centro produttivo europeo, definiti paesi core, quali la Germania.
Da qui si passa, nel cap. 4, all’analisi del mercato del lavoro giovanile, facendo un’analisi della situazione italiana e un focus
sulla situazione dei paesi PIGS. A questo punto diventa necessario
affrontare nel cap. 5 le dinamiche migratorie giovanili interne alla UE
con un raffronto, ancora una volta, tra paesi PIGS e paesi core.
A
leggere questi 4 capitoli di seguito non si può non rimanere colpiti
della convergenza dei risultati di questa indagine. Molti degli
indicatori utilizzati (il libro è ricco di fonti, statistiche e grafici,
che lo rendono ancora più prezioso) fanno capire nel dettaglio quale
sia il processo di gerarchizzazione interno all’Unione europea: la
distribuzione diseguale dei fondi alla ricerca, con un centro che attira
fondi e ricercatori e una periferia che li perde: la gerarchizzazione
delle università all’interno della UE, ma anche all’interno dell’Italia,
che ci parla di un processo di scomposizione dei sistemi educativi
nazionali, che il recente tentativo di regionalizzazione dell’istruzione
conferma fino alla fine; il ruolo non secondario della differente
distribuzione dei fondi per l’università e, a cascata, la qualità e i
costi dell’offerta formativa, nell’approfondire le differenze interne
all’Ue e all’Italia; la spiccata precarizzazione del lavoro a seguito
della gerarchizzazione produttiva in Europa; i processi migratori come
effetto finale, che con i suoi 5 milioni di migranti, la maggior parte
nei paesi core della UE, ci parla di una mancata specializzazione
produttiva in Italia.
Tutti
questi elementi ci mostrano in maniera evidente, al di là della retorica
dell’Europa dei popoli (che, finché rimane in piedi questo assetto
istituzionale ed economico-finanziario, sarà di là da venire),
un’economia integrata all’interno della UE, i cui differenti capitalismi
nazionali si strutturano in maniera gerarchica (seppur non senza
frizioni), con un centro e una periferia. Certamente, la realtà è più
sfaccettata di come la presentiamo qui, ma occorre leggere la tendenza
in controluce per vedere la figura nella sua unità.
Il capitolo finale del libro raccoglie un report
del convegno sulle università organizzato a maggio del 2018, in cui a
parlare erano presenti diverse realtà studentesche italiane (quelle
citate sopra più un collettivo sardo) ed europee (Catalogna, Svizzera,
Parigi). Chiude il report un piano di intervento basato su tre
punti: 1) la necessità di un fronte di alleanza tra segmenti della
società, in particolare con il sindacalismo metropolitano che affronti
la questione sociale; 2) indicare il campo della lotta al livello
europeo; 3) riprendere i momenti di confronto a livello nazionale,
provando ad articolare la lotta nei singoli territori.
Crisi sistemica e catena del valore
Ci
sembra non sia inutile provare a dare una sintesi veloce delle
argomentazioni offerte dal libro, per introdurre il lettore alla serie
di dati elaborati nella ricerca.
Come
accennavamo all’inizio, la ricostruzione del concreto concatenarsi dei
piani di analisi va da quelli più generali della competizione
capitalistica globale, della crisi sistemica e delle risposte
politico-economiche a questa crisi (come la costituzione di macroaree
economiche sempre più integrate, quali la UE) a quelli via via più
specifici (nazionali e regionali).
Nel
contesto della crisi del capitale, i cui livelli di crescita sono
calanti da un secolo a questa parte (se si escludono alcuni periodi
eccezionali come quelli postbellici), la ristrutturazione economica
avviatasi intorno agli anni ’80, ha indotto le economie occidentali, per
mantenere margini di profitto desiderati, a puntare, più che sulla
crescita quantitativa, su quella qualitativa, intendendo con ciò un
processo produttivo che puntava sulla ricerca, l’innovazione scientifica
e tecnologica (qualità) quali elementi determinanti nella concorrenza.
Se i margini di profitto sono pochi, chi innova ha più chances di
essere competitivo sul mercato. L’innovazione richiede ricerca e
lavoratori sempre più qualificati. Chi forma i lavoratori qualificati
non è l’impresa, ma è il sistema d’istruzione nazionale. Dagli anni ’80
in poi, gli industriali di tutto il mondo capitalistico puntano la loro
attenzione sui sistemi educativi per formare i lavoratori che il nuovo
paradigma produttivo richiede.
Un
modello produttivo produce merci, è noto, e la sua prima merce è il
lavoro. Che tipo di lavoro richiede il nuovo paradigma produttivo? Se il
vecchio sistema di fabbrica puntava all’aumento della popolazione per
aumentare la massa della forza lavoro “puramente fisica”, quello dei
capitalismi avanzati come quello europeo ha bisogno di forza lavoro
specializzata. Questo obiettivo era già stato fissato sin dalla
fondazione della nascita della CEE alla fine degli anni ‘50, ma allora
riguardava solo la manodopera industriale, certo più evoluta rispetto a
quella ottocentesca e primonovecentesca. La specializzazione è un
effetto della concorrenza, che è a sua volta il segno che la crescita
quantitativa cede piano piano il passo a quella competitiva. Non è un
caso che si inizia a parlare di “risorse umane” negli Usa proprio alla
fine degli anni ‘50. L’economia di guerra era finita, la crisi economica
di primo Novecento – che aveva portato allo scontro tra imperialismi e
al keynesismo di guerra americano che ne ha beneficiato – si
ripresentava, ma a influenzarne gli esiti “automatici” c’era allora il
blocco socialista, che con la sua sola presenza (al di là delle
effettive intenzioni) costituiva una minaccia costante per l’ordine
capitalista, non fosse altro che per l’esempio che offriva a tutti circa
la possibile alternativa sociale ed economica al capitalismo.
La
risposta alla crisi doveva essere data, sì, ma senza fare emergere
“velleità rivoluzionarie”. La crisi economica nei paesi occidentali
comincia a farsi risentire sul finire degli anni ‘60, e se i grafici che
Carchedi ha mostrato sono validi (vedi L’esaurimento dell’attuale fase storica del capitalismo,
Contropiano n.1, 2017, e disponibile in rete
https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/8750-guglielmo-carchedi-l-esaurimento-dell-attuale-fase-storica-del-capitalismo.html)
è possibile avere conferma di ciò. Il calo del tasso di profitto è una
tendenza secolare. In questo quadro, la competizione aumenta e a un
certo punto si richiede il cambio di paradigma produttivo. La fine del
fordismo data inizio anni ‘70, ma le sue premesse sono ancora più
antiche. Non essendoci una crescita per tutti, ma una crescita solo in
primo luogo per chi si specializza (e in subordine per chi risparmia sul
costo del lavoro o ricorre a misure monetarie come la svalutazione,
come avveniva in Italia all’interno dello SME e prima della moneta
unica), il ricorso alla specializzazione, quindi all’attenzione ai
sistemi formativi e alla ricerca, diventa sempre più un punto strategico
della competizione. Si è detto che quanto meno margine di profitto c’è,
tanto più cresce la competizione. Tanto più aumenta la competizione,
tanto più si mira alla specializzazione. Questo è un fenomeno che ha
interessato tutti i paesi industriali avanzati.
La
cosiddetta globalizzazione ha distribuito su tutto il pianeta il lungo
processo di creazione del valore. Non ci sono più unici centri
produttivi dove si progetta e si produce la merce dall’inizio alla fine,
ma una dislocazione spaziale che divide il processo produttivo. Il
lavoro sporco della fabbrica tradizionale viene spostato nelle nuove
periferie produttive, dove è possibile aumentare le ore di lavoro e
pagare una miseria gli operai. Al centro rimane la progettazione e tutto
ciò che è annesso al prodotto finito (marketing, branding, packaging,
ecc. ecc.). La creazione del valore dalla periferia al centro è ciò che
viene chiamata catena del valore, dove chi sta al centro si accaparra
la maggior fetta di valore prodotto. Questa è la forma del
neocolonialismo. Ed è questo il quadro storico ed economico presupposto
dall’analisi che i compagni di Noi restiamo offrono al lettore.
Catena del valore e gerarchizzazione dei sistemi formativi
L’effetto
immediato di questa catena è la gerarchizzare di funzioni e aree
produttive, ma anche la distribuzione in maniera diseguale del valore
prodotto, la cui parte principale va al centro. In questo centro operano
i sistemi formativi avanzati che, appunto, hanno il compito di
mantenere in piedi la posizione di privilegio all’interno della catena
produttiva di valore.
Questa
differenziazione produttiva è leggibile all’interno delle dinamiche
europee (cioè della UE). La regionalizzazione della UE vede un nord e un
sud, ma anche un ovest e un est. Non è senza significato il fatto che
ai suoi esordi la Lega voleva staccare il nord Italia per legarlo al
centro produttivo europeo.
Senza
comprendere questa differenziazione produttiva non si capiscono gli
effetti sulla regionalizzazione dei sistemi formativi, con i loro
sviluppi diseguali in termini di fondi, laureati, abbandoni ed emigrati.
L’architettura
economica, finanziaria e giuridica della UE agisce in modo coordinato a
creare questa differenziazione. Per fare un esempio: in presenza di
fenomeni di deindustrializzazione in Italia, non si sono avuti percorsi
di specializzazione produttiva, ma di dequalificazione. Inoltre, il
progetto dell’industria 4.0 (senza contare gli effetti di espulsione di
manodopera dal settore di applicazione) a oggi rimane un progetto e
l’attuale governo ha persino tagliato i fondi destinati a questo
progetto. Come mai? Non si può rispondere se non ricorrendo a quel
complesso di concause che sono i tagli di bilancio per effetto delle
politiche di austerità, la ripresa economica che non c’è (se il PIL non
aumenta non aumentano nemmeno gli introiti statali), il ruolo
dell’Italia nella catena del valore (inutile fare uno sforzo di
ammodernamento se non puoi giocarti questa partita tra grandi), la
difficoltà italiana a essere competitiva ad alti livelli, lo spazio
concesso solo per la competizione al ribasso, con la proletarizzazione
degli specializzati e il ricorso allo sfruttamento del lavoro migrante
lì dove la specializzazione non interviene ed è più utile, al fine
dell’estrazione di valore, ricorrere a sistemi di sfruttamento
ottocenteschi. Senza questo quadro non si capisce perché, pur essendo il
numero di chi emigra dall’Italia uguale al numero dei migranti
provenienti da fuori, chi va via sono in specie gli specializzati e chi
arriva è la classica “manodopera” inserita i settori non specializzati e
a basso costo. I fenomeni migratori sono solo l’effetto di questa
gerarchizzazione all’interno della catena del valore.
Vista
dal punto di vista “europeo” (o, meglio, dal punto di vista di quelle
aeree che occupano il centro all’interno della catena produttiva) i
sistemi formativi devono creare il bacino di lavoratori specializzati:
più si ingrossa, più sono alte le possibilità di sfruttare le
intelligenze formate e messe in campo. Ma, al contempo, aumenta anche la
concorrenza tra i lavoratori specializzati, con la classica diminuzione
del costo del lavoro specializzato.
Vista
dal punto di vista dell’Italia (e di altri paesi che hanno una posizione
simile, se non peggiore, nella catena del valore), le politiche europee
sulla formazione a tutti i livelli e sulla ricerca, hanno l’effetto di
declassarla e di differenziarla al proprio interno.
Catena del valore e gerarchizzazione dei lavoratori: proletarizzazione ed emigrazione
Il
lavoratori non hanno patria, diceva Marx, ma non tutti vivono le
tendenze evolutive del capitalismo allo stesso livello. E questo
sicuramente ha effetti immediati sul modo di autorappresentarsi dei
lavoratori, su come leggono, a partire dalla loro realtà immediata, la
loro condizione. Chi vuol lavorare alla ricostruzione di un fronte di
lotta deve sicuramente capire i fenomeni e le loro rappresentazioni,
smontando quelle tossiche, possibilmente.
Ora, in
questo compito ci vengono in aiuto i dati estrapolati sui processi
migratori che si sono messi in moto in questo quadro di
gerarchizzazione, leggibile anche alla luce degli effetti post-crisi
finanziaria 2008-2010. Chi risponde meglio alla crisi finanziaria in
Europa sono ancora una volta i paesi core. I paesi PIGS non hanno
saputo riprendersi e stentano maledettamente a ritornare a una
condizione simile a quella precedente la crisi. Le politiche europee per
combattere la disoccupazione giovanile (ossia di quel settore di lavoro
produttivo sottoposto a più alto tasso di sfruttamento) non hanno
nessun effetto nei paesi periferici, come in Italia, se non quelli di
consegnali a una stabile precarietà e a una progressiva
proletarizzazione. Le politiche nazionali (fino al Jobs act) non
hanno fatto altro che subordinare sempre più il lavoro alle esigenze di
un’economia debole, e che in quanto tale non può puntare (al di là delle
retoriche sul “mismatch” tra “skills” richieste e quelle offerte) ad
assorbire lavoratori che in realtà sono troppo specializzati. È questa
la base della cosiddetta overeducation, ormai diventata soggetto perfino di film di distribuzione di massa come Smetto quando voglio (la
cui lettura però è fuorviante perché continua ad attribuire i mali dei
ricercatori ai baroni universitari e al nepotismo, che sono semmai un
effetto piuttosto che la causa).
Insomma,
sulla lettura della disoccupazione giovanile si gioca una partita
ideologica fondamentale, che fa uso anche di statistiche truccate, come
quelle trimestrali sull’occupazione, che tiene conto di chi ha fatto
anche un’ora di lavoro nel periodo considerato… Il punto è che la
disoccupazione giovanile, specie tra chi ha un titolo di studio di
secondo livello, è enorme al livello europeo, con punte drammatiche
nelle periferie produttive. È così che si creano i moderni eserciti
industriali di riserva pronti per l’emigrazione.
Si
arriva così all’ultimo capitolo, dove si analizza quello che viene
definito “un fenomeno di massa simile per dimensioni a quello del
dopoguerra”, un fenomeno che per la sua imponenza “è difficile
attribuire a scelte individuali”. Ed è analizzando questo fenomeno che
vediamo meglio le due periferie dell’Unione europea, quella a est e
quella sud.
La
centralizzazione economica europea che produce la divisione gerarchica
risalta ora sotto un altro angolo visuale. Saldi e flussi migratori
mostrano le stesse dinamiche: dalla periferia al centro. In questo
quadro, paesi che avevano avuto storie migratorie del tutto indipendenti
e differenziate (come la Spagna e il Portogallo) tendono a uniformarsi
sulle cause migratorie, sulle destinazioni e sui soggetti: chi ne
sfrutta i vantaggi sono ancora una volta i paesi core. Chi ne paga il prezzo sono i giovani “a sud della crisi”, quelli appunto delle periferie produttive.
Risposte ideologiche alla crisi. Fascistizzazione a nord a est e a sud della crisi
Tra gli
interventi esterni proposti nel libro, quello del Collettivo Laika di
Grosseto offre degli spunti interessanti sul piano della gestione
politica della crisi, ricorrendo alla categoria di “fascistizzazione del
potere”. Facendo un excursus veloce sulle dinamiche degli ultimi
25 anni (dalla fondazione della UE), il collettivo mette in
collegamento l’ordoliberismo con la gestione corporativistica
dell’economia e la messa in mora del conflitto di classe.
L’ordoliberismo si differenzia dal neoliberismo di stampo anglosassone:
se quest’ultimo vuole eliminare ogni forma di intervento statale in
campo economico e sociale, riducendo lo stato a quello che veniva
definito uno “stato minimo”, l’ordoliberismo invece richiede un
intervento attivo dell’apparato statale nella gestione del mercato e
della società che deve essere piegata alle sue esigenze. Questo non
significa però che l’apparato statale sia garanzia di un ordine più
democratico. L’ordoliberismo è un pensiero nato in Germania intorno agli
anni ‘50. Esso ha di fatto presieduto (e presiede) alla nascita delle
politiche della UE. Una gestione dall’alto del conflitto di classe, che
piega gli interessi di classe agli interessi del mercato. Questo mercato
però non è più un mercato nazionale, ma un mercato europeo. Non è il
caso qui di ricordare i passaggi costitutivi dell’UE, ma è evidente che
il motore primo della UE è la formazione di un’area economica che sappia
essere concorrenziale nel quadro della competizione globale allora
avviatasi. La mancanza nella UE di un assetto istituzionale
tradizionalmente democratico, con un parlamento che fa le leggi e da cui
provenga la legittimità di un governo (la Commissione europea), sta lì a
dimostrare che la UE tutto è tranne che un’espressione democratica dei
suoi popoli. Le “direttive” europee, talvolta “indicazioni”, si
trasformano in legge nazionale senza nemmeno avviare una vera
consultazione popolare. Ciò rende evidente che la mancanza di
democrazia, pur intesa in senso borghese tradizionale, non è un difetto
transitorio, ma una caratteristica stabile di questa fascistizzazione
del potere che, in forma nuova, riesuma la politica corporativistica
fascista. Non interessi di classe, ma interesse unico rappresentato dal
mercato europeo. A questo aspetto è dedicato anche l’ultimo libro di
Luciano Canfora, La scopa di Don Abbondio. Il moto violento della storia (Laterza 2018).
Ma
questo è solo uno degli aspetti della fascistizzazione del potere,
perché c’è anche un uso nazionale di questo fascistizzazione: quello che
si registra nelle periferie dell’UE per contenere e incanalare rabbia
sociale verso lo straniero, soprattutto nel momento in cui si ripete il
ritornello “non ci sono risorse per tutte”, perché ovviamente le risorse
pubbliche sono spese per altro, che non per la spesa sociale. Ed è
interessante che il collettivo faccia notare che l’unica spesa pubblica
in Europa che non sottostà ad alcun vincolo è proprio quella militare
(che a livello europeo prevede anzi un aumento del 180% per la sicurezza
interna e del 280% per la gestione dei confini).
Se
questa analisi ha il merito di mettere in luce la natura del potere
politico oggi in atto nella nostra area, ha dimenticato, forse per
troppa fretta, di mettere in luce le differenze che attraversano le
borghesie europee, differenze che, oltre a strutturarsi in senso
orizzontale (le borghesie nazionali), si strutturano i senso verticale
(borghesie nazionali vs borghesie europee internazionali a
vocazione imperialista). Se si tiene in luce questa ulteriore
specificazione del quadro disegnato dal Collettivo Laika, si capisce
anche il valore della fascistizzazione del potere del blocco
economico-sociale che si è raccolto attorno all’attuale governo
italiano, e si capisce quale base economica ha questo blocco: i settori
produttivi che agiscono su base nazionale e che mirano al mercato
interno, ma che soffrono le politiche di austerità. Solo alcuni settori
produttivi di calibro europeo possono esportare in lungo e in largo
nella UE. Quelli a vocazione nazionale invece ne soffrono la
concorrenza. Lo smantellamento di apparati industriali nazionali o la
loro svendita a gruppi internazionali, svuota di capacità produttive
intere aree dei paesi periferici. Il turismo (e in genere l’economia dei
servizi) viene visto spesso come la risposta alla fine
dell’industrializzazione. Il turismo (oltre a essere un cancro economico
per gli effetti di dipendenza, come la monocultura) si porta dietro i
processi di gentrificazione, di pulizia etnico-sociale dei centri
storici, le politiche securitarie e “decoriste”. Chi ne beneficia?
Settori produttivi che, sofferenti delle concorrenza della borghesia a
vocazione europea, tentano una risalita con la messa a valore di tutto
il possibile. Si tratta di settori produttivi che vivono spesso di
rendita (spesso ci sono di mezzo le economie mafiose). La
“turistizzazione” delle economie richiede bassa preparazione della sua
manodopera che, benché laureata e con qualche certificazione
linguistica, non viene certo utilizzata per le sue alte “skills”. La
professionalizzazione della formazione ha in intere aree del paese
questa dinamica appena descritta. Grosseto, Siena o Catania vivono da
questo punto di vista le stesse dinamiche. Chi rappresenta allora questi
settori produttivi? Questo “governo del cambiamento”, che è in forma
aggiornata quello berlusconiano (spazzato non a caso dai potentati
europeisti). A quale blocco sociale fa riferimento? E come si
cementifica questo blocco? La risposta non è difficile da leggere, se si
guarda ai risultati della scorsa campagna elettorale e ai discorsi
ideologici messo in atto. In questo senso, la fascistizzazione del
discorso politico in Italia ha una funzione diversa da quella messa in
atto in UE. I fascisti di Casa Pound e similari mirano a creare un
blocco sociale (che fino ad ora è opera di Lega e 5 Stelle) con pezzi di
popolazione impoverita e spesso sottoproletaria attorno a interessi di
classe di borghesia in sofferenza.
Benché
non sia compito di una recensione offrire conclusioni, ci sembra che la
lotta contro i processi europei che creano frammentazione nel mondo del
lavoro, nel nostro Paese debba tenere in conto dell’attuale fase che si è
venuta a creare con questo nuovo blocco sociale.
La lotta è, evidentemente, al suo inizio.
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