di Federico Rampini, da Repubblica 21 giugno 2012
New Deal o tagli di spesa? Non è solo in Europa che si scontrano la linea dell’austerity e quella della crescita. Il dibattito è iniziato ancora prima negli Stati Uniti. Lo innescò la maxi-manovra di spesa pubblica anti-recessiva (quasi 800 miliardi di dollari) che Barack Obama riuscì a far passare nel gennaio 2009, quando si era appena insediato alla Casa Bianca, la sua popolarità era ai massimi, e il Congresso aveva una maggioranza democratica. La riscossa degli avversari partì con il dibattito sulla riforma sanitaria, quando il Tea Party invase le piazze d’America accusando Obama di imporre il “socialismo” nella patria del libero mercato, e il partito repubblicano riconquistò la maggioranza alla Camera nel novembre 2010. Oggi la scelta tra New Deal e austerity è la posta in gioco della campagna elettorale, il 6 novembre scegliendo Obama oppure Mitt Romney gli americani voteranno per un presidente che incarna l’una o l’altra opzione. Due modelli di società: perfino più distanti qui in America di quanto siano diversi in Europa i programmi economici di François Hollande e Angela Merkel.
Almeno tre premi Nobel (Robert Solow, Paul Krugman, Joseph Stiglitz) più altri economisti autorevoli come Jeffrey Sachs e Robert Reich, invocano l’urgenza di un New Deal. È costante il riferimento con gli anni Trenta. Krugman non esita a definire la crisi attuale come una vera depressione, per l’immensa quantità di risorse inutilizzate (a cominciare dalla forza lavoro). Di conseguenza, torna attuale la lezione del grande economista inglese John Maynard Keynes: in situazioni come questa tocca allo Stato rilanciare la crescita, bisogna spingere sulla spesa pubblica (in deficit!) per colmare il vuoto di domanda privata (consumi e investimenti). Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt fu questo: vasti programmi d’investimenti pubblici, a cominciare dalle grandi opere infrastrutturali, per dare lavoro ai disoccupati e supplire alla latitanza dell’iniziativa privata. Il New Deal fu anche un’altra cosa, complementare: raccogliendo esperimenti sbocciati in Europa (dalla previdenza di Bismarck in Germania alla società fabiana che prefigurò il laburismo inglese, alle socialdemocrazie nordiche), Roosevelt lanciò la costruzione di un Welfare State, che includeva pensioni pubbliche, diritti dei lavoratori, una rete di sicurezza contro la povertà. Anche questa dimensione del New Deal – un patto sociale progressista – tornano di attualità oggi in un’America dove le diseguaglianze sono a livelli estremi, e i diritti sindacali sono stati limitati in molti settori.
Ancora un’analogia tra il presente e la Grande Depressione degli anni Trenta: la destra accusa un presidente democratico (Roosevelt, Obama) di soffocare la libertà americana imponendo lo statalismo e il socialismo; i conservatori premono per la rapida riduzione del debito attraverso tagli feroci ai servizi pubblici e alla spesa sociale. 80 anni fa lo spauracchio usato nei comizi era l’Urss di Josif Stalin. Oggi invece è l’eurozona, che Romney descrive come una società sprovvista di ogni dinamismo perché oppressa dalle tasse e lobotomizzata dall’assistenzialismo. Una differenza notevole però c’è: mentre Roosevelt non esitava a circondarsi di consiglieri che erano socialisti, Obama se ne guarda bene. Il “keynesismo radicale” di Krugman e Stiglitz, pur essendo popolare nell’ala liberal del partito democratico e sui mass media progressisti (New York Times, Msnbc) non ha diritto di cittadinanza a Washington. Nel dibattito politico quelle posizioni sono marginali. Gli equilibri politici al Congresso, sia oggi sia nella presumibile composizione post-elettorale, rendono improbabile un New Deal versione 2.0. A nulla servono i moniti di tanti esperti autorevoli, sul pericolo di “rifare un 1937”: cioè l’errore che Roosevelt commise quando cedette alle pressioni per un ritorno al rigore di bilancio, ridimensionò i grandi progetti del New Deal, e l’America ricadde nella recessione da cui sarebbe uscita solo con la seconda guerra mondiale.
Oggi, proprio come nel 1937, il “partito dei tagli” non è soltanto repubblicano. Anche tra i democratici c’è una robusta corrente di moderati centristi – si rifanno alla Terza Via di Bill Clinton – i quali predicano moderazione nella spesa pubblica. Obama, pur avendo compiuto una sterzata a sinistra negli ultimi mesi della campagna elettorale, non può permettersi di proporre un vero New Deal. La prima ragione è la più ovvia: oggi il Welfare State esiste già, sia pure dimagrito dai salassi conservatori somministrati da Ronald Reagan in poi. La macchina della pubblica amministrazione è ben più grande e costosa rispetto ai tempi in cui Roosevelt la “costruiva” partendo da uno Stato minimo. La burocrazia e le tasse sono impopolari anche in una fascia di elettorato democratico.
Riecheggiano nel dibattito americano posizioni che sono familiari agli europei. «Se il debito pubblico creasse lavoro, l’Italia con il suo debito-record dovrebbe avere da anni il pieno impiego », ha detto Mario Monti al festival La Repubblica delle Idee. «Se indebitarsi per crescere fosse virtuoso, allora non sarebbero esplose la bolla dei mutui subprime in America, e bolle immobiliari analoghe in Inghilterra, Spagna, Irlanda», dixit Angela Merkel. Perciò Obama è costretto a sforzi di innovazione: quando pensa al New Deal del XXI secolo, deve coniugarlo con le riforme del Welfare che tengano conto dello shock demografico, e deve pensare a strumenti di mobilitazione degli investimenti privati (nella Green Economy, nelle infrastrutture, nel digitale) che non comportino una dilatazione dell’intervento statale. Forse sta rifacendo un 1937? Per un New Deal più audace mancano i numeri al Congresso, e i consensi nella società.
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venerdì 22 giugno 2012
New Deal: un modello contro l’austerity per rilanciare la crescita
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