Ma c’è anche chi di poltrone ne ha quattro, cinque o sei. È il 3% di quella che nel gergo della sociologia viene definita “corporate élite“.
Che in Italia somiglia molto a un “old boys network“, un gruppo chiuso di individui prevalentemente maschi con lo stesso background sociale e un’età media elevata.
Tredici di quei 61 svolgono o hanno svolto incarichi di vertice in associazioni di industriali come Confindustria e non mancano un senatore, un ex sottosegretario di Stato e un ex ministro.
Ci sono poi, puntualmente, i grandi nomi del capitalismo familiare, da Agnelli a De Benedetti e Marcegaglia. A ricostruire la rete dei cosiddetti “big linkers” è Joselle Dagnes, ricercatrice di Sociologia economica presso l’Università di Torino, in Ai posti di comando (Il Mulino).
Sono colloqui preziosi per alzare il velo su dinamiche che solitamente restano sotto traccia.
Come il fatto che i consigli siano spesso meri luoghi di ratifica di decisioni prese altrove, i rapporti di fiducia tra l’imprenditore-proprietario e l’organo decisionale che tendono a sconfinare nell’acquiescenza o il nodo degli amministratori indipendenti che – racconta uno dei “big linkers” – “si cerca si sceglierli…indipendenti formali, che diano il meno fastidio possibile“.
Anche se in altri casi l’ingresso in cda di soggetti esterni alle logiche di interesse della corporate élite consente di rompere gli equilibri e migliora il processo di governance.
Più in generale, dalle interviste emerge che nei cda si entra “perché si gode della fiducia della proprietà o di altri portatori di interessi, perché si possiedono le competenze necessarie, perché si occupano posizioni di prestigio in altri ambiti, perché di detengono risorse relazionali preziose“. E “frequentemente non si tratta di opzioni distinte, bensì di tratti fortemente intrecciati nel profilo di un individuo”.
Così si spiega anche il fenomeno delle interlocking directorates, cioè la presenza di uno stesso manager in due o più consigli di amministrazione di società quotate, cosa che crea un ponte tra le aziende coinvolte.
Il divieto di interlocking tra società finanziarie introdotto nel 2009 dal decreto Salva Italia è stato assai poco efficace visto che, nota l’autrice, si applica solo ai casi di imprese concorrenti, un concetto vago che ne ha reso complicata l’applicazione.
In Italia però la rete più fitta fa riferimento agli incroci proprietari, cioè alla condivisione di uno o più azionisti rilevanti.
Azionisti che sono costituiti da persone fisiche molto più di quanto accada negli altri Paesi a economia avanzata: nel 2014 oltre un terzo delle quote detenute dagli azionisti rilevanti era in realtà in mano a singoli individui, “esponenti di spicco del mondo imprenditoriale”.
Ancora più rilevanti le quote possedute da banche, società finanziarie (comprese le holding) e altri investitori istituzionali.
Nel periodo di osservazione scelto da Dagnes (dal 2007 al 2014) la maggior parte delle aziende quotate a Piazza Affari aveva con le altre dei legami determinati, appunto, dalla condivisione di uno o più azionisti rilevanti.
Un reticolo che si è fatto meno fitto dopo la crisi, ma le cui maglie restano ben più strette rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare in un’economia di mercato. Colpisce, poi, il fatto che le aziende con una migliore performance tendano a sviluppare più legami: una correlazione che favorisce la nascita di “reti di vincenti” tra imprese robuste e di successo, che evidentemente sono sempre riuscite a trovare finanziamenti a dispetto del credit crunch.
Buon per loro e per il sistema ma solo a patto che sull’altro piatto della bilancia non ci siano costi occulti per gli altri operatori.
Di qui la domanda finale: che fare del capitalismo di relazione italiano, posto che eliminare quei legami è del tutto irrealistico?
La possibile cura, secondo Dagnes, è un nuovo modello di regolazione mirato a disciplinare i rapporti tra politica, economia e socie
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