Di Rosaria Talarico
ROMA. Alla fine se la sono presa anche con lui: il buono pasto. Magari poi
trasformato in buono spesa, in ogni caso un fido alleato per arrivare con più
facilità a fine mese. Ma le forbici della spending review tagliano anche il
valore dei ticket ristorante per gli statali, 450 mila persone tra ministeri
romani e attività distaccate nelle province: dagli attuali 7 euro a poco più di
5.
«Ridurre l’importo del buono pasto dei dipendenti pubblici a 5,29 euro, cioè
la soglia massima esentasse, significa tornare al valore di acquisto di 15 anni
fa e quindi togliere fisicamente il pane dalla bocca a tanti lavoratori senza
far risparmiare in maniera significativa lo Stato» si lamenta Franco Tumino,
presidente Anseb, l’associazione delle società emettitrici buoni pasto aderente
a Fipe-Confcommercio.
Peraltro si teme anche un contraccolpo per gli incassi di baristi e
ristoratori. L’Anseb sostiene, confortata da un recentissimo studio
dell’Università Bocconi di Milano che il valore minimo attualizzato del buono
pasto è di 8 euro e che si potrebbe innalzare il valore esentasse fino a questa
cifra, senza gravare sulla spesa pubblica.
Secondo gli esperti della Bocconi, è possibile vincere questa sfida se il
buono pasto venisse utilizzato nella maniera corretta, cioè destinandolo
esclusivamente alle spese alimentari e non per comperare calze, detersivi e
altra merce similare.
Tra gli statali la notizia crea scompiglio. C’è chi si chiede, all’uscita di
uno dei tanti bar che in centro raccolgono orde di ministeriali in pausa pranzo,
se non sia il caso di toglierlo del tutto il buono pasto, invece di «lasciare
un’elemosina da 5 euro». Una cifra con cui in effetti a Roma forse si riesce a
bere una Coca Cola, non certo fare un pranzo. Altro capannello, altra domanda
retorica: «Avranno tagliato anche i buoni pasto per i dipendenti di Camera e
Senato?».
La dieta dimagrante per i ticket non è una novità del premier Monti o del
commissario straordinario Enrico Bondi. Già nella finanziaria dello scorso anno
ci aveva provato l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, tentando di
cancellarlo per tutti i dipendenti pubblici che lavoravano meno di 8 ore al
giorno.
I sindacati non ci stanno e considerano il buono pasto non come un benefit,
ma come una voce dello stipendio che deve quindi essere oggetto di
contrattazione. E il conto su quanto inciderebbe il taglio sul bilancio
familiare è presto fatto: fino a 150 euro in meno a fine mese. «Ci meravigliamo
– conclude Tumino – come lo Stato pensi di ridurre l’importo di uno dei pochi
strumenti di pagamento interamente tracciabili dall’inizio alla fine della
filiera».
Tracciabile o no, il buono pasto è frutto di una lotta iniziata 15 anni fa.
Con un valore iniziale di 9 mila lire, già il passaggio all’euro aveva
provveduto ad assottigliarne il potere di acquisto. La battaglia sindacale per i
ticket è stata aspra: durante il governo Dini, i buoni pasto furono la merce di
scambio per la flessibilità nell’orario degli uffici (aperti anche nel
pomeriggio). Poi, come spesso capita con le trattative sindacali, il beneficio
fu esteso a tutti i dipendenti e non solo a coloro che avevano il rientro
pomeridiano. Così il buono pasto viene corrisposto a chi lavora 36 ore a
settimana (cioè almeno 7 ore e 12 minuti al giorno).
Di solito si ha diritto a 5 ticket a settimana, per un controvalore di 7 euro
l’uno che scende a 4,65 negli enti locali). I sindacati aspettano l’incontro
della settimana prossima per discutere anche di questo con il governo,
considerando che finora un confronto diretto sul tema della spending review non
c’è stato. Di certo il governo potrà decidere della sorte dei buoni pasto dei
ministeriali, ma non di quelli del comparto sanità o degli enti locali su cui
non ha la competenza. Presto si vedrà se «tirare la cinghia» sarà un’espressione
meno metaforica per gli statali costretti a portarsi un panino da
casa.
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