Fondo Monetario Internazionale Secondo
il FMI l’Italia dovrebbe riprendere il percorso delle riforme
strutturali e del consolidamento fiscale, ma si tratta di ricette che
continuano a dimostrarsi inefficaci e dannose.
È di qualche giorno fa il responso
emesso dal FMI sullo stato di salute dell’economia italiana. Dopo aver
preso atto dei peggioramenti congiunturali, i tecnici del FMI
hanno manifestato grande preoccupazione per i rischi che corre il
nostro Paese e grande scetticismo sugli effetti espansivi della manovra di Bilancio.
Secondo l’analisi del Fondo, lo scontro
tra Roma e Bruxelles sui numeri della manovra di bilancio potrebbe
condurre verso un peggioramento del differenziale di rendimento tra il
BTP italiano e il BUND tedesco, con effetti negativi sul sistema
bancario e sul mercato del credito. Per questa via, i presunti effetti
positivi della manovra di bilancio potrebbero essere controbilanciati da
un aumento del premio per il rischio, peggiorando i patrimoni delle
banche e aumentando costo del credito per i mutuatari. Un’analisi non
dissimile da quella di Blanchard e Zettelmeyer (2018), che, con un
esercizio meccanico e con una previsione sul valore che può assumere lo
spread nei prossimi mesi, metteva in luce come l’aumento dello spread
più che compensava gli effetti positivi della manovra di bilancio.
Inoltre, il FMI
pone l’enfasi sui rischi che corre l’Italia relativamente al suo debito
pubblico, che rende l’Italia estremamente vulnerabile agli shock.
A fronte di tutte queste criticità,
viene proposta un’agenda di riforme in grado di ripristinare la crescita
e favorire l’inclusione sociale, in un Paese in cui “la disoccupazione è
ancora intorno al 10%, i redditi reali sono simili a quelli di una
decade fa e gli standard di vita delle giovani generazioni sono
peggiorati (FMI, 2018)”.
Riforme strutturali e consolidamento fiscale. Niente di nuovo.
Secondo l’istituto di Washington, gli
effetti della manovra di bilancio sono incerti e, anche immaginando
elevati moltiplicatori fiscali, destinati a diventare negativi nel lungo
periodo. Nonostante siano accolte positivamente le manovre per
alleviare la povertà e per rilanciare gli investimenti pubblici, il FMI
propone altre ricette, che prediligono il consolidamento fiscale e un
pacchetto di riforme strutturali. Si ritiene che il Consolidamento
fiscale e le riforme strutturali
siano in grado di sostenere il potenziale dell’economia e la
sostenibilità dei conti pubblici, con un forte impatto sulla fiducia
degli investitori internazionali.
Partendo dal consolidamento fiscale, il
Fondo ritiene che l’Italia debba garantire stabilità all’eurozona
intraprendendo un percorso di graduale riduzione del debito pubblico
rispetto al PIL per evitare che, con la normalizzazione della politica
monetaria e con il rischio di shock esogeni, debba poi realizzare misure
di forte contrazione fiscale.
L’importanza delle riforme strutturali,
invece, è tutta racchiusa nelle parole di Mario Draghi (2015):” Le
riforme strutturali possono essere definite politiche che modificano in
modo permanente il lato dell’offerta dell’economia con due conseguenze
fondamentali. L’innalzamento del profilo del prodotto potenziale e la
maggiore tenuta delle economie agli shock, poiché le riforme agevolano
la flessibilità di prezzi e salari e la rapida riallocazione delle
risorse fra i settori. “
Le aree di intervento su cui tali
riforme dovrebbero agire con maggiore incidenza sono: il mercato del
lavoro, dei beni e la pubblica amministrazione, con un accenno alla tema
“insolvency”.
Per il mercato del lavoro,
viene proposta una ricetta piuttosto datata: ridurre la disoccupazione
strutturale decentralizzando la contrattazione salariale e adeguarla a
livello regionale. Oltre a ciò agire nella direzione di ridurre i
cosiddetti dismissal costs per le imprese, cioè gli oneri
legati al licenziamento dei lavoratori. Le ragioni alla base della
necessità di flessibilizzare il mercato del lavoro
risiedono in una convinzione teorica: il tasso di disoccupazione
effettivo dell’economia dipenderebbe dall’andamento della domanda,
mentre il tasso di disoccupazione strutturale dipenderebbe da fattori
istituzionali e legati alla regolamentazione del mercato del lavoro. Per
ridurre questo tasso di disoccupazione sarebbe necessario promuovere
leggi che facilitino l’assunzione e il licenziamento del lavoratore. Per
questa via, secondo il FMI, le imprese sarebbero incentivate ad
assumere e il mercato del lavoro si libererebbe di inutili frizioni. [1]
In realtà, a ciò sono seguite solo forme contrattuali sempre più
intermittenti, caratterizzate da minori protezioni per il lavoratore e
da minori costi di licenziamento per il datore di lavoro (Realfonzo e Tortorella Esposito, 2014).
Per il mercato dei beni si
richiede la realizzazione di politiche di liberalizzazione del mercato
dei prodotti e dei servizi per sostenere la dinamica della produttività.
In aggiunta a ciò, la rimozione delle barriere alla concorrenza. Queste
politiche decentrerebbero l’offerta determinando, per via della
concorrenza, riduzioni di prezzo e guadagni di efficienza per i
consumatori. [2]
Circa la Pubblica amministrazione, vengono
proposte diverse ricette: innanzitutto la privatizzazione di alcune
società; un rafforzamento del coordinamento tra i manager delle imprese
pubbliche centrali e gli uffici regionali ed infine l’individuazione di
indicatori di performance ed efficienza.
Chi ha buona memoria noterà, senza
neanche troppo sforzo, una stretta affinità tra queste misure e quelle
indicate nel 2011 nella lettera inviata dalla BCE a firma Draghi e
Trichet al governo Berlusconi, in cui veniva sostenuta la “necessità di
liberalizzare i servizi pubblici”, di “riformare il sistema di
contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello di
impresa in modo da ritagliare i salari alle esigenze specifiche delle
aziende”, e infine di “intervenire sul sistema pensionistico e sui costi
del bilancio pubblico, introducendo una clausola di riduzione
automatica del deficit” dove ogni scostamento dagli obiettivi di deficit
sarebbe stato compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle
spese discrezionali. Infine, una “riforma costituzionale in grado di
rendere più stringenti le regole di bilancio”.
A questa affinità nei contenuti fa da
contraltare una domanda: è plausibile che queste manovre siano utili a
ripristinare la crescita?
Gran parte della letteratura economica in materia non sarebbe così convinta.
Dalla Crisi ad oggi: evidenze empiriche di ricette sbagliate.
Il FMI suggerisce la
formazione di avanzi di bilancio per 4/5 anni. Questa ricetta
presupporrebbe un minore disavanzo da finanziare, e, verosimilmente, la
riduzione della percezione di rischio sullo stock di debito italiano.
Ciò contribuirebbe a ridurre lo spread e migliorare i portafogli delle banche. Se così non fosse, l’aumento del debito pubblico potrebbe scatenare una recessione.
La letteratura scientifica ha chiaramente messo in luce come non vi sia una soglia di debito pubblico
rispetto al PIL oltre al quale la crescita viene compromessa. Anzi Ash
et al. (2017) dopo un lavoro storico sulle relazioni tra debito pubblico
e recessioni hanno potuto raggiungere la seguente conclusione:
analizzando 20 Paesi in un periodo che va dal 1946 al 2009 e
suddividendoli in base al rapporto debito PIL, episodi di bassa crescita
precedono gli episodi di alto debito.
Ancora, la Banca Centrale Europea,
con uno studio di Mika e Zumer (2017), analizzando la relazione tra
debito e crescita economia in Europa dal 1999 al 2015, specifica
chiaramente come non esista alcuna evidenza empirica che mostri
l’esistenza di una soglia massima di debito, pubblico o privato, oltre
la quale la crescita di un’economia possa essere pregiudicata, pur
sottolineando la correlazione negativa tra indebitamento pubblico e
crescita di lungo periodo di un’economia – sostenuta dall’idea che gli
elevati tassi di interesse derivanti dall’elevato debito pubblico
possano pregiudicare la crescita degli investimenti e quindi del
reddito.
Negli anni immediatamente successivi
alla crisi, l’Italia ha dato vita ad un percorso di riduzione della
spesa pubblica rispetto al PIL talvolta incidendo su comparti
essenziali, come sanità ed istruzione. Nello specifico, è dagli anni 90
che l’Italia presenta un saldo primario positivo, ad eccezione del 2011.
Si veda, tra gli altri, Iero (2018).
Nonostante questo percorso di riduzione
della spesa il rapporto tra debito e PIL non si è ridotto, anzi ha
manifestato tendenze in aumento dal 2011 al 2012, salvo stabilizzarsi
dal 2014 in poi, come mostrerebbe il grafico 1.
Grafico 1. Debito delle amministrazioni pubbliche rispetto al PIL
Fonte: OECD, Rapporto Economico per l’Italia (2017)
Note: Valori %.
Come mai questo paradosso? Nei momenti
di crisi, è fisiologico che lo Stato spenda maggiori risorse per
sostenere l’economia: è l’effetto degli stabilizzatori automatici. Oltre
a questo, nel caso italiano sono stati diversi gli interventi dello
Stato per salvare alcune pedine importanti del sistema bancario.
Tuttavia, l’aumento del debito rispetto al PIL può essere addebitato agli effetti che la riduzione discrezionale della spesa pubblica ha esercitato sul PIL.
Come ha messo in luce la letteratura in
questi anni (ad es. Jordà e Taylor, 2013; Blanchard e Leigh 2013; e
altri), il tentativo di ridurre il rapporto debito PIL attraverso la
riduzione del numeratore ha l’infausta conseguenza di deprimere il
denominatore più che proporzionalmente. È sorprendente notare come
proprio il FMI, che dopo le forti misure di austerità prescritte alla
Grecia ha fatto mea culpa per la sottostima dei moltiplicatori fiscali,
oggi ritenga salutari queste ricette.
Questa tesi è sostenuta anche da
Confindustria (2017), che enfatizza come le restrizioni di bilancio
abbiano fatto aumentare il debito pubblico in tutti i Paesi periferici,
manifestando tutto il loro carattere pro-ciclico.
Leggendo il Rapporto Economico per l’Italia pubblicato dall’OCSE
(2017), si può ben intendere come sia stata la bassa crescita del PIL
ad aver alimentato la dinamica del rapporto debito PIL e non
l’espansione del debito medesimo, attribuibile ad una politica fiscale
irresponsabile. Il grafico 2 esemplifica quanto riportato dall’OCSE.
Grafico 2. La Bassa crescita ha contribuito all’alto debito pubblico*
Fonte: OCSE, Rapporto Economico per l’Italia (2017)
Note: * titolo ripreso dal grafico originale OCSE (2017). Valori %
Il consolidamento fiscale, accoppiato
alle riforme strutturali, viene considerato dal FMI uno strumento utile
anche per far crescere PIL potenziale.
Tuttavia, recenti studi condotti da
autorevoli economisti hanno messo in luce gli effetti negativi che
potrebbe avere il consolidamento fiscale sul PIL potenziale.
Fatas e Summers (2016), confermando i
risultati raggiunti il Delong e Summers (2012) e Blanchard e Leigh
(2013) sugli effetti permanenti del consolidamento fiscale sulle
economie, hanno analizzato gli effetti che la crisi economica e le
politiche di consolidamento fiscale hanno avuto sull’output potenziale.
Il loro importante studio mostra che manovre di consolidamento fiscale
possono determinare un circolo vizioso che si autoalimenta, che parte
con l’intento di ridurre il rapporto debito PIL e migliorare la crescita
ma conduce ad una crescita inferiore e ad un aumento del rapporto tra
debito e PIL. Ipotizzando uno shock che colpisce il PIL, i due
economisti provano a simulare la persistenza dello shock in base alle
variazioni dell’output potenziale. Lo studio conclude che le interazioni
tra PIL effettivo e output potenziale sono molto strette e che,
analizzando i consolidamenti fiscali per 14 Paesi dell’Area Euro, il
consolidamento fiscale avvenuto nel periodo 2010-2011 spiega più del 40%
delle variazioni negative nelle previsioni future sull’output
potenziale. In altri termini, il consolidamento fiscale pregiudica non
solo l’andamento dell’economia nel breve periodo, ma espone anche al
rischio che l’andamento futuro dell’economia sia seriamente compromesso.
È quello che la letteratura in materia chiama l’effetto di isteresi,
tutto sintetizzabile in una sorta di lascito che le crisi possono avere
sul potenziale di crescita dell’economia. A differenza delle teorie
economiche più diffuse, che attribuiscono agli shock un impatto minimo,
destinato ad assorbirsi nel tempo, e che postulano una tendenza
spontanea ed automatica della produzione effettiva a tendere verso
quella potenziale, la ricerca scientifica, anche all’interno del filone
mainstream, sostiene invece come periodi di contrazione della
produzione, sottoutilizzazione delle risorse e, quindi, elevata
disoccupazione, possano manifestare un certo grado di influenza sulle
prospettive future dell’economia, determinando non solo una caduta del
PIL corrente ma anche una revisione del PIL potenziale futuro.
Conclusioni
Il rapporto del FMI fornisce delle
ricette di politica economica che in passato si sono dimostrate
regressive, sia sotto il piano economico che sotto il piano sociale.
L’adozione di riforme di questo genere può essere autodistruttiva per
l’economia italiana (Perone, 2014; Monito degli Economisti, 2013; Lettera degli Economisti, 2010),
che anzi avrebbe bisogno di una spinta, proprio derivante dal bilancio
pubblico, per rianimare l’economia, riattivando il volano degli
investimenti pubblici e di una “buona” occupazione, preservando le fasce
di reddito più deboli.
Il rischio che queste manovre
restrittive rallentino l’economia è più alto tanto più il Paese si trova
all’interno di una congiuntura non favorevole.
*Dottorando Università Roma Tre
[1] E ‘ampia la letteratura che mette in
luce chiaramente con non vi sia alcuna relazione ben precisa tra
rigidità del mercato del lavoro e andamento dell’occupazione. Per una
rassegna, tra gli altri, si veda Brancaccio et al. (2016).
[2] Politiche di questo genere possono
contribuire a esercitare una pressione al ribasso sui prezzi, con il
rischio di deflazione ed aumento dei tassi di interesse reali
(Eggertsson et al., 2014)
Bibliografia
Fatas, A., Summers, L. (2016) “The Permanent Effects of Fiscal Consolidations”, No 22374, NBER Working Papers from National Bureau of Economic Research.
FMI (2018) “Italy: Staff Concluding Statement of the 2018 Article IV Consultation”
Draghi, M. (2015) “ECB Forum on Central Banking”, Sintra, 22 maggio.
DeLong, J. B., Summers, L. (2012) “Fiscal
Policy in a Depressed Economy”, Brookings Papers on Economic Activity,
vol. 43, issue 1 (Spring), Economic Activity, 233–297.
Eggertsson, G., Ferrero, A., Raffo, A. (2014) “Can structural reforms help Europe?” Journal of Monetary Economics, 61: 2-22.
Jordà, O., Taylor, A. (2013) “The Time For Austerity: Estimating The Average Treatment Effect
Blanchard, O., Leigh D. (2013) “Growth Forecast and Fiscal Multipliers,” American Economic Review, American Economic Association, vol. 103(3), pages 117-20, Ma
Ash, Michael; Basu, D., Dube, A. (2017) “Public Debt and Growth: An Assessment of Key Findings on Causality and Thresholds”, UMass Amherst Economics Working Papers. 226.
OCSE, Rapporto Economico per l’Italia (2017)
Blanchard, O., Zettelmeyer, J. (2018) “The Italian Budget: A Case of Contractionary Fiscal Expansion?”, PIIE
Confindustria (2017) “Scenari industriali”, Centro studi Confindustria.
Brancaccio, E. et al. (2016) “Più
flessibilità del lavoro crea davvero più occupazione? Ecco una lettura
dei dati”, Econopoly, Ilsole24ore.
Iero, A. (2018) “Debito Pubblico, una questione di interessi”, economiaepolitica.it
Realfonzo, R., Esposito, G. (2014) “Gli insuccessi nella liberalizzazione del lavoro a termine”, economiaepolitica.it
Lettera degli Economisti (2010)
Monito degli Economisti (2013) “The Economists warning”, Financial Times
Perone, G. (2014) “L’austerità deprime. Ovvero la fallacia dell’ideologia tedesca”, economiaepolitica.it.
Nessun commento:
Posta un commento