Il referendum sulla liberalizzazione del trasporto pubblico romano ha aperto il dibattito sul futuro di Atac. Ecco perché la promessa di una gestione migliore in mano ai privati è un inganno e un ricatto.
L’11 novembre prossimo i
romani (ma solo i cittadini residenti) verranno chiamati ad esprimersi
su due referendum consultivi, il primo e più importante dei quali
riguarda la possibilità che il servizio comunale di trasporto pubblico
locale (tpl) venga liberalizzato, ossia messo a bando e affidato a
operatori privati, ponendo fine al monopolio pubblico finora esercitato
da Atac per realizzare – così si dice – un regime di concorrenza.
La scadenza referendaria cade – più o meno fortuitamente – in un momento estremamente delicato per Roma, sprofondata da mesi nella pochezza politica complessiva dell’attuale governo cittadino a 5 stelle, ma soprattutto stretta, nelle ultime settimane, nella terribile tenaglia tra la torsione securitaria che deriva dall’applicazione delle politiche salviniane in ambito urbano, da un lato, e dall’altro lato lo spauracchio di una crisi politica irreversibile legata alla probabile condanna di Raggi per la vicenda Marra, la cui sentenza dovrebbe arrivare alla fine di questa settimana e che potrebbe comportare – queste le voci – le dimissioni della Giunta, un nuovo commissariamento prefettizio, quindi una campagna elettorale che realisticamente non vedrebbe pronto nessuno se non le destre, sempre più radicalizzate in senso reazionario e razzista anche e soprattutto sul terreno del governo urbano. Uno scenario complesso, insomma, in cui ogni cosa sarebbe stata utile e necessaria, tranne ritrovarsi a lottare contro quello che, da sinistra, non si può non ritenere l’ennesimo tentativo di privatizzazione di uno degli ultimi pezzi di città pubblica, almeno potenzialmente pubblica. Ciononostante, si sarebbe potuto (e forse ancora si potrebbe) cogliere l’occasione per discutere seriamente di trasporto locale, cioè di welfare urbano, provando a rilanciare sulla scommessa di un servizio davvero e completamente pubblico, accessibile, in grado di accorciare quelle distanze fisiche e sociali che spesso nelle metropoli coincidono.
In disparte, però, ogni altra considerazione e dismesso ogni (seppur sacrosanto) rancore rispetto a questo referendum, c’è da rilevare un comportamento, da parte dei Radicali, che non può trovare altra definizione che quella di populista. La campagna Mobilitiamo Roma, infatti, si è avvalsa infatti di un apparato comunicativo estremamente superficiale e completamente orientato a dimostrare l’evidente, ossia il malfunzionamento di Atac e il disastro del trasporto pubblico romano, fornendo come panacea salvifica la liberalizzazione del servizio ma senza spiegare mai perché uno o più privati potrebbero o dovrebbero garantire un servizio migliore ai cittadini. Anche il lungo dossier pubblicato dal comitato promotore del referendum contiene per lo più una sfilza di numeri e dati che testimoniano il drammatico disservizio, mentre solo poche e confuse righe sono dedicate ai reali motivi di preferibilità della liberalizzazione-privatizzazione. Una campagna, infine, centrata sulla demolizione satirica della figura di Virginia Raggi: cosa buona e giusta, s’intende, ma anche molto facile di questi tempi, e soprattutto del tutto incongrua ad argomentare con qualche razionalità la scelta del privato contro il pubblico.
In un lungo articolo su Internazionale Tocci ha recentemente sostenuto i motivi dell’importanza politica del referendum ed ha argomento le ragioni del suo sostegno al sì a una liberalizzazione del tpl romano. Trattandosi del più interessante degli interventi in questo senso pubblicati nelle ultime settimane, è con le sue argomentazioni che conviene confrontarsi per sostenere le ragioni del no, più che con la propaganda superficiale e populista dei Radicali. Sintetizzando, le motivazioni di Tocci possono essere ricondotte a due argomentazioni di carattere generale e una di carattere specifico.
A questa argomentazione generale Tocci aggiunge un corollario: il Comune che commissiona e regola il servizio svolto da Atac, essendo però contemporaneamente anche il proprietario dell’azienda, ha spuntati gli strumenti di controllo nei suoi confronti, perché l’eventuale sanzione economica di ogni disservizio di Atac produrrebbe un danno alle stesse casse del Comune. In particolare, il disservizio si può misurare tramite la differenza tra i chilometri di percorrenza previsti dal contratto di servizio e i chilometri effettivamente percorsi: a oggi, Atac svolge circa il 17% in meno del servizio previsto e finanziato dal Comune (84 milioni di chilometri contro 101 previsti); la relativa sanzione sarebbe il rifiuto dal parte del Comune di pagare per i chilometri non percorsi, cosa che però si evita di fare per non aggravare le casse di Atac e di conseguenza del suo proprietario, il Comune.
Evidentemente il problema è reale ed è grave: ancora una volta, però, la soluzione non va ricercata in uno schema di esternalizzazione, che consentirebbe di sanzionare l’eventuale privato inadempiente (anche perché, ovviamente, a subire le perdite sarebbero sistematicamente i lavoratori di quella azienda privata, non certamente i suoi azionisti, come avviene in ogni settore economico). Ciò che manca a questo ragionamento è infatti il dato non irrilevante che Atac, pur essendo di proprietà completamente pubblica, è comunque un ente di diritto privato, una SpA che segue e consegue tutte le regole (perverse) del modello aziendale. La proposta alternativa, avanzata tra i tanti dalla autorevole associazione C.A.L.M.A., sarebbe invece quella di trasformare Atac in una azienda speciale di diritto pubblico (sul modello di Acqua Bene Comune Napoli, che è l’esito del processo di ripubblicizzazione dell’azienda idrica napoletana da parte di Luigi De Magistris in ossequio al referendum del 2011). Superando le strettoie delle normative privatistiche e del meccanismo controllo incentrato quasi solo sul contratto di servizio, il Comune potrebbe allora controllare più direttamente l’efficienza e la qualità del servizio, la sua aderenza alla programmazione generale, avvalendosi dei poteri tipici dell’azione amministrativa per eliminare le eventuali inadempienze immotivate, ma soprattutto riuscendo a leggere con molta più chiarezza da che cosa derivino le criticità, se da fattori interni oppure – come ampiamente probabile – da fattori esterni, legati ad esempio all’intensità del traffico urbano, ai picchi di presenza turistica, alla qualità della rete stradale, alle condizioni metereologiche e all’efficienza dei sistemi fognari, ai difetti di programmazione delle linee, eccetera. Informazioni fondamentali, che soltanto un servizio completamente internalizzato potrebbe garantire: nei casi di liberalizzazione, infatti, eminenti studi internazionali hanno dimostrato che è sistematico e strutturale un gap informativo tra il privato appaltatore e il pubblico appaltante. La via dell’azienda speciale sarebbe, insomma, la scelta diametralmente opposta da quella proposta dal referendum, dotata però della capacità di riportare saldamente nelle mani pubbliche l’intero servizio.
I difetti di questo ragionamento sono diversi. Innanzitutto, bisognerebbe riconoscere che le esternalizzazioni hanno già fallito non soltanto quando hanno avuto la forma delle privatizzazioni monopolistiche, ma anche quando si è ricercata (a fatica) una qualche forma di concorrenza. Ogni considerazione sul servizio idrico andrebbe esclusa, in quanto gli affidamenti ai privati delle reti idriche dovrebbero ritenersi illegali dopo il referendum del 2011. Escludiamo anche le telecomunicazioni, dove la liberalizzazione è stata precoce ma dove gli operatori privati, nonostante qualche forma di protezionismo nazionale, sono riusciti nell’incredibile impresa di portare ad un fallimento pressoché generalizzato un settore di mercato che dovrebbe garantire profitti altissimi anche in periodi di recessione. Ma nel settore del trasporto ferroviario, l’introduzione di un nuovo operatore (Italo) da affiancare a quello storico (Trenitalia) non ha comportato alcun vantaggio in termini di accessibilità e di qualità del servizio, che resta fortemente classista e inefficiente.
Nei settori della distribuzione dell’energia elettrica e del gas, la concorrenza non ha generato alcun vantaggio né tariffario né qualitativo per i consumatori (per di più vessati dall’invadenza dei promotori a domicilio del “mercato libero”), neppure alla vigilia dell’imminente fine dell’ultimo residuo di regolazione pubblica, il cosiddetto “mercato tutelato”, e l’Autorità preposta notoriamente fatica a disinnescare i meccanismi di cartello; in particolare nel settore elettrico, tra l’altro, gli operatori privati si sono dimostrati del tutto inadeguati a perseguire politiche di sostenibilità ambientale, tanto che l’unica prospettiva per l’implementazione delle energie rinnovabili sembra essere la nazionalizzazione. Nel settore sanitario, molte Regioni hanno deciso di includere gli operatori privati cosiddetti “convenzionati” per raggiungere i livelli essenziali delle prestazioni, cioè per garantire il servizio pubblico, con un meccanismo che ha creato enormi danni sia ai lavoratori (la sanità privata è tra i settori più precarizzati del mercato del lavoro) che agli utenti (si pensi al numero di obiettori presenti nel privato convenzionato).
Per non parlare poi del settore dei servizi sociali e dei servizi di accoglienza, che è un settore iper-liberalizzato, dove il pubblico non svolge in house quasi alcun servizio, funzionando quasi esclusivamente su gare d’appalto, spesso verso enti del Terzo Settore, ma che – Mafia Capitale insegna – è uno degli ambiti peggio gestiti di tutto il comparto pubblico, vero e proprio brodo di coltura della peggiore corruzione (peraltro del tutto funzionale ad alimentare le retoriche razziste oggi al governo del Paese). Per tornare all’ambito urbano, sono ampiamente liberalizzati tramite gare d’appalto i servizi di manutenzione stradale, ma per contarne gli effetti disastrosi basterebbe contare le buche di Roma.
Parlando di liberalizzazione, insomma, bisognerebbe fare i conti una volta per tutti non soltanto con il fatto che ogni privato persegue solo il suo profitto, ma anche con la natura parassitaria, inefficiente, strutturalmente corrotta del mondo dell’impresa privata in Italia, soprattutto di quella finanziata dal pubblico per gestire servizi pubblici. Si tratta di considerare molto realisticamente che il circuito pubblico-privato è estremamente più inefficiente e radicalmente più corrotto del circuito pubblico-pubblico, e nessuna parentopoli, nessuno sfacelo di Atac, nessuno schifo per la classe politica può consentire di dimenticare questa verità. Se una azienda pubblica viene gestita male, il Sindaco può sempre rimuovere il suo amministratore delegato; se anche il Sindaco è incapace, si può sempre provare cambiare Sindaco, si possono orientare le politiche tramite le procedure democratiche e/o tramite l’attivazione dal basso; assai più difficile, invece, è scalfire gli strapoteri di un amministratore delegato privato, o di un cartello di concessionari che si coalizza per mettere sotto scacco il pubblico.
Effettivamente, come è noto, Atac ha un debito mostruoso che attualmente ammonta a circa 1 miliardo e 300 milioni di euro, parte dei quali sono peraltro dovuti nei confronti dello stesso Comune. Una somma spaventosa, eppure perfettamente in linea con la situazione drammatica dell’intera amministrazione finanziaria di Roma, che 1,3 miliardi di debito di Atac aggiungersi a 1,2 miliardi di debito di Ama e soprattutto a 13,6 miliardi di debito della stessa Roma Capitale (cifra nella quale sono ricompresi – è bene ricordarlo – ben 4,8 miliardi soltanto per il pagamento dei carissimi interessi da qui al 2048): sintomo del fatto che ad essere in difficoltà strutturale non è soltanto l’Atac, ma l’intero sistema di finanziamento pubblico basato sull’indebitamento e le sue cicliche crisi di sostenibilità.
Tornando ad Atac, però, il debito è l’arma per effettuare un vero e proprio ricatto: la situazione finanziaria è talmente insostenibile che prima o poi si arriverà a un default, quindi a una svendita al ribasso dell’azienda e a una successiva privatizzazione monopolistica; meglio dunque prevenire sopprimendo il malato e perseguendo da subito una più pulita liberalizzazione in regime concorrenziale. Si tratta di un ricatto francamente inaccettabile, non soltanto su un piano ideologico, ma anche su un piano maledettamente concreto. Al debito di Atac, infatti, occorrerebbe far fronte innanzitutto tramite un serio audit sulla natura di questo debito, che abbia come presupposto la convinzione che sono illegittimi i debiti pubblici contratti non in favore della collettività, e in secondo luogo predisponendo un piano industriale per l’azienda pubblica capace di ripianare quel debito su periodi lunghi e con garanzie bancarie pubbliche consistenti.
In proposito, il concordato preventivo messo in campo da Virginia Raggi per far fronte al rischio di default ha avuto e ha tuttora enormi difetti: si è trattato di una scelta pavida, perché ha rimesso nelle mani di un giudice la decisione sul piano di rientro, facendo abdicare la politica, e di una scelta pericolosa, perché se il concordato fallisce il fallimento diventa automatico. Anche i contenuti del concordato sono estremamente problematici, a partire dal fatto che si prevede una svendita massiccia, l’ennesima, di una enorme quantità di immobili pubblici di proprietà di Atac, pezzi importanti di città consegnati alla speculazione immobiliare. Eppure, in questo disastro, la procedura del concordato preventivo contiene almeno l’indicazione di continuare a reperire le risorse per l’appianamento del debito dentro l’attività industriale di Atac, attingendo ai fatturati provenienti dal contratto di servizio e della bigliettazione. Al contrario, nell’ipotesi della liberalizzazione-privatizzazione, Atac non potrebbe più nemmeno in ipotesi ripagare da sé quel debito, che finirebbe ad accrescere ancora di più la massa già enorme del debito di Roma Capitale.
Per affrontare adeguatamente il tema dei trasporti, intanto dovremmo partire dalla considerazione che Roma spende troppo poco per il suo tpl: se si guardano alle relative poste del bilancio comunale, si scopre che la spesa annua per abitante per il trasporto pubblico a Roma è € 260 contro i € 580 di Milano. Sembra paradossale se si pensa a parentopoli, ai fenomeni di corruzione e dilapidazione del denaro pubblico, ma è innegabile che Atac è stata sistematicamente sottofinanziata rispetto al fabbisogno reale di una metropoli come Roma.
In secondo luogo, va riconosciuto che il malfunzionamento del trasporto romano ha a che fare, più di ogni altra cosa, con una dinamica di espansione e frammentazione urbanistica folle, senza precedenti e soprattutto senza paragoni in Europa. La fame di nuovo cemento dei costruttori romani ha determinato la dispersione dei tessuti abitati anche in zone lontanissime dal centro: zone dove l’Atac non può evitare, assai democraticamente, di piantare comunque una palina di un autobus, sostenendo a costi esorbitanti di gestione per linee così dispersive, a fronte di un servizio che – specialmente in termini di frequenza – non potrà che essere scadente. La prima e più importante misura per garantire un trasporto pubblico di qualità dovrebbe essere quella di smettere per sempre di costruire nell’agro romano, ma anche di adottare un complesso di politiche (contenimento dei valori immobiliari, rimessa in circolazione degli immobili vuoti, nuova edilizia residenziale pubblica, social housing) che riportino la gente ad abitare a Roma, dentro Roma, vicino al centro e vicino alle poche vie di trasporto rapide ed efficienti che già esistono.
In terzo e ultimo luogo, va preso atto che la percezione diffusa che il trasporto pubblico locale è drammaticamente inefficiente ha certamente a che fare con il malfunzionamento di Atac, ma probabilmente ha molto più a che fare con una spaventosa inadeguatezza delle infrastrutture. Roma possiede 58,8 km di metropolitane, contro i 98,8 di Milano (e omettiamo impietosi confronti con le metropoli europee). I tram nella Capitale coprono 31 km, contro i 170 del capoluogo lombardo (che, per inciso, ha una superficie sette volte inferiore). Spostarsi a Roma senza macchina è dannatamente faticoso soprattutto perché non ci sono linee abbastanza rapide e interconnesse. Per far funzionare bene Atac, oltre che mantenerla pubblica, occorrerebbe soprattutto fornirle una rete adeguata. La qual cosa non ha nulla a che vedere con la natura pubblica o privata del gestore del servizio, ma piuttosto con una idea complessiva di città e con il livello di investimenti che si riesce a mettere in campo. Purtroppo, nel PUMS – il Piano urbano per la mobilità sostenibile varato dalla Giunta Raggi – tra le cosiddette ‘invarianti’, ossia le opere ritenute indispensabili, compare solo un intervento sulle linee metropolitane (il prolungamento della metro B fino a Casal Monastero, peraltro privo di finanziamento), e compaiono solo sette progetti per nuove linee tramviarie, quasi tutti concentrati nella piccola area del centro storico (l’unico intervento in periferia è l’asse tangenziale Togliatti, che dovrebbe collegare le due metro da Anagnina a Ponte Mammolo; non c’è nessun intervento sugli assi radiali), dei quali soltanto uno è stato effettivamente finanziato ed è in procinto di avviare il cantiere (la breve linea tramviaria tra i Fori e piazza Vittorio).
Troppo poco, indubbiamente. Ma la discussione da fare, più che impegnarsi a regalare il tpl ai privati, sarebbe esattamente questa: quali nuove linee, dove, perché, con quali soldi. La discussione, insomma, intorno alla ‘cura del ferro’: un progetto di ampio respiro, ambizioso e capace – quello sì, altro che liberalizzazione – di cambiare il volto della città.
Lo scenario cittadino
La scadenza referendaria cade – più o meno fortuitamente – in un momento estremamente delicato per Roma, sprofondata da mesi nella pochezza politica complessiva dell’attuale governo cittadino a 5 stelle, ma soprattutto stretta, nelle ultime settimane, nella terribile tenaglia tra la torsione securitaria che deriva dall’applicazione delle politiche salviniane in ambito urbano, da un lato, e dall’altro lato lo spauracchio di una crisi politica irreversibile legata alla probabile condanna di Raggi per la vicenda Marra, la cui sentenza dovrebbe arrivare alla fine di questa settimana e che potrebbe comportare – queste le voci – le dimissioni della Giunta, un nuovo commissariamento prefettizio, quindi una campagna elettorale che realisticamente non vedrebbe pronto nessuno se non le destre, sempre più radicalizzate in senso reazionario e razzista anche e soprattutto sul terreno del governo urbano. Uno scenario complesso, insomma, in cui ogni cosa sarebbe stata utile e necessaria, tranne ritrovarsi a lottare contro quello che, da sinistra, non si può non ritenere l’ennesimo tentativo di privatizzazione di uno degli ultimi pezzi di città pubblica, almeno potenzialmente pubblica. Ciononostante, si sarebbe potuto (e forse ancora si potrebbe) cogliere l’occasione per discutere seriamente di trasporto locale, cioè di welfare urbano, provando a rilanciare sulla scommessa di un servizio davvero e completamente pubblico, accessibile, in grado di accorciare quelle distanze fisiche e sociali che spesso nelle metropoli coincidono.
Populismo neoliberale
A promuovere il referendum sono stati i Radicali italiani, sotto la sigla del comitato Mobilitiamo Roma. Evidentemente culturalmente orfana di Marco Pannella, oggi l’esperienza radicale sembra essersi ridotta a poco più (se si esclude qualche residua lucidità che va riconosciuta a Emma Bonino sul tema dei diritti dei migranti) di una strenua e iper-ideologica difesa dei capisaldi del neoliberalismo più duro. A testimoniarlo, più d’ogni altra cosa, il loro (quasi isolato) schieramento in difesa della riforma Fornero e dei parametri europei di austerità di bilancio, di difesa, insomma, dell’uso ricattatorio del debito pubblico, manifestata in occasione della attuale discussione sul Def dello Stato e sul conflitto in corso con le istituzioni europee. La trasposizione di questa ideologia neo-radicale in ambito locale, dove strutturalmente i temi dei diritti civili sfumano, genera poi veri e propri mostri: tra i tanti, ricordiamo l’animoso schieramento di Riccardo Magi in difesa della delibera 140, il provvedimento di Marino che avviava la stagione degli sgomberi di tutti gli spazi sociali e associativi della città. Episodio da ricordare ora che si parla di liberalizzazione del tpl, non perché sia in alcun modo interessante definire il profilo del ‘nemico’, quanto perché la posizione radicale su quella vicenda riproduceva, in piccolo, gli stessi schemi argomentativi oggi messi in campo contro Atac: elogio del privato, mito della concorrenza, retorica della legalità, repulsione per il pubblico.In disparte, però, ogni altra considerazione e dismesso ogni (seppur sacrosanto) rancore rispetto a questo referendum, c’è da rilevare un comportamento, da parte dei Radicali, che non può trovare altra definizione che quella di populista. La campagna Mobilitiamo Roma, infatti, si è avvalsa infatti di un apparato comunicativo estremamente superficiale e completamente orientato a dimostrare l’evidente, ossia il malfunzionamento di Atac e il disastro del trasporto pubblico romano, fornendo come panacea salvifica la liberalizzazione del servizio ma senza spiegare mai perché uno o più privati potrebbero o dovrebbero garantire un servizio migliore ai cittadini. Anche il lungo dossier pubblicato dal comitato promotore del referendum contiene per lo più una sfilza di numeri e dati che testimoniano il drammatico disservizio, mentre solo poche e confuse righe sono dedicate ai reali motivi di preferibilità della liberalizzazione-privatizzazione. Una campagna, infine, centrata sulla demolizione satirica della figura di Virginia Raggi: cosa buona e giusta, s’intende, ma anche molto facile di questi tempi, e soprattutto del tutto incongrua ad argomentare con qualche razionalità la scelta del privato contro il pubblico.
Il fronte del sì
Tra le poche entusiastiche adesioni al comitato per il sì ve ne sono alcune degne di particolare nota. L’ultima e più eminente è stata quella di Matteo Renzi: il che dovrebbe essere sufficiente sia per valutare complessivamente la proposta politica per la liberalizzazione, sia per garantire scaramanticamente la sua sconfitta, considerata l’attitudine alla débâcle referendaria che l’ex premier ovunque porta con sé. Più seriamente e più autorevolmente, invece, a sostenere convintamente il sì al referendum è stato – sorprendentemente, ma non troppo – Walter Tocci, già assessore ai trasporti nelle due giunte Rutelli degli anni Novanta. Tocci è stato, come noto, tra gli ideatori della cosiddetta ‘cura del ferro’ per la Capitale, ossia dell’idea (in gran parte incompiuta) di uno sviluppo del tpl centrato su tre assi alternativi alla mobilità su gomma: una metro C che attraversasse l’intera città e intersecasse in almeno tre punti le altre due linee di metropolitana; lo sviluppo massiccio di reti tramviarie, sia per interconnettere le linee di metropolitana, sia soprattutto per coprire le consolari sprovviste di metro e per realizzare un collegamento rapido nord-sud nell’area periferica orientale; il potenziamento delle reti ferroviarie a dimensione extraurbana e regionale e il loro collegamento sistematico con le reti urbane in ottica intermodale. Ottime idee, indubbiamente. Tocci, tuttavia, è stato anche tra i sostenitori dell’unico vero tentativo di liberalizzazione-privatizzazione del tpl romano, avvenuto tra il 1999 e il 2010 con la trasformazione di Atac in azienda esclusivamente regolatrice e con l’affidamento del servizio a Trambus, Met.ro. e Tevere Tpl (oggi Roma Tpl): operazione dagli esiti non esattamente edificanti né sotto il profilo del servizio né sotto il profilo finanziario, e comunque sostanzialmente incompiuta nel suo programma originario, prima di essere bloccata da Alemanno che avrebbe riunificato Atac per farne la più importante mangiatoia di parentopoli. Senza dimenticare che fu proprio con la ‘cura del ferro’ che le aree ferroviarie divennero edificabili (centri commerciali, case) in cambio di migliorie mai realizzate della rete FS), secondo una logica urbanistica compensativa che tanti danni ha apportati a Roma.In un lungo articolo su Internazionale Tocci ha recentemente sostenuto i motivi dell’importanza politica del referendum ed ha argomento le ragioni del suo sostegno al sì a una liberalizzazione del tpl romano. Trattandosi del più interessante degli interventi in questo senso pubblicati nelle ultime settimane, è con le sue argomentazioni che conviene confrontarsi per sostenere le ragioni del no, più che con la propaganda superficiale e populista dei Radicali. Sintetizzando, le motivazioni di Tocci possono essere ricondotte a due argomentazioni di carattere generale e una di carattere specifico.
Quando il servizio è pubblico?
La prima argomentazione generale è che il vero ‘bene comune’ consisterebbe nel servizio di trasporto e non nell’azienda pubblica, restando praticamente indifferente chi – pubblico o privato – produca quel servizio. Di più: si sostiene che la coincidenza tra regolatore e produttore del servizio genera un conflitto di interessi tale da rendere inevitabile l’inefficienza, il disservizio. Si tratta di un’idea minimale e residuale di ‘bene comune’ e di ‘servizio pubblico’, si tratta di una posizione estremamente impegnativa, che portata alle sue massime conseguenze dovrebbe sancire l’impossibilità del pubblico di svolgere direttamente qualunque servizio. Secondo questa logica, senza esagerazioni, in ogni campo il pubblico dovrebbe dismettere le proprie attività dirette, affidando a una gara di appalto anche le scuole, gli ospedali, le carceri. Non è un caso che proprio sul tema delle carceri, a fronte della strutturale inefficienza del sistema penitenziario italiano, che notoriamente condanna a una vita indegna migliaia di persone private della libertà personale, da più parti stia emergendo l’idea di perseguire il modello statunitense, che affida ai privati la gestione delle galere. Non si tratta di distogliere l’attenzione dal tema del trasporto locale, né di creare allarmismi. Si tratta piuttosto di comprendere con grande realismo il peso della posta in gioco: con tutta evidenza, la liberalizzazione-privatizzazione del trasporto pubblico locale di Roma, la maggiore metropoli del Paese, sarebbe il passo definitivo verso una stagione di completa privatizzazione di molti altri servizi pubblici. In altre parole, si tratta di comprendere che il monopolio pubblico sul trasporto comunale ha un valore, anche culturale, che bisognerebbe stare molto accorti a liquidare.A questa argomentazione generale Tocci aggiunge un corollario: il Comune che commissiona e regola il servizio svolto da Atac, essendo però contemporaneamente anche il proprietario dell’azienda, ha spuntati gli strumenti di controllo nei suoi confronti, perché l’eventuale sanzione economica di ogni disservizio di Atac produrrebbe un danno alle stesse casse del Comune. In particolare, il disservizio si può misurare tramite la differenza tra i chilometri di percorrenza previsti dal contratto di servizio e i chilometri effettivamente percorsi: a oggi, Atac svolge circa il 17% in meno del servizio previsto e finanziato dal Comune (84 milioni di chilometri contro 101 previsti); la relativa sanzione sarebbe il rifiuto dal parte del Comune di pagare per i chilometri non percorsi, cosa che però si evita di fare per non aggravare le casse di Atac e di conseguenza del suo proprietario, il Comune.
Evidentemente il problema è reale ed è grave: ancora una volta, però, la soluzione non va ricercata in uno schema di esternalizzazione, che consentirebbe di sanzionare l’eventuale privato inadempiente (anche perché, ovviamente, a subire le perdite sarebbero sistematicamente i lavoratori di quella azienda privata, non certamente i suoi azionisti, come avviene in ogni settore economico). Ciò che manca a questo ragionamento è infatti il dato non irrilevante che Atac, pur essendo di proprietà completamente pubblica, è comunque un ente di diritto privato, una SpA che segue e consegue tutte le regole (perverse) del modello aziendale. La proposta alternativa, avanzata tra i tanti dalla autorevole associazione C.A.L.M.A., sarebbe invece quella di trasformare Atac in una azienda speciale di diritto pubblico (sul modello di Acqua Bene Comune Napoli, che è l’esito del processo di ripubblicizzazione dell’azienda idrica napoletana da parte di Luigi De Magistris in ossequio al referendum del 2011). Superando le strettoie delle normative privatistiche e del meccanismo controllo incentrato quasi solo sul contratto di servizio, il Comune potrebbe allora controllare più direttamente l’efficienza e la qualità del servizio, la sua aderenza alla programmazione generale, avvalendosi dei poteri tipici dell’azione amministrativa per eliminare le eventuali inadempienze immotivate, ma soprattutto riuscendo a leggere con molta più chiarezza da che cosa derivino le criticità, se da fattori interni oppure – come ampiamente probabile – da fattori esterni, legati ad esempio all’intensità del traffico urbano, ai picchi di presenza turistica, alla qualità della rete stradale, alle condizioni metereologiche e all’efficienza dei sistemi fognari, ai difetti di programmazione delle linee, eccetera. Informazioni fondamentali, che soltanto un servizio completamente internalizzato potrebbe garantire: nei casi di liberalizzazione, infatti, eminenti studi internazionali hanno dimostrato che è sistematico e strutturale un gap informativo tra il privato appaltatore e il pubblico appaltante. La via dell’azienda speciale sarebbe, insomma, la scelta diametralmente opposta da quella proposta dal referendum, dotata però della capacità di riportare saldamente nelle mani pubbliche l’intero servizio.
Il fallimento delle privatizzazioni
La seconda affermazione di carattere generale avanzata da Tocci è l’ammissione, estremamente rilevante e assolutamente condivisibile, che la privatizzazione ha fallito ovunque. Si tratta di una affermazione da prendere seriamente. Come ha notato Paolo Berdini proprio in riferimento al referendum su Atac, la recente tragedia del crollo del ponte sul Polcevera a Genova dovrebbe mettere una definitivamente termine alla convinzione che il privato possa fare meglio del pubblico. Riconosce lo stesso Tocci che le privatizzazioni monopoliste, quale quella compiuta nelle concessioni autostradali, che perseguono lo schema della sostituzione dell’unico operatore pubblico con l’unico operatore privato, hanno nei fatti comportato la privatizzazione dei beni pubblici. Ciò che i promotori referendari sostengono, però, è che una liberalizzazione “fatta bene” salvaguarda dai quei rischi, perché gli operatori privati sarebbero una pluralità e dunque nessuno avrebbe abbastanza potere da ricattare il committente pubblico. Dividendo et imperando, si dice, il pubblico potrebbe controllare più efficacemente il privato, sanzionandolo o addirittura rimuovendolo all’occorrenza. Miracoli della concorrenza.I difetti di questo ragionamento sono diversi. Innanzitutto, bisognerebbe riconoscere che le esternalizzazioni hanno già fallito non soltanto quando hanno avuto la forma delle privatizzazioni monopolistiche, ma anche quando si è ricercata (a fatica) una qualche forma di concorrenza. Ogni considerazione sul servizio idrico andrebbe esclusa, in quanto gli affidamenti ai privati delle reti idriche dovrebbero ritenersi illegali dopo il referendum del 2011. Escludiamo anche le telecomunicazioni, dove la liberalizzazione è stata precoce ma dove gli operatori privati, nonostante qualche forma di protezionismo nazionale, sono riusciti nell’incredibile impresa di portare ad un fallimento pressoché generalizzato un settore di mercato che dovrebbe garantire profitti altissimi anche in periodi di recessione. Ma nel settore del trasporto ferroviario, l’introduzione di un nuovo operatore (Italo) da affiancare a quello storico (Trenitalia) non ha comportato alcun vantaggio in termini di accessibilità e di qualità del servizio, che resta fortemente classista e inefficiente.
Nei settori della distribuzione dell’energia elettrica e del gas, la concorrenza non ha generato alcun vantaggio né tariffario né qualitativo per i consumatori (per di più vessati dall’invadenza dei promotori a domicilio del “mercato libero”), neppure alla vigilia dell’imminente fine dell’ultimo residuo di regolazione pubblica, il cosiddetto “mercato tutelato”, e l’Autorità preposta notoriamente fatica a disinnescare i meccanismi di cartello; in particolare nel settore elettrico, tra l’altro, gli operatori privati si sono dimostrati del tutto inadeguati a perseguire politiche di sostenibilità ambientale, tanto che l’unica prospettiva per l’implementazione delle energie rinnovabili sembra essere la nazionalizzazione. Nel settore sanitario, molte Regioni hanno deciso di includere gli operatori privati cosiddetti “convenzionati” per raggiungere i livelli essenziali delle prestazioni, cioè per garantire il servizio pubblico, con un meccanismo che ha creato enormi danni sia ai lavoratori (la sanità privata è tra i settori più precarizzati del mercato del lavoro) che agli utenti (si pensi al numero di obiettori presenti nel privato convenzionato).
Per non parlare poi del settore dei servizi sociali e dei servizi di accoglienza, che è un settore iper-liberalizzato, dove il pubblico non svolge in house quasi alcun servizio, funzionando quasi esclusivamente su gare d’appalto, spesso verso enti del Terzo Settore, ma che – Mafia Capitale insegna – è uno degli ambiti peggio gestiti di tutto il comparto pubblico, vero e proprio brodo di coltura della peggiore corruzione (peraltro del tutto funzionale ad alimentare le retoriche razziste oggi al governo del Paese). Per tornare all’ambito urbano, sono ampiamente liberalizzati tramite gare d’appalto i servizi di manutenzione stradale, ma per contarne gli effetti disastrosi basterebbe contare le buche di Roma.
Parlando di liberalizzazione, insomma, bisognerebbe fare i conti una volta per tutti non soltanto con il fatto che ogni privato persegue solo il suo profitto, ma anche con la natura parassitaria, inefficiente, strutturalmente corrotta del mondo dell’impresa privata in Italia, soprattutto di quella finanziata dal pubblico per gestire servizi pubblici. Si tratta di considerare molto realisticamente che il circuito pubblico-privato è estremamente più inefficiente e radicalmente più corrotto del circuito pubblico-pubblico, e nessuna parentopoli, nessuno sfacelo di Atac, nessuno schifo per la classe politica può consentire di dimenticare questa verità. Se una azienda pubblica viene gestita male, il Sindaco può sempre rimuovere il suo amministratore delegato; se anche il Sindaco è incapace, si può sempre provare cambiare Sindaco, si possono orientare le politiche tramite le procedure democratiche e/o tramite l’attivazione dal basso; assai più difficile, invece, è scalfire gli strapoteri di un amministratore delegato privato, o di un cartello di concessionari che si coalizza per mettere sotto scacco il pubblico.
Chi sostituirebbe Atac?
Nell’ambito del trasporto pubblico locale, in particolare, parlando di liberalizzazione in senso realistico bisognerebbe guardare alla effettiva composizione del settore di mercato, agli operatori effettivamente presenti, assumendo che aziende in grado di vincere una gara europea non si tirano su da un giorno all’altro. Di aziende adeguate, sul mercato, ce ne sono poche. Se si vietasse ad Atac di partecipare alla gara per lasciarle esclusivamente il compito del controllo e della pianificazione, come ipotizza Tocci (diversamente da quanto ipotizzano invece i Radicali – ma il punto è abbastanza dirimente), quali sarebbero concretamente gli altri operatori disponibili ad accollarsi l’enorme rischio di avere a che fare con Roma Capitale? Probabilmente Roma TPL, azienda privata che già oggi gestisce disastrosamente il 20% del trasporto pubblico romano, soprattutto le linee di periferia, le più inefficienti in assoluto. O forse, piuttosto, l’azienda municipalizzata di qualche altra città italiana, magari l’Atm di Milano, anch’essa come Atac sull’orlo del fallimento, che l’avventuriero Sala potrebbe lanciare in una operazione coloniale su Roma, il cui eventuale esito fallimentare si ripercuoterebbe sugli abitanti milanesi oltre che su quelli romani. Oppure, ancora, l’azienda dei trasporti di qualche importante capitale europea: Berlino, Parigi, Vienna, Copenaghen, Madrid, tutte metropoli dove il trasporto locale è saldamente affidato ad aziende pubbliche che funzionano egregiamente. In proposito, va rilevato che in Europa la tendenza è verso la ripubblicizzazione di ciò che era stato privatizzato o liberalizzato, proprio il contrario di ciò che si vorrebbe fare a Roma. Persino a Londra, ad esempio, la società Transport for London (TfL) ha negli ultimi anni effettuato la rescissione e la consecutiva ripubblicizzazione delle attività previste nei due contratti di Private Public Partnership (PPP), Metronet e Tubelines, nati allo scopo di effettuare grandi lavori di rinnovamento della metropolitana londinese facendo leva sulla partecipazione di privati: il fallimento di queste società pubblico-private ha indotto un comitato parlamentare paritetico a prodotto un rapporto pesantemente critico su tali esperienze di collaborazione. A seguito di queste ri-municipalizzazioni, TfL ha revisionato tutti gli altri PPP, producendo una notevole riduzione dei costi nonché un migliore risultato nella gestione pubblica dei servizi di trasporto.Il ricatto del debito
Insomma, conquistare un’Atac pubblica, funzionante ed efficiente può forse sembrare un traguardo difficile; altrettanto, però, immaginare un sistema liberalizzato perfettamente concorrenziale, con un ente pubblico che programma intelligentemente, sceglie imparzialmente e controlla severamente, privo di logiche di massimizzazione del profitto da parte degli operatori privati, e privo di qualunque meccanismo corruttivo, significa immaginare una vera e propria utopia completamente irrealizzabile nel contesto italiano e in particolare romano. A questa consapevolezza, tuttavia, i sostenitori della liberalizzazione-privatizzazione oppongono una specie di asso nella manica, una verità dura come il marmo a fronte della quale ogni opinione contraria dovrebbe tacere, che coincide con l’argomentazione di carattere specifico adottata anche da Tocci: la crisi finanziaria di Atac.Effettivamente, come è noto, Atac ha un debito mostruoso che attualmente ammonta a circa 1 miliardo e 300 milioni di euro, parte dei quali sono peraltro dovuti nei confronti dello stesso Comune. Una somma spaventosa, eppure perfettamente in linea con la situazione drammatica dell’intera amministrazione finanziaria di Roma, che 1,3 miliardi di debito di Atac aggiungersi a 1,2 miliardi di debito di Ama e soprattutto a 13,6 miliardi di debito della stessa Roma Capitale (cifra nella quale sono ricompresi – è bene ricordarlo – ben 4,8 miliardi soltanto per il pagamento dei carissimi interessi da qui al 2048): sintomo del fatto che ad essere in difficoltà strutturale non è soltanto l’Atac, ma l’intero sistema di finanziamento pubblico basato sull’indebitamento e le sue cicliche crisi di sostenibilità.
Tornando ad Atac, però, il debito è l’arma per effettuare un vero e proprio ricatto: la situazione finanziaria è talmente insostenibile che prima o poi si arriverà a un default, quindi a una svendita al ribasso dell’azienda e a una successiva privatizzazione monopolistica; meglio dunque prevenire sopprimendo il malato e perseguendo da subito una più pulita liberalizzazione in regime concorrenziale. Si tratta di un ricatto francamente inaccettabile, non soltanto su un piano ideologico, ma anche su un piano maledettamente concreto. Al debito di Atac, infatti, occorrerebbe far fronte innanzitutto tramite un serio audit sulla natura di questo debito, che abbia come presupposto la convinzione che sono illegittimi i debiti pubblici contratti non in favore della collettività, e in secondo luogo predisponendo un piano industriale per l’azienda pubblica capace di ripianare quel debito su periodi lunghi e con garanzie bancarie pubbliche consistenti.
In proposito, il concordato preventivo messo in campo da Virginia Raggi per far fronte al rischio di default ha avuto e ha tuttora enormi difetti: si è trattato di una scelta pavida, perché ha rimesso nelle mani di un giudice la decisione sul piano di rientro, facendo abdicare la politica, e di una scelta pericolosa, perché se il concordato fallisce il fallimento diventa automatico. Anche i contenuti del concordato sono estremamente problematici, a partire dal fatto che si prevede una svendita massiccia, l’ennesima, di una enorme quantità di immobili pubblici di proprietà di Atac, pezzi importanti di città consegnati alla speculazione immobiliare. Eppure, in questo disastro, la procedura del concordato preventivo contiene almeno l’indicazione di continuare a reperire le risorse per l’appianamento del debito dentro l’attività industriale di Atac, attingendo ai fatturati provenienti dal contratto di servizio e della bigliettazione. Al contrario, nell’ipotesi della liberalizzazione-privatizzazione, Atac non potrebbe più nemmeno in ipotesi ripagare da sé quel debito, che finirebbe ad accrescere ancora di più la massa già enorme del debito di Roma Capitale.
I veri problemi del trasporto pubblico romano
Ma perché Atac funziona male? Perché il trasporto pubblico romano è il peggiore d’Europa? Individuare nella natura pubblica dell’azienda dei trasporti l’origine di tutti i mali è una gigantesca semplificazione, incapace di affrontare i problemi nella loro complessità. Se da domattina il tpl venisse liberalizzato, anche nel migliore dei modi possibili, con ogni probabilità tra un anno ci sveglieremmo in una città in cui spostarsi senza macchina sarà ancora un’odissea.Per affrontare adeguatamente il tema dei trasporti, intanto dovremmo partire dalla considerazione che Roma spende troppo poco per il suo tpl: se si guardano alle relative poste del bilancio comunale, si scopre che la spesa annua per abitante per il trasporto pubblico a Roma è € 260 contro i € 580 di Milano. Sembra paradossale se si pensa a parentopoli, ai fenomeni di corruzione e dilapidazione del denaro pubblico, ma è innegabile che Atac è stata sistematicamente sottofinanziata rispetto al fabbisogno reale di una metropoli come Roma.
In secondo luogo, va riconosciuto che il malfunzionamento del trasporto romano ha a che fare, più di ogni altra cosa, con una dinamica di espansione e frammentazione urbanistica folle, senza precedenti e soprattutto senza paragoni in Europa. La fame di nuovo cemento dei costruttori romani ha determinato la dispersione dei tessuti abitati anche in zone lontanissime dal centro: zone dove l’Atac non può evitare, assai democraticamente, di piantare comunque una palina di un autobus, sostenendo a costi esorbitanti di gestione per linee così dispersive, a fronte di un servizio che – specialmente in termini di frequenza – non potrà che essere scadente. La prima e più importante misura per garantire un trasporto pubblico di qualità dovrebbe essere quella di smettere per sempre di costruire nell’agro romano, ma anche di adottare un complesso di politiche (contenimento dei valori immobiliari, rimessa in circolazione degli immobili vuoti, nuova edilizia residenziale pubblica, social housing) che riportino la gente ad abitare a Roma, dentro Roma, vicino al centro e vicino alle poche vie di trasporto rapide ed efficienti che già esistono.
In terzo e ultimo luogo, va preso atto che la percezione diffusa che il trasporto pubblico locale è drammaticamente inefficiente ha certamente a che fare con il malfunzionamento di Atac, ma probabilmente ha molto più a che fare con una spaventosa inadeguatezza delle infrastrutture. Roma possiede 58,8 km di metropolitane, contro i 98,8 di Milano (e omettiamo impietosi confronti con le metropoli europee). I tram nella Capitale coprono 31 km, contro i 170 del capoluogo lombardo (che, per inciso, ha una superficie sette volte inferiore). Spostarsi a Roma senza macchina è dannatamente faticoso soprattutto perché non ci sono linee abbastanza rapide e interconnesse. Per far funzionare bene Atac, oltre che mantenerla pubblica, occorrerebbe soprattutto fornirle una rete adeguata. La qual cosa non ha nulla a che vedere con la natura pubblica o privata del gestore del servizio, ma piuttosto con una idea complessiva di città e con il livello di investimenti che si riesce a mettere in campo. Purtroppo, nel PUMS – il Piano urbano per la mobilità sostenibile varato dalla Giunta Raggi – tra le cosiddette ‘invarianti’, ossia le opere ritenute indispensabili, compare solo un intervento sulle linee metropolitane (il prolungamento della metro B fino a Casal Monastero, peraltro privo di finanziamento), e compaiono solo sette progetti per nuove linee tramviarie, quasi tutti concentrati nella piccola area del centro storico (l’unico intervento in periferia è l’asse tangenziale Togliatti, che dovrebbe collegare le due metro da Anagnina a Ponte Mammolo; non c’è nessun intervento sugli assi radiali), dei quali soltanto uno è stato effettivamente finanziato ed è in procinto di avviare il cantiere (la breve linea tramviaria tra i Fori e piazza Vittorio).
Troppo poco, indubbiamente. Ma la discussione da fare, più che impegnarsi a regalare il tpl ai privati, sarebbe esattamente questa: quali nuove linee, dove, perché, con quali soldi. La discussione, insomma, intorno alla ‘cura del ferro’: un progetto di ampio respiro, ambizioso e capace – quello sì, altro che liberalizzazione – di cambiare il volto della città.
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