ilmanifesto.it Nadia Urbinati
L'Italia, unico paese in Europa, ha visto il succedersi di un governo
cosiddetto tecnico a un governo forte di una maggioranza eletta. Casi di
governo tecnico si erano già avuti in passato, ma quello presieduto da
Mario Monti è il primo e l'unico che si compone di ministri che non
appartengono a nessun partito. La maggioranza parlamentare di cui si
avvale questo governo è fondata quindi su ragioni non di partito o di
coalizione. Se tutti i ministri del governo Monti sono tecnici è perchè
la politica di questo governo si fonda su ragioni non partitiche, ma
d'emergenza - ragioni che hanno direttamente a che fare con la salus rei
publicae. Ovviamente, il governo ha una maggioranza parlamentare,
oltretutto molto ampia perché include i due maggiori partiti rivali. Ma
non si tratta di una riedizione del compromesso storico poiché appunto
la sua missione non è quella di realizzare un progetto politico o
promuovere una società più giusta o più rispondente ai principi della
costituzione. Questa volta la larghissima maggioranza è solo ed
esclusivamente nel nome dell'emergenza; nessun compromesso politico
dunque, ma l'ingiunzione di abbandonare ogni logica di compromesso per
adottare solo una logica tecnica.
Come di fronte a straordinarie
calamità - per esempio una guerra - la politica ordinaria - quella fatta
di maggioranze e minoranze partigiane - si è ritirata e ha lasciato il
campo alla competenza senza partigianeria. In questo breve intervento
vorrei concentrarmi proprio sul dualismo tra politica e competenza,
un'alternativa che il fatto indiscutibilmente positivo di essersi
liberati del governo Berlusconi nasconde o non ci fa vedere nelle sue
ampie implicazioni. Il novembre del 2011 ha segnato la Caporetto della
onorabilità della politica. Non solo a causa degli scandali sessuali del
premier, dell'uso del sesso come moneta per ottenere cariche pubbliche,
delle diffusissime e quotidiane vicende di privilegi e corruzione, ma a
causa dell'incapacità della politica di fare il suo lavoro: governare.
La formazione del governo Monti ha coinciso con una dichiarazione di
incapacità della politica parlamentare, la sua esplicita denuncia di non
essere all'altezza del proprio compito. L'impotenza, non la disonestà,
ha mandato a casa il governo Berlusconi.
Questa condanna,
quest'accusa di incapacità è, come si intuisce, molto più grave
dell'accusa di corruzione. Poiché mentre la disonestà è l'esito di una
violazione che non mette in discussione la politica ma alcuni suoi
funzionari che la deturpano, l'impotenza e l'inadeguatezza mettono in
luce un limite oggettivo, connaturato alla politica stessa. È proprio
perché la politica democratica riposa sull'elezione dei suoi
rappresentanti, è proprio perché questa elezione è espressione di
diverse idee o diversi interessi che la politica è stata dichiarata
incapace. Il dover andare di fronte agli elettori e quindi rischiare di
perdere i consensi ha reso il governo Berlusconi impotente. Come se la
forza di un governo sia in proporzione della sua non rispondenza agli
elettori. Questo è il vulnus contenuto nella filosofia del governo
tecnico. Difficile prevedere che cosa lascerà il governo Monti. Ma una
cosa sembra chiara proprio in virtù di questa premessa: con l'avvento
del governo dei tecnici la politica dei politici si trova di fronte a un
compito che è enormemente impervio, quello di dimostrare di essere
meglio di un governo senza politica partigiana; quello di dimostrare che
un governo che deve rendere conto agli elettori è il migliore governo
possibile.
Non solo questo. Vi è anche una ragione più radicale
della crisi della competenza della politica a governare. Infatti la
sfida del governo Monti consiste anche nell'indurre la politica dei
partiti, quella cioè che si candida alle elezioni, di dover dimostrare
di essere capace di governare con obiettivi che non sono propri della
sfera della politica; mezzi e idee che appartengono alla sfera economica
e che soprattutto si impongono con una lettura monolitica tanto della
crisi quanto delle strategie di risposta alla crisi. Il governo Monti
non è governo tecnico: è un governo armato di idee e una ideologia
economica che presume meno Stato e più competizione tra privati, meno
diritti sociali universali (anzi nessuno, visto che anche la proposta di
riforma sanitaria prevede la distribuzione del servizio salute in base
non al bisogno di salute ma al bisogno economico), più incentivi al fare
da se. La filosofia dei tecnici è ispirata alla dottrina economica
liberista. Non ci si faccia ingannare dall'inasprimento fiscale, poiché
questo è appunto il segno della sconfitta dei governi politici, in
quanto soluzione di emergenza a una situazione creata da governi
partitici e troppo costoso. Chiamare tecnico questo tipo di governo è un
eufemismo, poiché esso è molto politico, sia rispetto alla concezione
che ha dello stato sociale (che è solo rete protettiva per i poveri) sia
all'idea che ha del giusto ruolo dello stato (giusto perché minimo). Se
lo Stato è ancora presente, se è ancora dichiarato necessario, ciò è
perché la società è ancora penalizzata da decenni di politiche sociali,
di governi di partito. Il debito è causato dallo stato sociale, non
dalle speculazioni finanziarie sul debito. Questa è la premessa del
governo tecnico chiamato a rispondere all'emergenza di oggi.
Di
fronte a questa politica tecnica la politica dei partiti si trova ad
arrancare. Prima di tutto perché nel corso di questi ultimi decenni si è
gradualmente trasformata nella politica di un ceto oligarchico più
preoccupato di riprodurre se stesso che di ben governare. Inoltre, e
soprattutto, perché tanto a destra come a sinistra non c'è di fatto
un'alternativa alla filosofia liberista. L'egemonia, come aveva ben
compreso chi meglio ha studiato questo fenomeno di consenso, Antonio
Gramsci, si mostra proprio nel momento in cui una visione del mondo e
della società è così diffusa che la si crede naturale. Le leggi
dell'economia sono oggi presentate e implementate come naturali,
oggettive e quindi imparziali; e soprattutto, vanno tutte nella stessa
direzione, che è quella della competizione darwiniana. Se ciò non
appare, se questo mondo ideale non si è ancora realizzato - dice questa
ideologia - è per l'infiltrazione degli interessi partigiani, della
politica quindi, che trova conveniente fare progetti e promesse
elettorali per conquistare voti e maggioranze. Mentre, tecnicamente
parlando, non due o tre sono i progetti, ma solo uno. Se la politica
seguisse davvero la tecnica imposta da questa dottrina economica tutte
le discordanze sarebbero appianate, e non ci sarebbero più ragioni
partigiane dietro le proposte di riforma. La filosofia della tecnica al
governo ripropone la vecchia utopia posivistica (e, mi perdonino i
liberisti) sovietica: eliminare la politica, il pluralismo delle idee e
quindi il pluripartitismo, poiché una sola è la ricetta per la società.
La
sfida della politica tecnica alla politica eletta e scelta da cittadini
liberi e con diverse idee e interessi è una sfida alla democrazia in
piena regola. Occorre dunque essere molto cauti a lanciarsi nella difesa
del governo tecnico. Al di là delle valutazioni sulla capacità e
l'onestà di Monti e della sua compagine di governo; al di là della
rinascita di credibilità internazionale che questo governo ha dato al
nostro paese, al di là di tutto il bene che ci è venuto dal non avere
Berlusconi e il suo governo di nani e ballerine a Palazzo Chigi: al di
là di queste contingenze tutte italiane, resta il fatto molto
preoccupante che si possa accreditare l'idea che spetti agli esperti
dell'economia e della finanza governare la politica, che spetti a chi ha
una classe di riferimento come indice dell'interesse economico di
governare una società nella quale i molti non sono parte di quella
classe. È preoccupante che politiche che fanno principalmente
l'interesse dei pochi siano dette neutre e tecniche mentre quelle che si
propongono di fare l'interesse dei molti (per esempio le politiche
sociali o quel che ancora resta del liberalismo sociale del welfare)
siano dette partigiane, non tecniche e quindi destituite di legittimità.
Molto più preoccupante ancora è che nessuno senta ancora il coraggio o
abbia gli strumenti concettuali e ideali capaci di rispondere a questa
sfida, a mostrare tutta la natura ideologica della politica tecnica.
* Questo articolo è un'anticipazione dal prossimo numero della rivista "Testimonianze"
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