venerdì 29 giugno 2012

L’atipicità e i suoi derivati

di Emiliano Mandrone e Manuel Marocco, da www.lavoce.info

Ci avevano detto che era necessario, in un mercato del lavoro globale e veloce, sacrificare la vecchia idea di occupazione in cambio di una riduzione della disoccupazione e di un aumento della partecipazione (occupazione). Invece, l’introduzione di impieghi a-tipici, ovvero diversi per qualcosa da quelli tradizionali (tipici), ha solo incrementato la flessibilità (ovvero persone coinvolte in impieghi atipici) e la precarietà (intesa come il protrarsi della flessibilità nel tempo) con risultati contraddittori. Per questo contributo abbiamo utilizzato la rilevazione Isfol Plus. (1)

I FLESSIBILI

I flessibili sono quei lavoratori che nella erogazione della prestazione incorporano una (o più) atipicità ii tra: temporaneità dell’impiego, parasubordinazione o part-time involontario. (2)
La tabella 1 mostra i diversi gradi di atipicità presenti nell’occupazione (lettura formale), raggruppati in aggregati che tengono conto della effettiva prestazione lavorativa (lettura reale). L’aggregato tipo 2, che rappresenta la dimensione della flessibilità contrattuale più accreditata, si è ridotta in 24 mesi dal 15,8 (2008) al 14,1 per cento (2010) dell’occupazione. Il miglioramento è stato solo apparente, poiché ha sotteso la silenziosa fuoriuscita di quasi mezzo milione di lavoratori flessibili. In un certo senso, lo strumento della flessibilità ha risposto egregiamente alla sua missione, ovvero ha agevolato l’ingresso nel mercato del lavoro, ma anche l’uscita dallo stesso, così da consentire il più facile adattamento del fattore lavoro alla produzione. Tuttavia, le caratteristiche della flessibilità cattiva (discontinuità, sottoccupazione, disoccupazione, eccetera.) sono sempre più un problema, con conseguenze presenti (bassi redditi, bassa fecondità, ecc.) e future (modesti assegni pensionistici). Tutto ciò appare ancor più preoccupante alla luce del fatto che ai più coinvolti (i giovani) verrà applicata, da subito, la riforma previdenziale, in cui i benefici pensionistici sono proporzionali alla reale contribuzione.




I PRECARI

I precari, di conseguenza, sono coloro che erano lavoratori atipici (ovvero flessibili, tipo 2) e lo sono rimasti, ma anche coloro che un impiego atipico lo hanno perso, in quanto è insita in un mercato del lavoro flessibile l'alternanza di periodi di occupazione e periodi di non occupazione. Tra il 2008 e il 2010 il 37 per cento dei lavoratori atipici (compreso l’apprendistato) è passato a un’occupazione standard, mentre il 43,1 per cento è rimasto nella condizione originaria e il 20 per cento è finito nell’area dei senza lavoro (tabella 2). Tra chi era in cerca di un’occupazione, chi ha trovato un lavoro standard è intorno al 16 per cento, percentuale analoga a quella di coloro che hanno invece ottenuto un lavoro atipico; mentre quasi il 60 per cento è rimasto nella stessa condizione e poco meno del 10 per cento è confluito nell’inattività. (3)
La precarietà, in definitiva, calcolata sul totale degli atipici nel 2008, è stata, a 24 mesi di distanza, pari al 63 per cento. La tabella 3, invece, mostra i flussi nel periodo 2008-2010, ovvero quantifica gli esiti. Su 3,6 milioni di lavoratori atipici del 2008, ritroviamo in impieghi non standard 1,6 milioni di persone, mentre 600mila sono diventati in cerca di lavoro. Pertanto, in termini complessivi, i precari sono stati 2,2 milioni.



COME ERAVAMO
Se consideriamo le differenti dinamiche medie di conversione nei bienni pre e post crisi, si nota che nel 2008-10 gli esiti migliorativi (“in cerca-occupato”, “atipico-tipico”) si sono ridotti rispetto al biennio precedente (2006-08) e, a complemento, sono aumentate le permanenze nell’atipicità. Significativi gli incrementi dei flussi dall’atipicità verso la disoccupazione. La crisi ha rallentato i processi fisiologici di trasformazione dei contratti atipici in tipici. Emerge infatti che il tasso di trasformazione da un’occupazione non standard al lavoro tipico sia sceso di 9 punti (dal 46 al 37 per cento). Se la velocità di conversione dei contratti flessibili in occupazioni stabili si è ridotta e gli esiti negativi sono aumentati, allora, essendo i giovani i più flessibili, vuol dire che la crisi l’hanno pagata, in questa prima fase, in particolare loro. Ciò genera effetti paradossali che colpiscono la stessa platea. Infatti, in termini di stock, la flessibilità si è ridotta, poiché una rilevante quota di flessibili è stata espulsa mentre, in termini di flusso, la precarietà è aumentata poiché le conversioni in impieghi stabili sono rallentate.

L’anno che verrà ci dirà se il disegno di legge Fornero, che ha appena compiuto il suo passaggio parlamentare, sarà riuscito nell’intento di ridurre “l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento”. Non a caso questo provvedimento è in continuità con la riforma del sistema previdenziale. Infatti si è consci che l’impianto contributivo- assicurativo della previdenza vigente rende implicito un riassetto del mercato del lavoro, in quanto solo un buon lavoro porterà a una buona pensione. Pertanto dovrà seguire alle proposte di ingegneria contrattuale che tentano di contrastare i fenomeni negativi più appariscenti, prima o poi, l’equilibrio. Discutere, ancora, su chi deve essere più o meno tutelato è un nonsense tutto politico, una lettura miope e analoga a quella che ha portato alla iniqua segmentazione attuale.

NOTE

(1) Si sono usati in questo articolo i dati sezionali relativi al 2008 e al 2010 e i panel 2006-2008 e 2008-2010. Per richiedere i dati plus@isfol.it
(2) Si veda per i criteri di identificazione e i dettagli della riclassificazione “Atipicità, Flessibilità e Precarietà: una lettura economica e giuridica attraverso l’Indagine Isfol Plus”, Mandrone, Marocco (2012), (http://isfoloa.isfol.it/handle/123456789/215)
(3) Confrontare gli esiti di due gruppi a-priori diversi (come atipici e in cerca) è inopportuno, sebbene il confronto venga naturale, poiché la composizione degli aggregati di partenza sconta già profonde differenze, che inficiano l’interpretazione. Per una analisi econometria completa sui medesimi dati si rinvia a: Giammatteo, Mandrone e Tancioni, Economia&Lavoro n. 2/2012.

Nessun commento:

Posta un commento