Torniamo ancora a Pino Ferraris, con la registrazione della sua presentazione di Ieri e domani. Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente (Edizioni dell’Asino) tenuta alla Festa della parola, a Roma, il 30 settembre dell’anno scorso.L’impegno della storiografia per me ha un significato prima di tutto politico.
Mi considero un politico in esilio da trent’anni, ma nonostante questo
la maggior parte della mia vita è stata occupata dalla militanza
politica.
Sono un animale politico e non lo nascondo, e una
delle prime considerazioni che faccio e che mi ossessiona è che la
perdita della memoria, l’annientamento del passato, significa anche
annientamento del futuro. Non c’è possibilità di costruire futuro se non
si spreme la memoria, se non la si elabora. L’amnesia, come in parte la
nostalgia, afferma la dittatura del presente. Oggi viviamo a tutti gli
effetti nella dittatura del presente...
Ieri e domani è la versione, più efficace, che Goffredo Fofi ha dato al titolo che io avevo pensato per il libro: Passato e futuro. Passato e futuro
era in origine la proposta che io avevo fatto per “Parole chiave”, la
rivista tutt’ora esistente sui “problemi del socialismo”. L’ispirazione
mi venne in opposizione polemica alla rivista di storia contemporanea
“Passato e presente”, dove traspare un elemento di filosofia della
storia in cui il presente sembra già contenuto nel passato, mentre il
problema mio e credo nostro è quello di affermare la libertà nella
storia: libertà condizionata, libertà che può sfuggirci di mano... però
il principio di fondo è la libertà nella storia, non un determinismo
storico che ci annienta.
Ricordo di aver
utilizzato una volta in una lettera a Claudio Pavone una citazione di
Nietzsche: bisogna essere figli inattuali del proprio tempo, bisogna
tenere la testa fuori dal presente che ti ingloba, che ti soffoca, che è
come una vischiosa palude di persistenza. E per fare questo bisogna
attivare due facoltà essenziali: la memoria e l’immaginazione. Con la
memoria e l’immaginazione, è possibile uscire dal presente e prenderlo a
calci. In caso contrario il presente ti ingloba. Essere inglobati dal
presente significa essere bloccati nell’esistente e quindi ogni idea di
emancipazione e di liberazione viene persa. Questo è il nesso tra
passato e futuro, tra ieri e domani.
Quando
Fukuyama ha proclamato la fine della storia, che se ne sia reso conto o
meno, ha proclamato la fine del futuro. “È finita, dovete stare qui,
accettare questo capitalismo per l’eternità. Democrazia più capitalismo,
tutto qua. La storia è finita”.
È
soprattutto per questo che io non accetto la liquidazione della storia
di duecento anni di socialismo, con tutti i suoi errori, tutte le sue
tragedie... Non avremmo l’Europa che abbiamo, con tutti i limiti che ha,
se non ci fossero stati quei duecento anni. Non lo accetto, non si può accettare.
Il
mio non è un richiamo nostalgico, perché io ritorno a quel periodo
storico con spinte diverse dalla nostalgia. Quello non fu il periodo
delle utopie individualistiche come certe “narrazioni” lasciano pensare.
Fu il momento della “costruzione democratica di massa”. Il fuoco della
mia ricerca è sempre stato di riuscire a capire in che modo in una delle
più importanti e massicce fasi di trasformazione storica, la
rivoluzione industriale, che ha cambiato ogni aspetto dell’esistenza, è
nato un enorme ed efficace movimento istituente, capace cioè di
reagire, resistere e, quando necessario, inventare delle cose. Quella
gente, dentro quel cambiamento, non ha solo subito l’innovazione
travolgente, ma ha inventato un mucchio di cose: il mutuo soccorso, le
leghe di resistenza, le camere del lavoro, le case del popolo, i fasci
siciliani. Ha inventato un modo nuovo di associare uomini e donne
intorno alle istanze basilari dell’esistenza.
Noi,
oggi, anche se non ce ne rendiamo del tutto conto, stiamo vivendo una
trasformazione storica come forse non c’è mai stata. E non siamo in
grado di inventare niente? La capacità istituente di creare qualcosa, di
associarsi, di inventare nuove strutture solidali, nuove istituzioni…
non siamo in grado di fare niente di tutto ciò. Quelle generazioni sono
state capaci di inventare il partito politico di massa, il sindacato, il
mutuo soccorso… un fiorire incredibile di contro-società. Ecco
prima che un problema di occupare lo stato o di crearne uno nuovo, per
loro si trattava di inventare una contro-società! Mentre veniva travolta
la vecchia società si tendeva a costruirne di nuove. La suggestione è
proprio questa, la domanda, il messaggio più forte per il presente che
quella storia ci restituisce è proprio questo.
Nella
fase travolgente che stiamo attraversando in cui si succedono crisi,
sovvertimenti economici, mutamenti (e drammi) sociali, crisi di sistemi
politici e istituzionali, com’è possibile che dal basso non ci siano
nuove invenzioni, nuovi istituti, nuovi strumenti di lotta, nuove forme
associative? I movimenti sono importanti ma la questione rimane quella
di come far diventare quei movimenti fatti permanenti, fatti che
contano, che hanno un’efficacia sociale. Che diventano al limite
elementi di contro-società.
La
valorizzazione del movimento operaio belga di fine Ottocento che ho
tentato di restituire nel libro, ad esempio, nasce proprio da qui. Le
tappe politiche del socialismo statalista che dall’inizio del Novecento
si è affermato più o meno dappertutto, prevedevano di costruire un
partito “anti-stato”, speculare cioè e contrario (per forza,
organizzazione, efficienza, burocrazia e gerarchizzazione) necessario a
conquistare lo stato. Dopo di che, mediante lo stato e solo dopo
la sua conquista, si sarebbe cambiata la società. Per il movimento
operaio belga, così come per molte delle figure e delle esperienze che
ho ricostruito nel libro, la questione in realtà era: cambiamo subito la società, facciamo un’altra
società e nello stesso tempo mutiamo i rapporti di potere con lo stato,
trasformiamo la democrazia in democrazia progressiva, in democrazia
allargata, distribuita. Il potere è un male probabilmente necessario. Il
problema è come distribuirlo, come modificarlo. E come controllarlo dal
basso e dalla società civile.
Il Novecento è il secolo di Weber, delle gabbie d’acciaio,
delle burocrazie, dei grandi apparati centralizzati, che hanno
coinvolto gli stati come gli anti-stati, i partiti politici come i
sindacati. Oggi non c’è più il dominio degli apparati, ma il dominio
della rete, l’impresa è rete piatta, cioè rete con pochi livelli
gerarchici. Oggi è la rete a essere dominante, non più lo scontro tra
apparati. La partita si gioca intorno a un suo diverso uso. La rete non
ci darà la “democrazia elettronica”. È una visione critica dell’uso
delle tecniche di rete, un uso alternativo quello di cui abbiamo
bisogno, per creare quella che oggi è l’esigenza politica fondamentale:
unificare i diversi. Non omologare tutti. La diversità è l’elemento
fondante della complessità sociale attuale. E come tenere insieme i
diversi se non confederandosi? Confederarsi, ce l’hanno insegnato
proprio alcune delle esperienze che ho descritto nel libro, significa
mettere insieme le cose che ti uniscono, e mantenere distinte le cose
che sono tue proprie. La confederazione è l’opposto dell’omologazione
centralizzante. Ecco l’elemento di implicito rinvio a quella pagina di
storia: l’esperienza “federalista” del movimento operaio belga, rivela
il volto di un socialismo pluralistico, che puntava al confederare, più che al centralizzare e omologare. E in questo c’è un messaggio fortissimo per il futuro.
Oggi
non c’è più il grande partito di massa centralizzato e burocratizzato
che deve contrastare coi suoi apparati, quasi militarizzati, lo stato
monolitico. Oggi è cambiato il paradigma del far politica e del fare
associazione. Dobbiamo lavorare su questo, e per orientare e trovare
finalmente forme nuove a questo paradigma possiamo trarre dall’altro ieri
qualche suggestione. Non delle soluzioni, solo qualche suggestione.
Come gli operai belgi appunto, che in quegli anni hanno saputo costruire
e vivere in una rete mutualistica efficace e ricca. Una rete che aveva
la forma della confederazione. La Prima Internazionale si chiamava
“Ufficio di corrispondenza” e non era uno stato maggiore, ma una specie
di internet del proletariato. Questi salti tra passato e futuro mi pare
si colleghino anche alla possibilità di sfruttare le nuove tecnologie
per confederarci e non per ricostruire apparati e culture simili a
quelli del passato.
Pino Ferraris
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