di Adriana Cerretelli, da Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2012
«La scelta di concentrarsi esclusivamente sulla politica di austerità portò negli anni '20 e '30 del secolo scorso alla disoccupazione di massa, alla rottura dei sistemi democratici fino alla catastrofe del nazismo». Non è arrivato da Atene l'avvertimento, da qualche politico o alto burocrate incattivito, ansioso di graffiare il cieco dogmatismo tedesco. No, l'altro ieri è partito da Vienna, capitale del l'Austria Felix, germanofona e rigorista. A scandirlo è stato Ewald Nowotny, nientemeno che il governatore della sua Banca centrale. All'indomani del vertice del G-20 di Los Cabos e a una settimana dal summit Ue che dovrebbe provare a voltare pagina sulla crisi infinita dell'euro affrontando di petto emergenza bancaria, crescita e impennata degli spread, le pressioni sulla Germania di Angela Merkel si fanno stringenti. Paradossalmente però, invece di ricomporsi, la percezione della crisi, delle sue origini e della sua possibile soluzione non cessa di divaricarsi tra il Nord e il Sud dell'euro.
Per il fronte mediterraneo rigore, sacrifici e riforme strutturali ci vogliono ma saranno insostenibili senza la crescita economica, in presenza di una solidarietà tardiva e pelosissima, di liquidità latitante, di un sistema bancario intossicato dai legami perversi con il debito sovrano e per questo paralizzato, di una Bce dalle mani quasi legate.
Per il blocco del nord la crisi è invece tutta e quasi da imputare all'irresponsabilità delle cicale del sud, alla loro allegra finanza, ai debiti folli, alla competitività perduta da sistemi produttivi obsoleti, salari faraonici, welfare di lusso.
Non lo dice troppo ad alta voce ma in fondo in fondo quel nord, che è poi essenzialmente tedesco, preferirebbe dimenticare questi partner scomodi, costosi, bancarottieri e culturalmente estranei. Sicuro che alla fine ne trarrebbe più benefici che danni.
Convinzione giustificata da fatti inoppugnabili o figlia di vecchi e radicati pregiudizi? I dubbi sono legittimi.
La grande paura che oggi si aggira per l'Europa si chiama default: di uno o più paesi, di una o più banche, dell'euro malato di meridionalismo. Se però si ripercorre la storia a ritroso si scopre, per esempio, che è la Germania a essere già fallita per ben 3 volte, ai tempi della Prussia e del Terzo Reich. Idem l'Austria e la Spagna di Filippo II. La Francia è saltata per due volte. L'Italia mai.
Uno studio di McKinsey conferma, d'altra parte, che la creazione dell'euro ha fruttato ai suoi membri vantaggi per circa 350 miliardi e quasi la metà (155) ai soli tedeschi. Ancora. Le sue virtù competitive fanno della Germania il primo esportatore del mondo con un avanzo corrente che nel 2011 ha superato quello della Cina, che pure con i suoi surplus è comunemente considerata lo scandalo globale.
Da mesi, grazie alla crisi, Berlino si finanzia a costi vicini e a volte sotto lo zero in mercati che, a loro volta, troppo spesso si muovono vedendo solo quello che vogliono vedere. Ignorando, per esempio, che tra il 2000 e il 2011 il debito pubblico della Spagna è salito solo dell'8%, quello dell'Italia del 10 mentre in Germania è cresciuto del 34%. Sì, del 34%. O ancora, che il debito francese (+53%) è aumentato più di quello greco (+47%). Intanto quello americano lievitava dell'81%, quello inglese del… 103%.
Ancora. È vero che l'economia tedesca oggi è la più globalizzata d'Europa e ormai dirige nell'Ue soltanto il 60% del suo export ma è altrettanto vero che, sottolinea Aart De Geuss, ministro olandese agli Affari sociali e ex-numero 2 dell'Ocse, con i suoi 82 milioni di abitanti la Germania invecchia rapidamente e cresce poco: 1,5-1,7% rispetto al 7-8% dei grandi paesi emergenti. Tra 30 anni ci saranno più francesi che tedeschi nell'Unione. A quel punto l'Europa per Berlino diventerà un asset molto importante e non qualcosa di cui sbarazzarsi alla leggera.
Se tutto questo non dovesse bastare a convincerli che anche a loro Europa ed euro convengono tanto più con partner domani risanati e più integrati, c'è un altro dato che dovrebbe farli riflettere: secondo uno studio Bocconi di Carlo Altomonte, l'esposizione tedesca verso l'eurozona tuttora sarebbe leggera per modo di dire: complessivamente sfiora infatti i 1.200 miliardi a fronte di un indebitamento pubblico netto di 1.440.
La conclusione è ovvia: per tutti senza eccezioni i costi di un divorzio europeo sarebbero di gran lunga superiori a quelli del salvataggio del matrimonio. Come in tutti i menages in crisi troppo spesso però non si ragiona con la testa ma con la pancia.
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