Fonte:
rifondazione.it
| Autore:
Alfonso Gianni
Il primo ce lo abbiamo sotto gli
occhi. La situazione economica nell’Eurozona è pessima e le previsioni
future pure. Si oscilla dalle valutazioni più ottimiste dell’Iwf,
l’importante centro di ricerca dell’università di Kiel in Germania – che
prevedono una discesa del Pil nell’Europa a 17 dello 0,4% nel 2012 (per
l’Italia -1,7%) e una modesta crescita dello 0,9% nell’anno successivo
(+0.4% per l’Italia) – a quelle ancora più pessimistiche di Oxford
Economics che vede il nostro paese in calo quest’anno del 2,3% e di un
ulteriore 0,2% nel 2013. E’ evidente che in un quadro così fosco più
d’uno si interroga se conviene ancora al nostro paese rimanere nella
moneta unica, quando è chiaro che chi ne trae il massimo vantaggio è
solo la Germania.
Il secondo motivo, al primo strettamente
collegato, è che il populismo di destra è tutt’altro che sconfitto nel
nostro paese come nel resto d’Europa e non gli pare vero di cavalcare un
sentimento antieuro che rischia di diffondersi facilmente nelle classi
popolari. Il terzo motivo è assai più malizioso e quindi probabilmente
più reale. Come ha recentemente osservato anche Nouriel Roubini, molti
industriali, finanzieri e società del nostro paese hanno accumulato
ingenti quantità di euro all’estero dopo una vita di evasioni fiscali e
di trafugamento di capitali all’estero, facilitati dai vari condoni. Se
si tornasse alla nostra antica moneta nazionale si verificherebbe un
doppio movimento: da un lato queste fortune giacenti all’estero
potrebbero venire rivalutate e dall’altro le passività domestiche
verrebbero conteggiate in una lira svalutata. Al contrario i depositi in
euro derivanti dai risparmi delle famiglie, gli stipendi e le pensioni
dei lavoratori a reddito fisso cadrebbero vittima della svalutazione.
Nel contempo, avendo poco da esportare, dopo anni di declino produttivo,
la nostra economia trarrebbe troppo modesti vantaggi dal ritorno alla
lira, comunque non tali da compensare la perdita di valore dei redditi
dei meno abbienti.
Il guaio è che il continuo prevalere delle dottrine rigoriste alimenta ogni tentativo di fuga dalla moneta unica. Del resto soluzioni di questo tipo, anche se per altri fini e con maggiore raffinatezza teorica, sono coltivate anche nel campo della sinistra d’alternativa. La crisi si sta avvitando su sé stessa e i vertici internazionali, con quello del prossimo fine giugno saremo a 25, passano invano, quando non sono del tutto negativi. Nemmeno una piccola moderazione del “rapacismo” della grande finanza è riuscita ad andare in porto. Gli ultimi dati che ci provengono da Mediobanca sono sconvolgenti. Il peso dei titoli derivati sul Pil europeo è tornato ad aumentare: era il 42,8% nel 2009, era poi sceso al 41,3% nell’anno successivo, per rimbalzare al 53,2% alla fine del 2011, pari a 5.854 miliardi di euro. Intanto la distanza fra il sud e il nord dell’Europa si approfondisce sempre più. L’Europa a due velocità più che una soluzione futura – per chi ci crede – è già una triste realtà.
Il guaio è che il continuo prevalere delle dottrine rigoriste alimenta ogni tentativo di fuga dalla moneta unica. Del resto soluzioni di questo tipo, anche se per altri fini e con maggiore raffinatezza teorica, sono coltivate anche nel campo della sinistra d’alternativa. La crisi si sta avvitando su sé stessa e i vertici internazionali, con quello del prossimo fine giugno saremo a 25, passano invano, quando non sono del tutto negativi. Nemmeno una piccola moderazione del “rapacismo” della grande finanza è riuscita ad andare in porto. Gli ultimi dati che ci provengono da Mediobanca sono sconvolgenti. Il peso dei titoli derivati sul Pil europeo è tornato ad aumentare: era il 42,8% nel 2009, era poi sceso al 41,3% nell’anno successivo, per rimbalzare al 53,2% alla fine del 2011, pari a 5.854 miliardi di euro. Intanto la distanza fra il sud e il nord dell’Europa si approfondisce sempre più. L’Europa a due velocità più che una soluzione futura – per chi ci crede – è già una triste realtà.
Il caso della Germania è paradigmatico.
Secondo fonti ufficiali tedesche tra il 2002 e il 2011 la Germania ha
accumulato un saldo commerciale positivo nei confronti degli altri 26
paesi della Ue pari a 1.302 miliardi di euro, quasi il doppio di quello
che tutt’intera la Ue ha messo nel cosiddetto fondo salva-stati. Di
questi quasi 340 miliardi provengono da Spagna e Italia, ma anche la
Grecia ha dato il suo contributo al benessere tedesco, praticamente
uguale a quanto ha ricevuto dalla Ue in aiuti alle distruttive
condizioni che ben sappiamo. I “dividendi” dell’euro hanno arricchito
il paese tedesco – i bund sono piazzati a tassi addirittura negativi –
al punto da permettergli di distribuirne anche un poco ai lavoratori
delle industrie. I metalmeccanici hanno recentemente strappato un
incremento del 4,3%. Niente male, essendo quasi il doppio
dell’inflazione. Nello stesso tempo la occupazione tedesca è salita
anche in presenza di una diminuzione del Pil, grazie alle pratiche di
riduzione dell’orario di lavoro. Ce ne possiamo compiacere perché
l’incremento della domanda interna può eventualmente favorire le
importazioni degli altri paesi. Ma, se consideriamo il clamoroso
silenzio dei sindacati tedeschi rispetto alle sofferenze imposte al
popolo greco, non si può non scorgere i tratti della ricostruzione di
una sorta di aristocrazia operaia su scala continentale. Del resto non è
un caso che qui, e in Francia, seppure per motivi non identici, la
socialdemocrazia può riprendere fiato, mentre nei paesi del sud del
Mediterraneo, dove la crisi morde assai più duramente, o si fa centro
oppure è sotto schiaffo da parte delle destre tecnocratiche o populiste e
persino della sinistra, dove questa ha avuto il coraggio di
manifestarsi come forza autonoma, come Syriza in Grecia. Così restano
nel vento le nobili parole con cui l’ex cancelliere tedesco
socialdemocratico Helmut Schmidt ammonisce i suoi compatrioti in un
recente articolo: “Chi crede che l’Europa possa essere risanata solo
grazie ai tagli alla spesa, dovrebbe studiare le nefaste ripercussioni
della politica deflazionistica perseguita da Heinrich Bruning nel
1930-1932 che provocò la depressione e un’insostenibile disoccupazione,
avviando di fatto il declino della prima democrazia tedesca”.
Ma la storia non insegna nulla, come sappiamo, soprattutto ai potenti. Al massimo aiuta a capire che l’errore che hai commesso è lo stesso di prima, ma non a evitarlo. A meno che anche i ben oliati ingranaggi tedeschi comincino a ingolfarsi. Qualche segnale già c’è. L’esport tedesco è meno pimpante. Il mercato europeo assorbe assai meno di una volta e lo sbocco verso i paesi emergenti è frenato dalla flessione in atto anche nelle loro economie. Ma non ci può attendere la salvezza dai meccanismi naturali dell’economia capitalistica. Questi casomai portano alle guerre quali distruzioni rigeneratrici. Anche per questa una sinistra in Europa è indispensabile.
Ma la storia non insegna nulla, come sappiamo, soprattutto ai potenti. Al massimo aiuta a capire che l’errore che hai commesso è lo stesso di prima, ma non a evitarlo. A meno che anche i ben oliati ingranaggi tedeschi comincino a ingolfarsi. Qualche segnale già c’è. L’esport tedesco è meno pimpante. Il mercato europeo assorbe assai meno di una volta e lo sbocco verso i paesi emergenti è frenato dalla flessione in atto anche nelle loro economie. Ma non ci può attendere la salvezza dai meccanismi naturali dell’economia capitalistica. Questi casomai portano alle guerre quali distruzioni rigeneratrici. Anche per questa una sinistra in Europa è indispensabile.
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