«Credo che in via D’Amelio ci fosse qualcuno già pronto a prelevare la sua agenda: uccidere Paolo senza farla sparire non sarebbe servito a niente». Motivo: il 25 giugno, a meno di un mese dalla sua tragica fine, nell’ultima uscita pubblica Borsellino aveva detto di «aspettare di essere chiamato per raccontare quello che aveva scoperto su Capaci», dice il fratello Salvatore, che si schiera con Sonia Alfano: sì, Giorgio Napolitano «merita l’impeachment», per aver cercato di ostacolare le indagini sulla trattativa Stato-mafia avviata nel ’92 dopo l’omicidio di Falcone. Ne parlò Massimo Ciancimino: «Mio padre fu contattato dal capitano De Donno del Ros». Claudio Martelli, allora ministro dellagiustizia, conferma: furono cercati contatti con Vito Ciancimino e ne fu informato Nicola Mancino, allora ministro dell’interno. Mancino però nega. E non ricorda di aver mai incontrato Borsellino, che invece riferì dell’incontro. E Napolitano?
Attraverso il suo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, il presidente della Repubblica avrebbe ora cercato di rassicurare Mancino: fino a “suggerirgli” di concertare con gli altri indagati una versione univoca dei fatti? Nonostante l’ovvia “irritazione” di Napolitano («una polemica montata sul nulla») e le precipitose smentite dei magistrati («nessuna interferenza dal Quirinale»), il caso è scoppiato grazie ai giornalisti d’inchiesta: il “Fatto Quotidiano” ha pubblicato stralci di intercettazioni che documentano i colloqui tra Mancino e D’Ambrosio. Senza contare che lo stesso Napolitano avrebbe parlato personalmente con Mancino: «Risulta che tra le decine di telefonate intercettate, in almeno due casi la squadra di polizia giudiziaria nella sala ascolto della Procura di Palermo avrebbe trascritto in brogliacci, coperti dal segreto, la voce del Capo dello Stato a colloquio con l’ex vicepresidente del Csm», scrivono Marco Lillo e Giuseppe Lo Bianco sul giornale di Travaglio. «Il contenuto è ovviamente segreto, non verrà trascritto e finirà probabilmente distrutto senza mai arrivare agli atti del processo». In quelle telefonate con la voce del numero uno del Quirinale, aggiungono i reporter del “Fatto”, ci potrebbe essere «la conferma del suo diretto interessamento per calmare le angosce di Mancino, avviando di fatto le manovre di interferenza nell’indagine di Palermo».
L’incubo, per Mancino, è il confronto con Martelli: l’ingaggio dei carabinieri del Ros e i loro contatti informali con Ciancimino. «Martelli sostiene di averlo informato, Mancino nega». E nella telefonata del 12 marzo si sfoga con D’Ambrosio, il consigliere del Quirinale: ma che razza di paese sarebbe mai questo, dice Mancino, che non tratta con le Brigate Rosse a costo di far morire uno statista come Moro, mentre poi non esiterebbe a trattare con la mafia, causando la morte di vittime innocenti? Mancino, aggiunge il “Fatto”, teme di pagare da solo un prezzo giudiziario troppo alto. E così, sempre nella telefonata del 12 marzo, pressa D’Ambrosio: «Sto parlando dello Stato italiano: non è possibile che ognuno va per conto suo». L’ex ministro chiede al consigliere di Napolitano di sondare il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso: «Veda un po’ se Grasso ritiene di ascoltare anche me, sia pure in maniera riservatissima, che nessuno ne sappia niente». E il 3 aprile, subito dopo che il pm ha chiesto il confronto in aula con Martelli, l’angoscia telefonica di Mancino raggiunge il suo punto più alto: il senatore risollecita a D’Ambrosio la lettera ai magistrati della Cassazione: «Veda un poco, la cosa è terribile».
Ma D’Ambrosio si muove davvero su input del presidente della Repubblica? Il 5 marzo, quando alla fine del colloquio telefonico Mancino si scusa con l’uomo del Quirinale («Mi scusi, io tormento lei»), lo stesso D’Ambrosio replica: «No, no si immagini. Poi il presidente me ne aveva parlato, quindi…». Secondo Sonia Alfano, europarlamentare dell’Idv, ce n’è abbastanza per chiedere le dimissioni di Napolitano: «Il Capo dello Stato non ha capito quali sono le sue prerogative costituzionali», dichiara la Alfano ad “Affari Italiani”. Napolitano «risponde a persone processate mentre fa orecchie da mercante con i parenti delle vittime di mafia». Per la Alfano, da sempre impegnata sul fronte politico dell’antimafia, «siamo in un cortocircuito istituzionale: Napolitano dovrebbe dimettersi, ha dimostrato di non essere imparziale, oppure mal consigliato». Quello che si pone «non è solo un problema etico», sempre «se fossero accertate sue pressioni». Quanto a Mancino, è uno «smemorato adarte». Mancino e Napolitano che ostacolano la Procura di Palermo? «Mi domando che in paese viviamo».
E’ un paese, scrive Jester Feed sul blog “Rischio Calcolato”, che fino a ieri – prima cioè che Napolitano togliesse di mezzo Berlusconi con l’operazione-Monti, quella che Paolo Barnard chiama “golpe finanziario” – attribuiva ogni sorta di losca trama, compresa la “trattativa” con Cosa Nostra e la morte di Falcone e Borsellino, all’uomo di Arcore: «Forza Italia non era neanche stata concepita e a governare il nostro paese, durante l’oscuro periodo, vi era il centrosinistra. Chi all’epoca stava al governo, oggi milita o ha militato (perché è morto) nel centrosinistra. Da Amato a Scalfaro, da Mancino a Conso». Oggi i fatti «stanno venendo a galla, seppure con una grande fatica e con una confusione degna dei migliori film americani sul genere thriller politico», scrive Jester Feed. A tal proposito, aggiunge, giova ricordare che tutto è iniziato con Giovanni Conso, l’ex ministro della giustizia, e la strana sospensione dell’articolo 41/bis, il “carcere duro” per i mafiosi, nonché con l’avvicendamento tra Scotti e Mancino al Viminale.
Proprio Macino, continua Feed, oggi è indagato per falsa testimonianza: un’incresciosa vicenda giudiziaria, sulla quale adesso irrompe il rapporto telefonico tra l’ex presidente della Camera (ed ex vicepresidente del Csm) e il consigliere giuridico del Quirinale, e addirittura – sospetta il “Fatto Quotidiano” – tra lo stesso Mancino e il Capo dello Stato. Manovre di interferenza nell’indagine di Palermo? «Un sospetto alquanto grave, che il Quirinale non ha affatto gradito, ritenendo che si tratti di una manipolazione e di una cattiva interpretazione bell’e buona della vicenda», osserva “Rischio Calcolato”. «Per il Capo dello Stato non v’è nulla di illegale o illegittimo nella telefonata. Tutto è chiaro: il Quirinale ha inteso verificare che l’attività giudiziaria si svolgesse in modo regolare». Senza pretendere di conoscere la verità, conclude Jester Feed, «è però singolare che il Capo dello Stato si irriti per la divulgazione dei brogliacci dei contenuti sulle conversazioni tra il suo consulente giuridico e Mancino, quando non ebbe nulla da ridire (né si sentì in obbligo di intervenire) all’epoca in cui i media divulgarono le conversazioni tra l’expremier Berlusconi e suoi amici e collaboratori, per finalità tutt’altro che di giustizia».
Durissimo il fratello del magistrato ucciso, forse perché aveva scoperto la “trattativa” e indovinato che proprio lui, l’erede naturale di Falcone, ne sarebbe stato la principale vittima: «Credo che Napolitano si sia messo di traverso sulla strada della verità, in una vicenda che rappresenta il peccato originale della Seconda Repubblica», dichiara Salvatore Borsellino ad “Affari Italiani”. «Senza una soluzione di questa storia, la nostra repubblica non sarà mai democratica, ma fondata sul sangue di quelle stragi», mentre si ripetono le vuote commemorazioni che il magistrato palermitano Roberto Scarpinato definisce “retorica di Stato”. Intervistato da Lorenzo Lamperti, il fratello di Paolo Borsellino insiste sul significato tenebroso della strage di via d’Amelio: «Dal primo momento mi accorsi che mio fratello non era stato protetto. Il giorno dopo, il prefetto di Palermo e il ministro dell’Interno dissero che via D’Amelio non era considerato un obiettivo a rischio. Questo la dice lunga su come era stata preparata quella strage. All’inizio pensavo solo che la strage fosse stata solo favorita. Negli anni successivi invece ho capito che c’era un’effettiva complicità».
Lo ha sostenuto esplicitamente Massimo Ciancimino, confortato dalle conferme di Martelli. E’ lo scenario-verità che oggi terrorizza Mancino, al punto da invocare l’aiuto di Napolitano. Complicità di settori dello Stato nella “morte annunciata” di Paolo Borsellino? «Questo sta venendo alla luce poco a poco – dice il fratello, Salvatore – grazie al coraggio dei magistrati che stanno provando a togliere questo velo nero sopra quello che è successo». In prima linea le Procure di Palermo, Caltanissetta e di Firenze. «Io da anni avevo un obiettivo perché ero sicuro che mentisse, ed era Nicola Mancino», accusa Salvatore Borsellino. «Sono sicuro che hapartecipato a quella trattativa e non riesco tuttora a capire come possa pervicacemente negare un incontro che sicuramente c’è stato». La prova: «In un’agenda che non è stata sottratta, mio fratello aveva appuntato di un incontro con il ministro».
Quello che dicono i pentiti come Brusca è chiaro: Riina voleva avere l’assicurazione che dietro i Ros di Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno ci fosse un rappresentante più in alto a livello istituzionale. «E questa figura sono convinto fosse proprio Mancino», dice ancora il fratello di Borsellino. Quindi: l’ex ministro come vero volto della trattativa? «No, ritengo ci fossero personaggi anche più in alto di Mancino». E’ il fosco retroscena che fece da sfondo alla nascita della Seconda Repubblica: un’Italia debolissima, ricattata dalla mafia e travolta da Tangentopoli, che firma quasi sottobanco il Trattato di Maastricht e si affida – in quel passaggio cruciale che la inserirà nell’Eurozona – al potere-ombra dei “governi tecnici” dell’epoca, mentre – col pretesto dell’emergenza istituzionale – si dispiega l’imponente riassetto dei poteri geopolitici dopo la caduta dell’Urss e la fine dalla Guerra Fredda, che nel nostro paese ha significato terrorismo e strategia della tensione, Brigate Rosse e stragi impunite. «Oggi finalmente dopo vent’anni le cose stanno cominciando a venire alla luce», conclude Salvatore Borsellino. «Ci sono uomini delle istituzioni che ammettono l’esistenza di questa trattativa, rompendo la congiura del silenzio. Mi chiedo però in che modo questa congiura sia riuscita a mantenersi per così tanto tempo».
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