www.ilmanifesto.it Loris Campetti
L'Italia non è più una «repubblica democratica fondata sul lavoro», non
riconosce più «a tutti i cittadini il diritto al lavoro» e neppure
«promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Chi
pensava che i voti di fiducia sulla controriforma del mercato del lavoro
avrebbero colpito al cuore lo Statuto dei lavoratori, deve oggi
prendere atto che l'ammucchiata parlamentare di ieri ha addirittura
segato i pilastri su cui si regge la nostra Costituzione. Lo ha detto
con la chiarezza che la contraddistingue Elsa Fornero, forse il peggior
ministro del lavoro della storia repubblicana. Il peggiore, perché
almeno Sacconi, che non è certo fatto di una farina migliore, aveva uno
straccio di opposizione sindacale e addirittura politica ad arginarne
gli istinti più animali. Fornero invece può dire ciò che vuole. Ieri si è
tolto il dente malato, quello del giudizio, sentenziando che «il
lavoro non è un diritto». Chi ha votato per cancellare l'articolo 18 e
istituzionalizzare la precarietà con il ricco menù di 46 forme
contrattuali diverse farebbe meglio
a non scandalizzarsi per le parole rivelatrici del ministro Fornero:
quelle parole sono le loro, quella politica che fa carne di porco dei
diritti conquistati con il sudore e il sangue di intere generazioni di
lavoratori è la loro politica. Ci sono questioni di fondo che dividono
in due, o si sta di qua o si sta di là, tertium non datur. A, B e C
stanno di là. Saranno sicuramente soddisfatti, però, della precisazione
ministeriale secondo cui non è «il lavoro» ma «il posto di lavoro» a
non essere un diritto. I giornalisti, si sa, capiscono interpretano e
riferiscono sempre male.
Il presidente Monti, apprezzato da Obama,
Merkel e Hollande finalmente potrà portare al vertice europeo di oggi un
grande risultato quando orgogliosamente depositerà sul tavolo
comunitario lo scalpo della democrazia sindacale italiana.
Detto senza mezzi termini, cosa gliene frega all'Europa, al mondo, ai
mercati, alla finanza e allo spread della cancellazione dell'articolo
18? O qualcuno pensa davvero che alle nostre frontiere si precipiteranno
le multinazionali straniere per andare a investire a Casal di
Principe, o che la Fiat rinuncierà a scappare dall'Italia come i ladri
di notte dai caveau delle banche svaligiate?
Allora, a che cosa è
servito stravolgere l'intero impianto dei diritti del lavoro senza che
ciò crei un solo occupato in più? Che ce ne facciamo di tanta
precarietà in entrata se non c'è un luogo in cui entrare? E perché
rendere ancora più facile l'espulsione dal lavoro, contestualmente
all'allungamento dell'età lavorativa fino a 67-70 anni? La risposta è
molto semplice: si voleva riconsegnare tutto il comando all'impresa,
cancellando i contrappesi che tutelavano i più deboli dalla prepotenza
dei più forti. Il posto di lavoro non è più un diritto ma un'arma
caricata - e non a salve - nelle mani del capitale. Perché mai le
vittime di questo scempio dovrebbero domani votare per chi ieri ha
votato in Parlamento per ridurle in uno stato di semischiavitù? E
perché mai queste vittime dovrebbero sentirsi rappresentate
sindacalmente da chi non ha voluto mettere in campo neppure uno
sciopero generale?
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