venerdì 29 giugno 2012

I falsi tecnicismi della “spending review”

La spending review cui sta lavorando il governo ha ben poco a che vedere con un’operazione finalizzata solo a ridurre gli sprechi. Il pericolo è che si metta in campo un potente meccanismo di (ulteriore) destrutturazione del welfare legittimando l’assunto (assai discutibile) che tutto ciò che è pubblico è fonte di inefficienza.

di Guglielmo Forges Davanzati
Aristotele concepiva l’Economia come “governo della casa”. Nell’ideare la c.d. spending review (revisione della spesa), il Governo deve evidentemente aver attinto al pensiero aristotelico, indossando i panni di un buon padre di famiglia impegnato a far quadrare i conti. Sul sito della Presidenza del Consiglio si legge che: “con la spending review il Governo è intervenuto analizzando le voci di spesa delle pubbliche amministrazioni, per evitare inefficienze, eliminare sprechi e ottenere risorse da destinare allo sviluppo e alla crescita. La razionalizzazione e il contenimento dei costi sono infatti fondamentali per garantire, da un lato il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica, dall’altro l’ammodernamento dello Stato e il rilancio del circuito economico”, e che, nel complesso, la spesa pubblica cosiddetta rivedibile (leggi: tagli) ammonta a quasi 300 miliardi di euro. 

Nello stesso documento, viene precisato che questo importo “potrebbe servire, per esempio, a evitare l’aumento di due punti dell’IVA previsto per gli ultimi tre mesi del 2012”. I tagli verranno effettuati anche tendendo conto delle numerosissime mail spedite da cittadini italiani, che si sono avvalsi dell’opzione “esprimi la tua opinione”, segnalando sprechi e inefficienze. Fra queste, si cita il caso di un ospedale nel quale verrebbero tenuti accesi i riscaldamenti anche nel periodo estivo: caso piuttosto inverosimile, sebbene ancora da verificare, dal momento che ragionevolmente sarebbe nell’interesse di tutti coloro che lì lavorano chiedere che i riscaldamenti vengano spenti. A prescindere dall’incidentale “per esempio” al quale il Governo fa riferimento (non essendo noto a cosa si sia pensato in alternativa all’aumento dell’IVA), occorre innanzitutto rilevare – in linea generale – che è assai arduo ritenere che con 300 miliardi di minori spese si possa generare sviluppo e crescita, soprattutto considerando che questi risparmi verranno utilizzati per accrescere l’avanzo primario, potenziando – come si legge ancora nel comunicato governativo – “la linea di risparmio seguita dal Governo nei primi mesi di attività”. 

Il documento, nella sezione di analisi, parte da un assunto falso, ovvero che, nell’ultimo trentennio, la spesa pubblica in Italia sia sempre aumentata. Su fonte Banca d’Italia, si rileva, per contro, che, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, la spesa corrente ha cominciato a contrarsi, riducendosi, dal 1993 al 1994, da 896.000 miliardi a circa 894.000 miliardi. La spesa complessiva delle Amministrazioni pubbliche diminuisce dal 51,7% al 50,8% del PIL nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione dell’incidenza della spesa sul PIL, che raggiunge il 49,2%. Interessante osservare che, nel confronto internazionale con i principali Paesi OCSE, dal 1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua crescita), lo Stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al PIL sistematicamente inferiori alla media dei Paesi industrializzati: a titolo puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su PIL, in Italia, era pari al 41% a fronte del 41.2% della Germania. 

Il documento ministeriale imputa l’aumento della spesa pubblica nell’ultimo trentennio unicamente a una sua gestione inefficiente (p.e. la duplicazione delle funzioni a livello centrale e locale). Anche in questo caso, ci si trova di fronte a una tesi opinabile, per due ragioni.

1. Senza negare che sprechi e inefficienze ci sono (e ci sono stati) nella gestione della cosa pubblica, occorre considerare che l’aumento della spesa pubblica, nel periodo considerato dal documento ministeriale, è stato essenzialmente finalizzato all’ampliamento delle funzioni dello Stato sociale (come del resto è accaduto nella gran parte dei Paesi OCSE, in quel periodo) che, a sua volta, si è reso necessario per venire incontro alla crescente domanda di giustizia distributiva in una fase storica caratterizzata da un elevato potere contrattuale dei lavoratori e delle loro rappresentanze nell’arena politica. Appare, dunque, a dir poco riduttivo ritenere – come fa il Governo – che la spesa pubblica è aumentata perché è stata gestita male. 

2. Non è chiaro perché la revisione di spesa venga effettuata a partire dall’andamento dei valori assoluti della spesa pubblica e non dal rapporto spesa/PIL, che è l’indicatore al quale – per i vincoli europei – occorre far riferimento ai fini del rispetto del vincolo del bilancio pubblico. D’altra parte, l’andamento del valore assoluto della spesa pubblica non tiene conto delle variazioni del tasso di inflazione, così che non si hanno informazioni relative al suo andamento in termini reali. In ogni caso, anche assumendo l’ipotesi governativa, si rileva – su fonte Bundesbank – che, con la sola eccezione del 2004 e del 2011, la spesa pubblica in valore assoluto in Germania è costantemente aumentata. Puà essere sufficiente rilevare che, nel triennio 2008-2010, la spesa pubblica in Germania è aumentata, nel 2008, del 3,16%, del 4,66% nel 2009 e del 3,8% nel 2010, e ben oltre il tasso d’inflazione, quindi anche in termini reali. L’aumento è imputabile essenzialmente alla crescita degli investimenti pubblici, dei salari dei dipendenti pubblici e della spesa per il pagamento degli ammortizzatori sociali.

La spending review interviene soprattutto sulle spese della pubblica amministrazione e sulle spese sanitarie. Si stima, a riguardo, che, entro il 31 dicembre 2012, verranno soppresse circa 11mila sedi ospedaliere. L’obiettivo appare chiaro, anche considerando alcune significative dichiarazioni dei Ministri di questo Governo (come è noto, “anche gli statali siano licenziabili” è il leitmotiv del Ministro Fornero): ridurre (ulteriormente) i presunti privilegi dei lavoratori del settore pubblico, come fine in sé e come strumento per depotenziare (ulteriormente) il Welfare, e contenere le spese per la sanità pubblica, riducendo la quantità e la qualità dei servizi offerti, così da lasciar spazio a imprese private anche in questo settore. Su quest’ultimo aspetto, le conseguenze sono facilmente prevedibili: poiché le spese delle famiglie per servizi sanitari sono ovviamente considerate di primaria importanza, la riduzione dell’offerta pubblica – e la conseguente necessità di pagare i servizi sanitari – non può che tradursi in una (ulteriore) decurtazione dei redditi, soprattutto dei redditi più bassi e soprattutto nelle aree del Paese – Mezzogiorno in primo luogo – dove i salari medi sono più bassi. Così come la “razionalizzazione” della spesa delle pubbliche amministrazioni può facilmente tradursi in un (ulteriore) peggioramento della qualità dei servizi offerti, se non si accoglie l’eroica tesi – peraltro tutta da dimostrare – secondo la quale è solo rendendo le risorse sempre più scarse che si incentiva a farne un uso efficiente. 

Sulla questione della licenziabilità dei dipendenti pubblici, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco. Il Testo Unico del 2001 ha sostanzialmente “privatizzato” il rapporto di lavoro nella Pubblica Amministrazione, rendendo esplicitamente possibili i licenziamenti collettivi e non escludendo i licenziamenti individuali. Dunque, la normativa vigente già prevede la possibilità di licenziare dipendenti pubblici. Seguendo la linea Fornero, occorrerebbe fare un passo in più, ovvero incentivare le amministrazioni pubbliche a licenziare. A che fine? La sola ratio economica che può porsi alla base di questa proposta consiste nell’imporre – come nel settore privato – un dispositivo di ‘disciplina’ che incentivi i dipendenti pubblici a erogare maggiore produttività. Il problema, in questo caso, è che, a differenza del settore privato, non è chiaro chi e sulla base di quali criteri dovrebbe licenziare. Al di là della percezione diffusa secondo la quale molti settori della Pubblica Amministrazione funzionano male, il punto teorico che occorre sottolineare riguarda la difficoltà (se non l’impossibilità) di costruire criteri razionali – o anche solo ragionevoli – che orientino le decisioni di licenziamento nel settore pubblico . 

Vista in quest’ottica, la spending review ha ben poco a che vedere con un’operazione tecnicamente neutrale finalizzata a ridurre gli sprechi. Si tratta di un potente meccanismo di (ulteriore) destrutturazione del Welfare State che si intende legittimare con l’assunto (assai discutibile) che tutto ciò che è pubblico è fonte di inefficienza. 

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