di Sergio Cesaratto, Emiliano Brancaccio,Antonella Stirati e Claudio Gnesutta, da Left-Avvenimenti, 23 giugno 2012
Quattro economisti italiani smontano i quattro più importanti “luoghi comuni” che riempiono le pagine dei giornali, nei giorni precedenti al vertice di Bruxelles del 28 e 29 giugno, nel quale si deciderà il futuro dell’Europa. Tesi economiche ripetute come un mantra, eppure false sul piano teorico ed empirico. Quattro economisti “critici” ci spiegano perché le tesi fondamentali dell’economia neoliberista non sono la soluzione, ma il problema.
1. Per salvare l’euro serve un’Europa politica basata sull’austerity? NO.
di Sergio Cesaratto
Assolutamente no se per Europa politica si intende ciò che ha più volte ripetuto Angela Merkel. L’Europa che ella prefigura è assai inquietante: una definitiva espropriazione della libertà democratica dei cittadini sulle decisioni in materia di bilancio, accentrate a Bruxelles. In cambio la Germania propone un “fondo di redenzione” in cui i Paesi metterebbero in comune il debito eccedente il fatidico 60 per cento del Pil, impegnandosi a restituirlo in una ventina d’anni. Null’altro che un rafforzamento del cosiddetto fiscal compact già imposto da Berlino: due decenni di austerità assicurata in una Europa divisa fra ricchi e poveri. È questa una prospettiva inaccettabile e disastrosa. Più Europa servirebbe, invece, se l’obiettivo fosse quello di assicurare la crescita delle aree più svantaggiate. Qualsiasi soluzione deve rispondere al problema alla base della crisi: la moneta unica ha aggravato i differenziali di competitività fra le economie europee deboli e forti.
Questo ha prodotto una decade di stagnazione e poi la crisi per l’Italia, mentre la Spagna ha mascherato il problema dietro una crescita di carta, anzi di mattone, finanziata da afflussi di capitali tedeschi e si ritrova oggi indebitata sino al collo. In genere coloro che credono nei poteri salvifici dell’Europa politica tralasciano tali problemi e ne trascurano i relativi costi e ostacoli politici, provenienti soprattutto dai tedeschi. Una Europa politica genuina e sostenibile implica infatti principi di riequilibrio economico fra Paesi e di perequazione sociale fra i propri cittadini che possono essere realizzati in due modi. Il primo è una vera svolta europea volta a: mettere assieme i debiti pubblici (eurobond) stabilizzando i debiti pubblici nazionali, invece di ridurli; creare un bilancio federale degno di questo nome per sostenere domanda, occupazione e ambiente; riformare la Bce nella direzione del sostegno alla politica fiscale e sviluppo; fissare un target di inflazione almeno al 4 per cento, con l’impegno tedesco ad attenersi a tale obiettivo, dando spazio al recupero di competitività dei Paesi periferici. In alternativa si potrebbe procedere verso una “transfer union” che mantiene lo status quo nelle competitività relative, mentre i Paesi forti redistribuiscono alla periferia i proventi dei surplus commerciali sotto forma di congrui trasferimenti monetari, in modo da realizzare una perequazione negli standard di vita. Mentre la seconda strada è chiaramente inattuabile, la prima potrebbe essere tempestivamente perseguita. Ciò senza richiedere premature ed eccessive cessioni di sovranità nazionale. Ma l’opposizione della Germania a quelle ragionevoli misure è formidabile, non volendo quel Paese abbandonare il proprio modello neomercantilista basato sulle esportazioni. In verità c’è al momento un bailamme di proposte volte ad aprire un varco al muro dei nein tedeschi. La confusione è dunque grande e non promette nulla di buono e di tempestivo, mentre i mercati non perdoneranno le mezze misure. Appena i tassi sui buoni decennali italiani supereranno il 7 per cento preparatevi al peggio.
2. L’aumento dello spread dipende dal debito pubblico degli Stati? NO.
di Emiliano Brancaccio
Lo spread è la differenza tra due tassi d’interesse. Nello specifico, è la differenza tra i tassi di interesse che pagano sul proprio debito i Paesi periferici dell’euro e il tasso pagato sui titoli della Germania. Lo spread tende ad aumentare quando il mercato inizia a contemplare l’eventualità di una caduta del valore dei titoli dei Paesi periferici. Per convincere i mercati a trattenere i titoli e magari ad assorbirne di nuovi, bisogna offrire un tasso d’interesse più elevato. In genere è così che lo spread inizia la sua inquietante scalata. Fin dalla nascita dell’euro, e in modo ancor più accentuato a partire dalla crisi del 2008, gli spread dei paesi aderenti alla zona euro hanno presentato correlazioni non tanto con il deficit e il debito pubblico, quanto piuttosto con il deficit e il debito verso l’estero, sia pubblico che privato. In altri termini, non è l’eccesso di spesa pubblica sulle entrate fiscali a preoccupare tanto, quanto piuttosto l’eccesso di importazioni sulle esportazioni verso l’estero. Un eccesso che si concentra nei paesi periferici dell’Unione e che rappresenta l’immagine speculare del surplus di esportazioni tedesco. Rispetto alla vulgata, che si concentra pressoché esclusivamente sui pericoli derivanti dai bilanci pubblici, questi risultati appaiono sorprendenti. Eppure, la loro spiegazione è semplice. Gli alti tassi d’interesse, e quindi anche gli alti spread rispetto ai tassi tedeschi, si spiegano con il fatto che gli operatori sui mercati prevedono non semplicemente un fallimento di alcuni Stati, quanto piuttosto un loro sganciamento dall’Euro e una svalutazione del cambio. In particolare, in una fase di crisi come l’attuale, i Paesi in deficit commerciale verso l’estero potrebbero vedersi costretti a un certo punto ad abbandonare la moneta unica, riconquistare la sovranità monetaria e svalutare la moneta nazionale. Se dunque lo spread sale, ciò significa che gli operatori finanziari non prevedono semplicemente un default di alcuni Stati, ma si attendono che questi abbandonino la zona euro. Chi contempla questa eventualità risulterà disposto a trattenere i titoli dei Paesi a rischio di sganciamento solo in cambio di tassi d’interesse più elevati. Pertanto, l’evento che appariva inconcepibile appena pochi mesi fa, ora viene scontato nei valori effettivi ai quali si scambiano i titoli sui mercati finanziari. Ed è bene ricordare che tale sconto avviene sui titoli sia pubblici che privati: la previsione di una uscita dall’euro modifica non solo i debiti dello Stato ma anche delle banche, delle imprese e delle famiglie.
3. Per tornare alla crescita bisogna liberalizzare il mercato del lavoro? NO.
di Antonella Stirati
Secondo la teoria tradizionale la deregolamentazione del mercato del lavoro e la flessibilità verso il basso dei salari farebbero aumentare l’occupazione. Si sostiene, cioè, che la domanda di lavoro è inversamente proporzionale al suo costo. Più alti sono i salari, minore è la domanda di lavoro, più cresce la disoccupazione. Questa idea nel corso del ’900 è stata messa in discussione de Keynes e Sraffa e sul piano empirico non ha riscontri. Persino un’istituzione internazionale favorevole alla liberalizzazione del mercato del lavoro come l’Ocse nei suoi studi non ha trovato relazioni tra gli indici di protezione dell’impiego e i tassi di disoccupazione. Altri studi dimostrano al contrario che la disoccupazione è in relazione con l’andamento della domanda aggregata. E che esiste una relazione positiva tra alti salari, crescita dei consumi, crescita del Pil e alta occupazione. La deregolamentazione del mercato del lavoro e la spinta in basso dei salari possono determinare anche la riduzione della produttività: le imprese, potendo comprimere il costo del lavoro, sono meno incentivate a introdurre innovazioni tecnologiche. In un mercato aperto, una riduzione dei costi e dei salari può effettivamente consentire una crescita delle esportazioni. Ciò è recentemente avvenuto, ad esempio, in Irlanda e in Germania. La prima ha attratto investimenti offrendo alle imprese vantaggi fiscali. La Germania è invece riuscita a far crescere la produttività, senza far crescere i salari. Ma la competitività è sempre relativa. Se tutti i competitori abbassano i salari, non vince nessuno. L’unico risultato è una riduzione della domanda e della crescita. Per recuperare il differenziale di competitività con la Germania i Paesi della sponda Sud dovrebbero ridurre i salari e i prezzi dei beni esportati di qualcosa come il 30 per cento. Se accadesse (come è probabile) che la riduzione dei salari non producesse un’eguale discesa dei prezzi, il potere d’aquisto delle retribuzioni si ridurebbe, creando contraddizioni sociali insostenibili. D’altra parte se anche i prezzi scendessero, questo renderebbe comunque il debito contratto, sia pubblico che privato, più oneroso, con conseguenze gravissime. Se il problema è di riallineare la competitività di Berlino con quella dei Paesi della sponda Sud, ciò si può fare anche facendo crescere sia i salari reali (in modo da recuperare il terreno perduto rispetto alla produttività) che i prezzi in Germania. L’inflazione ha conseguenze meno negative della deflazione. E ciò potrebbe trovare consensi anche tra i lavoratori tedeschi.
4. La Bce non può fare nulla per sostenere crescita e occupazione? NO.
di Claudio Gnesutta
Chi sostiene che la Bce non può far nulla per la crescita e l’occupazione assume aprioristicamente che l’unico modo di essere banca centrale è quello definito dallo statuto dell’Istituto di Francoforte. Ma le funzioni attribuite a una Banca centrale sono solo il riflesso di un particolare momento storico. Nella realtà del passato obiettivi e strumenti sono stati variamente declinati; nel caso della Bce – sotto la pressione del pensiero neoliberale – la scelta politica è stata esplicita: l’obiettivo è il contenimento del tasso d’inflazione dell’area e lo strumento è la regolazione del volume di liquidità sul mercato monetario (quel particolare mercato internazionale in cui le banche si scambiano i mezzi liquidi eccedenti). L’interlocutore della Bce sono quindi le banche (il settore pubblico è posto in un angolo) nell’assunto che le loro decisioni siano quelle più valide per l’intero sistema: gli obiettivi delle banche divengono così di fatto gli obiettivi di politica economica. Seguendo questa logica la Bce ha rinunciato a svolgere il suo ruolo di prestatore di ultima istanza nei confronti degli Stati, vittime della crisi degli spread. Inoltre l’azione della Banca centrale, seguendo l’onda americana, ha tenuto bassi i tassi d’interesse sui fondi più liquidi sostenendo la spinta dei risparmiatori (e degli istituti finanziari) a spostarsi verso attività finanziarie più rischiose; paradossalmente i bassi tassi d’interesse non hanno favorito l’attività produttiva (tranne l’immobiliare). Infatti il minor costo del credito è stato più che compensato dalle minori attese di redditività dell’apparato produttivo, causate dalle deboli condizioni di domanda. L’attività finanziaria si è quindi avvantaggiata a scapito di quella produttiva. Dopo lo shock della crisi finanziaria americana la Bce ha cambiato il passo, ma non il suo quadro di riferimento. Sulla crisi bancaria è intervenuta immettendo quantità rilevanti di liquidità che hanno dato respiro alle banche in difficoltà; ma sulla crisi dei debiti pubblici ha ceduto il passo, limitandosi a spingere la banche a investire sui titolo di debito degli Stati. È in ogni caso il sistema delle banche a essere il terminale delle scelte di politica economica. La Bce potrebbe fare molto di più per la crescita e l’occupazione. Ma servirebbe un diverso contesto istituzionale, in cui il sistema finanziario sia in grado di rappresentare un contenimento della finanza (speculativa) globale al fine di sostenere le opportunità produttive all’interno dell’area. È un aspetto dell’ormai necessaria ristrutturazione istituzionale europea per una politica economica che ponga al suo centro l’occupazione, i suoi redditi e i suoi diritti. Finora l’assetto della Bce e il suo comportamento è stata coerente con il quadro neoliberista all’interno del quale è nata (e che tanti danni ha fatto). Ma nulla vieta, se non radicati interessi, che essa possa assumere un diverso assetto e adottare comportamenti coerenti con un quadro di politica economica che si proponga la realizzazione di un’effettiva cittadinanza europea. Sulla consapevolezza della necessità di cambiare quadro non vi sono molti segni, ma vi sono.
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