giovedì 28 giugno 2012

La riforma è servita. Addio all'articolo 18 E senza ammortizzatori sociali

Et voilà: dopo anni passati a discutere del fatto che il problema in Italia è la mancanza di libertà di licenziamento, la riforma è servita. E per chi perderà il lavoro, niente cig

www.ilmanifesto.it Francesco Piccioni
Quel che c'è nella controriforma del mercato del lavoro è ormai abbastanza noto. E i mal di pancia delle parti sociali vengono plasticamente rappresentati dai partiti che sostengono faticosamente il governo Monti. Il Pdl - con Confindustria e le altre associazioni minori delle imprese - pretende con molta durezza che siano allargate ancora di più le maglie della precarietà contrattuale, eufemisticamente chiamata «flessibilità in entrata». Lamentando - oltre il livello della vergogna - che in fondo sulla «flessibilità in uscita» (la libertà di licenziare, smantellando l'articolo 18) il governo si è limitato a «una modifica pro forma».
È falso, naturalmente, come hanno ben spiegato Piergiovanni Alleva e molti altri su questo giornale; ma non fa niente. «Mentite, mentite, qualcosa resterà», raccomandava a suo tempo Goebbels. Ora il gioco è più raffinato e coinvolge media meno dozzinali. Perciò il relatore del Pdl alla legge, Giuliano Cazzola, già annuncia «interventi correttivi concordati col governo» sulla detassazione dei premi di produttività, l'eliminazione del vincolo di 36 mesi oltre il quale il contratto a termine deve obbligatoriamente diventare a tempo indeterminato, e varie altre cosette che mirano a rendere il «giovane lavoratore» pura plastilina nelle mani dell'azienda.
Sul «fronte opposto», si fa per dire, il Pd prova sommessamente a ricavare qualche provvedimento per gli «esodati». Ma senza estremismi: «noi non facciamo numeri, individuiamo criteri per un rapida soluzione». Stesso discorso anche «per i giovani», destinatari di una mini-Aspi (indennità di disoccupazione) quasi impossibile da ottenere.
Tra le poche novità, l'indicazione vaga di un minimo contrattuale per i collaboratori a progetto («il corrispettivo non deve essere inferiore ai minimi stabiliti per ciascun settore di attività e in ogni caso sulla base dei minimi salariali». Ma non è chiaro in qual modo i singoli lavoratori co.co.pro. - notoriamente poco rappresentati sindacalmente - possano far valere questo loro diritto nascente; almeno senza subire ritorsioni da parte del datore di lavoro.
L'«equità» e le «pari opportunità» erano due parole spesso pronunciate dal ministro del lavoro, Elsa Fornero. E in effetti il ddl ora legge prevede che gravidanza, infortunio e malattia non siano più cause di risoluzione del rapporto di lavoro precario. Con una piccola ma importante postilla: il «posto» deve essere conservato, ma di salario - per tutto il periodo della malattia o della maternità - non è «naturalmente» neppure il caso di parlare...
Seppellito l'art. 18 con la sola opposizione dei sindacati «conflittuali» (la Fiom e quelli di base), il punto su cui probabilmente si dovrà reintervenire è quello degli ammortizzatori sociali. Il testo uscito dalla Camera pesa come una mannaia su quanti perderanno il posto di lavoro nei prossimi mesi. Per i licenziati dal 1 gennaio prossimo fino alla fine del 2015, infatti, c'è solo «l'indennità di disoccupazione non agricola» prevista dal «regio decreto» del '39; con durata tra gli 8 e i 16 mesi a seconda dell'anno in cui avviene il licenziamento e dell'età del lavoratore.
Dal 1 gennaio 2016 scompare definitivamente anche la cassa integrazione straordinaria per le aziende che fallliscono o vanno in liquidazione coatta amministrativa (come il manifesto, insomma). Per quanto riguarda la «transizione» al nuovo regime (fino al 2016), invece, restano le cig «in deroga», ma della durata massima di 12 mesi (prorogabili), su decisione del governo ed «entro i limiti delle disponibilità del Fondo sociale per occupazione e formazione (1 miliardo per ciascuno dei prossimi due anni, poi 700 e 400 milioni). Ogni proroga, comunque, comporterà una riduzione crescente dell'assegno di cig. Degli 850 euro di massimale attuale, insomma, si perderebbe il 10% alla prima proroga, il 30% alla seconda e il 40 alla terza. In pratica, al terzo anno ci si ritrova con circa 500 euro mensili; come la pensione minima, ma per un anno solo. Poi basta.
L'enfasi sulla frequenza obbligatoria di «specifici programmi di reimpiego», infatti, non ci sembra in grado di risolvere alcun problema effettivo. Lavoratori che le imprese considerano «troppo vecchi» (diciamo dai 50 anni in su, senza voler esagerare) per restare in azienda, molto difficilmente potranno essere riassunti altrove solo perché nel frattempo hanno frequentato qualche lezione «di aggiornamento perenne».
La «struttura» che sembra tenere insieme le varie norme contenute nella «controriforma» è, a conti fatti, più ideologica che reale. Persino Confindustria, in una delle poche critiche sensate rivolte al decreto, ha dovuto constatare la completa assenza di «politiche attive» per il reimpiego dei licenziati. E non basta davvero un pistolotto sulla «scommessa per far cambiare mentalità agli italiani» per riempire un vuoto così vistoso. È sufficiente parlare con un francese qualsiasi, per accorgersi della differenza vitale esistente con i nostri «concorrenti europei».

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