mercoledì 21 novembre 2018

Ambiente. Emergenza rifiuti: le discariche scoppiano e la malavita fa affari.

Troppo consumo. Qualità scarsa. Riciclo scadente. Il sistema di smaltimento è al capolinea. Così la criminalità si arricchisce. Incendiando tutto, dalla Lombardia ala Campania.

Emergenza rifiuti: le discariche scoppiano e la malavita fa affariDietro gli incendi nei depositi di rifiuti non ci sono soltanto la criminalità, la camorra o i boss della Terra dei Fuochi. Sarebbe fin troppo facile pensarlo.
C’è invece un sistema di smaltimento al capolinea perché costruito, in gran parte d’Italia, sulla sistematica elusione delle direttive dell’Unione europea.
Con tutte le inevitabili conseguenze: troppa plastica da riciclare e di cattiva qualità, tanto che le imprese legali non la possono riutilizzare.  
Alla fine diventa una questione di domanda e offerta: un eccesso di produzione scadente riempie i centri di smistamento che nessuno al momento è in grado di svuotare.

La settimana scorsa, la prima sezione penale del Tribunale di Roma ha assolto l’ex monopolista delle discariche della Capitale, Manlio Cerroni, respingendo le accuse del pubblico ministero che aveva chiesto la condanna a sei anni di reclusione. Assolti anche gli altri imputati. Secondo i giudici non è mai esistita un’associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti solidi e urbani nel Lazio. Il perché verrà spiegato nelle motivazioni quando saranno depositate. È comunque evidente che quello di Roma era e resta un modello alla luce del sole: un sistema di elusione delle norme europee, autorizzato dalle politiche regionali e comunali di ogni colore, passate e presenti, e ovviamente condiviso dai cittadini-elettori. Il risultato lo vediamo nelle periodiche crisi che riempiono i cassonetti e sommergono i quartieri. Fino a quando non si trova qualche altra regione italiana in grado di smaltire l’eccesso di immondizia. Lo stesso accade in Campania.Dai depositi delle province di Napoli e Caserta veniva gran parte delle sedicimila tonnellate di rifiuti infiammabili, soprattutto plastica, accatastate senza autorizzazione nell’impianto di smistamento della Ipb Italia srl in via Chiasserini 21 alla periferia di Milano e completamente bruciate a metà ottobre.La nube di fumi irritanti ha coperto per giorni la città. E ancora oggi gli abitanti dei quartieri tra Quarto Oggiaro, Bovisa e Affori si lamentano per l’odore, le esalazioni e i vapori che ancora salgono dagli ammassi inceneriti. Le indagini, coordinate dal pubblico ministero Donata Costa, stanno cercando di ricostruire la filiera a monte dell’incendio, quasi sicuramente doloso. Un dato è già calcolabile: le sedicimila tonnellate andate a fuoco in pochi giorni hanno disperso nell’aria una quantità di polveri inquinanti paragonabile a quella che tutti gli inceneritori italiani produrrebbero in oltre duemilacinquecento anni di attività. E dopo Milano, il primo novembre le fiamme hanno distrutto un altro deposito a Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta.
Dal 2014 Il Sole 24 Ore ha censito oltre 340 incendi a impianti per la lavorazione dei rifiuti: tra questi, i roghi hanno distrutto 136 centri di trattamento, 103 discariche abusive, 31 discariche autorizzate, 45 piattaforme di selezione, 14 inceneritori. Piemonte, Lombardia, Veneto, Lazio e Campania le regioni più colpite.

I produttori siamo noi

Se c’è un eccesso di offerta di plastica, basterebbe ridurre la produzione. Dovremmo però cambiare le nostre abitudini commerciali: perché i produttori siamo noi. Quarant’anni fa i fruttivendoli confezionavano frutta e verdura al momento della vendita dentro piccoli sacchetti di carta. I macellai avvolgevano la carne nella carta per alimenti e in un secondo foglio di carta velina. L’acqua veniva venduta dentro bottiglie di vetro riutilizzabili attraverso il sistema di raccolta su cauzione. Ma al piccolo negozio oggi preferiamo le grandi catene. E questo è l’elenco di quanta plastica può produrre ogni giorno l’alimentazione di una coppia senza figli che fa la spesa in un centro commerciale: confezione di biscotti 10 grammi, pancarré 10, mezzo litro di latte 40, pesto 20, due hamburger da cuocere 10, pomodori 15, formaggio 30, yogurt 10, biscotti artigianali 10, petti di pollo 35, verdure da cuocere 15, uva 30, un litro d’acqua naturale 20. L’abbiamo calcolato in un supermercato di Milano: fanno 255 grammi di splendida plastica trasparente al giorno. Sette chili e seicentocinquanta al mese. Novantadue chili l’anno soltanto per l’alimentazione. Senza calcolare i flaconi di shampoo e detersivi, gli imballaggi e la merce varia sigillata dentro spessi strati di cellophane.

Il conto annuale lo tiene l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), ente sottoposto alla vigilanza del ministro dell’Ambiente, Sergio Costa. Nonostante l’impegno assunto dagli Stati per la riduzione dei rifiuti urbani e dalle imprese per modificare la composizione e il peso delle confezioni, l’Italia viaggia nella direzione opposta: si è passati da 487 chili di immondizia a persona del 2015 ai 497 del 2016, anche se a questo incremento può avere influito la modifica dei parametri di rilevamento e, come spiega il rapporto pubblicato all’inizio di quest’anno da Ispra, il relativo incremento dei consumi.

Il record è dell’Emilia Romagna, con una produzione di 653 chili di rifiuti urbani pro capite. Seguono la Toscana (616) e la Valle d’Aosta (573). Il Lazio è stabile a 513 chili. La Lombardia in crescita da 462 a 477. Ultimi il Molise e la Basilicata con 388 e 354 chili per persona. In valori assoluti, nel 2016 gli italiani hanno prodotto 30,1 milioni di tonnellate di rifiuti urbani. Un peggioramento rispetto ai cinque anni precedenti che avevano portato la produzione a 29 milioni e mezzo, dopo i record negativi registrati tra il 2006 e il 2010 costantemente sopra i 32 milioni di tonnellate. Sempre nel 2016, ultimo dato disponibile, la plastica recuperata attraverso la raccolta differenziata ha raggiunto un milione e 233 mila tonnellate. Ma viene tutta riciclata?

Sindrome cinese

Il Corepla è il Consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica. Fa parte del Consorzio nazionale imballaggi e rappresenta un sistema di eccellenza per garantire l’economia circolare secondo le ultime direttive europee: prevenire la creazione di rifiuti, privilegiarne la riparazione e il riciclo, recuperare l’energia termica ed elettrica dagli scarti attraverso la combustione nei termovalorizzatori e soltanto alla fine del processo, smaltire il residuo in discarica.

Su 1.233 milioni di tonnellate di plastica recuperata nel 2016, però, le aziende consorziate al Corepla hanno avviato a riciclo 550 mila tonnellate di prodotti suddivisi per polimeri: dalle bottiglie trasparenti a quelle colorate ai film di imballaggio. Le balle di plastica sono state battute all’asta e vendute a imprese di riciclaggio autorizzate. Il resto, poco più della metà, è rimasto in attesa nei depositi, oppure è stato scartato per la cattiva qualità nella raccolta oppure, magari proprio per questo, è partito per l’Oriente. Fino a fine 2017 gli Stati dell’Unione europea hanno spedito in Cina l’87 per cento della propria produzione di rifiuti in plastica. La sindrome cinese comincia all’inizio di quest’anno, quando Pechino decide di bloccare le importazioni.

«Si arrivava già da un periodo di prezzi del petrolio ai minimi», racconta un ex broker di rifiuti che chiede l’anonimato: «Significa che anche il prezzo dei polimeri vergini si abbassa, diventando più conveniente della plastica riciclata. Questa circostanza ha riempito i depositi sia in Europa sia negli Stati Uniti. La via cinese si è aperta così: come via d’uscita per un mercato saturo. Se c’è domanda, la plastica riciclabile di buona qualità acquista valore e chi se la prende paga. Ma se resta invenduta o è di scarsa qualità per una pessima raccolta differenziata, diventa rifiuto. Così chi se la prende, viene pagato. È stato un affare per molti di noi: smaltire a costi cinesi, trasporto compreso, ed essere pagati a prezzi europei, comunque scontati rispetto alle tariffe ufficiali. C’erano migliaia di mercantili destinati a tornare in Cina vuoti dopo aver scaricato le merci in Europa. Li abbiamo riempiti di balle di plastica».

Ma il bando all’importazione deciso da Pechino ha spezzato la catena: «Chi aveva garantito il trasferimento in Cina a prezzi scontati, oggi si ritrova con i depositi pieni e tariffe di smaltimento europee inavvicinabili», spiega l’ex broker: «Allora hanno cominciato ad apparire nell’ambiente strani personaggi senza scrupoli: gli stessi che magari hanno contribuito al bando cinese, nascondendo nella plastica in partenza scarti pericolosi non dichiarati. Si fanno pagare per svuotare i depositi intasati. Riempiono capannoni abbandonati. E danno fuoco». Pochi giorni fa anche la Malesia, destinataria dell’immondizia britannica, ha annunciato un imminente divieto permanente sulle importazioni di rifiuti di plastica.

Paradossalmente il polietilene tereftalato (Pet), riciclato dalle bottiglie di plastica, proprio in questi mesi viene pagato a prezzi record: oltre i 900 euro a tonnellata per quello trasparente in fiocchi, oltre 600 per la variante colorata, contro 1.350 euro a tonnellata per la materia prima vergine. Ma per partecipare all’affare bisogna garantire un’ottima raccolta differenziata. E in Italia soltanto quattro regioni rispettano gli obiettivi del 65 per cento stabilito dalle norme europee già per il 2012: sono Lombardia (68.1), Veneto (72,9), Trentino Alto Adige (70,5) e Friuli Venezia Giulia (67,1). Il Lazio è fermo al 42,4 per cento. La Puglia al 34,3, la Sicilia al 15,4 mentre la Sardegna è un esempio virtuoso con il 60,2 per cento, quasi come l’Emilia Romagna (60,7). La media nazionale (52,5 per cento) è comunque cresciuta di cinque punti rispetto al 2015.

Roma col trucco

Roma è molto più indietro: 42,8 di differenziata secondo l’Ispra, 44,3 secondo il Comune. La Capitale produce 570 chili di rifiuti per abitante e 2,362 milioni di tonnellate all’anno, tanto quanto la produzione dell’intera Toscana o del Veneto. Sottratta la raccolta differenziata, l’azzardo romano consiste nello smaltire oltre un milione di tonnellate di immondizia indifferenziata rimanente e fare a meno delle regole dell’economia circolare. Da un lato, i rifiuti urbani non possono essere buttati in discarica. Dall’altro per anni la politica di ogni colore ha conquistato consenso rinunciando alla costruzione di nuovi impianti di incenerimento o al potenziamento dei pochi esistenti. Lo stratagemma è il Tmb, il trattamento meccanico biologico: una selezione, dopo la raccolta porta a porta, che dovrebbe separare i rifiuti. Non ci sono soltanto Roma, il Lazio, la Campania: dieci milioni di tonnellate in tutta Italia, un terzo della produzione nazionale, è ancora trattato attraverso il metodo dei Tmb. Il risultato lo riassumono i ricercatori dell’Ispra: «Il 54,7 per cento, corrispondente a 5,5 milioni di tonnellate del totale dei rifiuti prodotti, viene smaltito in discarica». Ma non era vietato? Sì, ma il trucco è proprio questo: dopo il trattamento, l’immondizia da urbana diventa speciale. E quindi si può.Le infrazioni alle regole europee però si pagano. Un nuovo procedimento è stato avviato nel 2017 dalla Commissione per 44 discariche in Friuli, Abruzzo, Campania, Puglia e Basilicata. Dal 2008 gli italiani hanno già versato 285 milioni di multe all’Unione europea: 107 milioni per la Campania e 178 per un’altra rete di discariche irregolari. E il salasso continua: alla media di 120 mila euro per ogni giorno di illegalità.

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