martedì 6 novembre 2018

Precari, part-time e partite Iva: ecco chi non arriverà mai alla pensione

Milioni di italiani rischiano di non ricevere mai l'assegno dell'Inps. Perché non hanno accumulato abbastanza mesi di contribuzione nel corso della vita. Una bomba che esploderà nei prossimi anni.

Precari, part-time e partite Iva: ecco chi non arriverà mai alla pensionePulire i pavimenti, apparecchiare i tavoli della mensa, servire i pasti. Una volta che gli alunni sono tornati in classe, sparecchiare, lavare, portare fuori la pattumiera.
In tre ore. Certo, è un lavoro che lascia molto tempo libero, ma se a farlo è una signora di 72 anni con la schiena a pezzi rischia di essere alquanto pesante.

Questa signora, che abita a Novate Milanese, profondo e ricco Nord, ha avviato una battaglia legale contro l’Inps per difendere il suo diritto alla pensione: «Ha iniziato a lavorare nel 1961, nel 1971 si è dedicata alla famiglia, si è rimessa all’opera sette anni dopo. Dal 2000 lavora con un contratto part time ciclico nelle mense scolastiche. L’Inps per via di un’errata e discriminatoria interpretazione della legge, ritiene non abbia maturato l’anzianità di servizio, cioè i 20 anni di contributi, per accedere alla pensione. Nel frattempo la signora ha avuto problemi di salute ed essendo in malattia da parecchio tempo, rischia il licenziamento», racconta all’Espresso l’avvocato Daniela Manassero.


Com’è possibile che a 72 anni suonati non ci si possa concedere una serena pensione dopo aver sgobbato decenni?
«Nel solo settore scolastico ci sono 100 mila persone in questa situazione. È il personale che si occupa delle pulizie, della ristorazione, della manutenzione degli edifici, dell’assistenza agli alunni disabili. Dovranno continuare a lavorare ben oltre i settant’anni per avere una pensione misera. Ed è solo la punta di un gigantesco iceberg che si infrangerà sull’Inps non appena i lavoratori flessibili e quelli che hanno iniziato a lavorare dopo il ’95, cioè con l’introduzione del sistema contributivo e l’avvento dei contratti precari, avranno i capelli bianchi», spiega il sindacalista della Cgil Giorgio Raoul Ortolani.

Il ticchettio di una bomba sociale che esploderà fra un decennio. E mentre l’Italia si guarda l’ombelico, presa fra reddito di cittadinanza e quota 100, il tempo per disinnescare l’ordigno si riduce. In base all’indagine condotta dal ricercatore della Sapienza Michele Raitano e pubblicata nel Rapporto sullo Stato Sociale, il 44 per cento delle persone entrate nel mondo del lavoro dopo il ’95 ha avuto un salario inferiore ai 12 mila euro lordi per tre anni su dieci, un altro 20 per cento ha trascorso sei anni su dieci in questa stessa condizione. Solo il 36 per cento di chi è entrato nel mondo del lavoro da vent’anni ha una storia contributiva piena.

Rispetto al lavoratore medio, che percepisce circa 21 mila euro annui, solo il 22,7 per cento ha una contribuzione maggiore, mentre il 44,5 per cento ha accumulato meno di 12 mila euro. Se questo 44,5 per cento della popolazione non comincerà subito (e per i successivi 15/20 anni) a guadagnare, si ritroverà con una pensione al di sotto del reddito di povertà: «Sotto questa soglia c’è il 51 per cento delle donne, il 35 per cento dei laureati, il 42 per cento dei diplomati e il 58 per cento di chi si è fermato alla scuola dell’obbligo», dice Raitano.

Il caso dei centomila addetti delle scuole è emblematico per capire quello che sta per succedere a metà della popolazione lavorativa italiana. Nonostante abbiano lavorato 20 anni, per l’Inps non hanno accumulato sufficienti mesi di contribuzione. È il caso della signora settantaduenne di Milano, difesa dall’avvocato Manassero contro l’Inps: «L’ente di previdenza ritiene che questa signora debba continuare a lavorare ancora per tre anni e sette mesi per raggiungere il minimo di vent’anni contributivi». Questo perché l’Inps non considera i mesi estivi (quelli in cui le mense scolastiche sono chiuse) nel conto degli anni di lavoro, nonostante avesse un contratto a tempo indeterminato di tipo part time “ciclico verticale” (cioè si sta a casa per un determinato periodo dell’anno).

Il sindacalista Ortolani racconta che nella sola Lombardia ci sono 2.500 lavoratori pronti a passare alle vie legali: «L’Inps sta perdendo tutte le cause e viene regolarmente condannato a pagare 9.200 euro per i tre gradi di giudizio. Per le sole spese di lite l’Inps dovrebbe sborsare 23 milioni».

Oltre al settore scolastico, si trova nella stessa situazione l’intero sistema di cura e assistenza sanitaria, l’ambito delle pulizie, i lavori stagionali e la ristorazione, gli assistenti di volo e gli addetti al turismo, dipendenti di imprese private con contratti a tempo parziale o a singhiozzo, persino qualche dipendente part-time dello stesso Inps ha fatto causa e ci sono sempre più spesso i metalmeccanici stagionali in questa condizione: tutti con voragini contributive. «Persino gli stagionali della Piaggio di Pontedera sono in questa stessa situazione», dice il sindacalista, confermando un fenomeno generalizzato.

A sollevare il problema erano stati nel 2010 gli assistenti di volo di Alitalia che avevano lavorato oltre vent’anni con un contratto part time “ciclico verticale”, quindi alcuni mesi sì e altri no. Dopo che l’Inps aveva negato il loro diritto alla pensione, si erano rivolti alla Corte di Giustizia Europea, che aveva dato loro ragione, per un principio di non discriminazione dei lavoratori a tempo parziale. «Del resto, chi ha questi contratti non ha diritto ad alcuna indennità di disoccupazione, perché si tratta di un tempo indeterminato», fa notare l’avvocato Manassero, che sta seguendo decine di pratiche nei settori più svariati. L’Inps non sana la questione perché è compito del governo prendere provvedimenti. Nella scorsa legislatura erano stati presentati in Finanziaria 2018 due emendamenti, uno da parte del Pd, l’altro del Movimento 5 Stelle, ma il governo Gentiloni non aveva consentito il voto. Stavolta Lega e 5 Stelle si sono impegnati a trovare le risorse per risolvere il problema, ma nella manovra di quest’anno non se ne fa cenno.

«Se per questi lavoratori è possibile trovare una soluzione legale, facendo leva sul contratto a tempo indeterminato, per tutti gli altri precari, segnati da carriere discontinue, non sarà così facile», continua il sindacalista Ortolani. Infatti ogni lavoratore deve guadagnare almeno 200 euro a settimana, per un totale di 10.440 euro l’anno per vedersi accreditare l’annualità ai fini della pensione: «È una soglia che neppure i lavoratori part-time che lavorano 12 mesi l’anno raggiungono se non superano le 24 ore lavorative settimanali». Nel caso in cui il lavoratore non la raggiunga, il numero di settimane considerate al fine pensionistico si riduce. «I minimi contributivi sono stati definiti nel 1992, quando il lavoro era una certezza. Oggi oltre il 25 per cento dei lavoratori dipendenti è part time e quei minimi sono per molti inavvicinabili». Tutti i precari, i lavoratori a singhiozzo, quelli a termine e intermittenti, le partite Iva da fame dovranno fare i conti con quella che si può definire una bomba sociale.

Racconta Giuliano Benetti, direttore del patronato Inca della Cgil di Brescia che: «C’è molto malcontento. Arrivano molte donne, sessantenni, che continuano a fare lavori duri per raggiungere la soglia dei 20 anni di contributi che da diritto alla pensione di anzianità di 750 euro. Mi chiedono se vale la pena continuare a lavorare, se tanto avranno il reddito di cittadinanza».

Il collega di Milano, Francesco Castellotti, racconta di ultrasessantenni scioccati per l’entità misera delle pensioni che riceveranno: «Si mangiano le mani per non aver fatto un fondo complementare, una pensione secondaria, e spesso decidono di continuare a lavorare, pur avendo diritto alla pensione. Ci sono persone di 70 anni che, per via di buchi contributivi, non raggiungono i 20 anni di contributi e domandano quanto dovrebbero versare, volontariamente, perché sanno bene che nessuno sarà disposto a offrire un lavoro a un anziano».

Mauro Paris, segretario regionale dei patronati Inca della Cgil, racconta di muratori di 65 anni che chiedono se potranno sfruttare la quota 100 caldeggiata dal ministro dell’Interno: «Ma sarà necessario avere entrambi i requisiti di età (almeno 62 anni) e di anni contributivi (devono essere 38) con non più di due anni di contributi figurativi. Si capisce che gli aventi diritto non saranno molti». E poi ci sono i 75 mila giovani che sempre all’Inca lombardo non chiedono la pensione, ma l’assegno di disoccupazione: «Sta crescendo il numero degli under 35 che non riesce a entrare stabilmente nel mondo del lavoro e in loro c’è molta disillusione». Siamo sicuri che il reddito di cittadinanza e la quota 100 siano gli strumenti adatti per sostenere una gioventù scoraggiata?

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