È balzato agli occhi anche dei meno coinvolti nei dibattiti economici un recente commento del Corriere della Sera, firmato da tale Luigi Ippolito, dal titolo inequivocabile: “La piena occupazione? Nella Gran Bretagna post Brexit è un problema”.
Il contributo, dal titolo quantomeno infelice, tocca diversi argomenti caldi, su cui può essere utile soffermarsi.
Procediamo con ordine. Da questo articolo emergono tre questioni:
-
la Gran Bretagna è attualmente in piena occupazione;
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la piena occupazione rappresenterebbe, almeno per le imprese, un problema;
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l’economia abbisognerebbe di ulteriori lavoratori, e pertanto sarebbe un errore limitare i flussi in entrata.
Precisiamo,
prima di addentrarci nella discussione, che ad oltre due anni dal
referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (giugno
2016), nessun provvedimento è stato effettivamente adottato: non si
conoscono pertanto le ‘forme’ della Brexit, ossia se e come la Gran
Bretagna sarà effettivamente fuori dal mercato unico europeo. Pare,
tuttavia, che i negoziati stiano giungendo ad una conclusione, ad oggi non del tutto chiara nei contenuti.
La Gran Bretagna è attualmente in piena occupazione
Dice il Corriere della Sera: “La
Gran Bretagna ha praticamente raggiunto la piena occupazione: i senza
lavoro sono scesi al 4 per cento e si tratta di un livello considerato
fisiologico per un’economia avanzata.” Verissimo:
le statistiche ufficiali confermano un basso livello di disoccupazione,
accompagnato da un tasso di occupazione del 75% (tra i più alti in
Europa). Giusto per avere un confronto, in Italia il tasso di
disoccupazione supera il 10% e quello di occupazione si ferma al 58%.
Tradotto, stanno messi meglio di noi in quanto ad occupazione.
Procedendo un po’ a ritroso, possiamo osservare che solo qualche anno
fa, nel 2011, la disoccupazione si attestava all’8%: com’è stato quindi
possibile dimezzarla? Allargando il quadro, si può notare come da ormai
un quinquennio, il PIL britannico cresca mediamente di due punti
percentuali ogni anno, e questa crescita reale favorisce ovviamente la
crescita occupazionale. Sappiamo, inoltre, che uno dei principali motori
della crescita è l’intervento pubblico nell’economia, è una politica
pubblica di stimolo e sostegno alla domanda aggregata: uno Stato che
vuole sostenere l’economia tenderà a spendere più denaro pubblico di
quanto riscuota dalla tassazione, viceversa farà uno Stato che mira a
reprimerla. Abbiamo visto che il vero termometro del comportamento del governo in ambito di politica economica è
il saldo primario: se le uscite al netto della spesa per interessi sono
maggiori delle entrate, lo Stato sta immettendo risorse nell’economia,
sostenendo così la domanda di beni e servizi, che si tradurrà in
maggiore crescita e occupazione. Dal grafico 1 notiamo che il settore
pubblico UK sta registrando un disavanzo primario dal 2003, al contrario
di quanto avviene da anni in Italia ed in molti altri paesi
dell’Eurozona. Ciò è possibile perché la Gran Bretagna, non avendo
aderito alla moneta unica, pur dovendo sottostare ai vincoli di
Maastricht è meno vincolata dal punto di vista delle regole in ambito di
politica fiscale (ad esempio non è assoggettata al Fiscal Compact,
che impone il pareggio di bilancio agli stati dell’Euro). Ha inoltre a
disposizione una propria banca centrale che può svolgere il suo
‘normale’ compito, nel caso in cui il Tesoro inglese abbia difficoltà a
trovare a tassi non elevati le risorse necessarie a coprire i deficit
pubblici (ossia l’eccesso di spese sulle entrate). Ecco fornita una
prima spiegazione del pieno impiego: un settore pubblico che, potendo
operare fuori dai vincoli europei, ha contribuito, seppur in misura meno
accentuata negli ultimi anni, a sostenere l’economia reale. La Gran
Bretagna, soggetta ‘solamente’ ai dettami di Maastricht e non al
pareggio di bilancio, ha comunque spesso superato il limite del 3% con
il solo saldo primario, come si evince dal grafico 1: se facessimo
riferimento al saldo complessivo,
osserveremo che dal 2009 al 2016 il deficit ha sempre superato il muro
di Maastricht. Tuttavia, dal grafico 1 si può anche notare che negli
ultimi anni il programma di austerità portato avanti
dall’amministrazione Cameron ha determinato una progressiva riduzione
del disavanzo, che non a caso si è tradotta in una corrispondente
riduzione del tasso di crescita del PIL. Contestualmente, il consumo
delle famiglie, finanziato a credito, ha riassunto un ruolo guida nel
trainare la dinamica della domanda. Il punto è comunque chiaro:
nonostante si parli di austerity in
UK, le varie amministrazioni succedutesi dal 2002 ad oggi hanno sempre
realizzato disavanzi primari, sostenendo di fatto la crescita e
l’occupazione. Può essere superfluo aggiungerlo, ma questo, di per sé,
non implica ovviamente un giudizio positivo nei confronti dei governi
inglesi che si sono succeduti in questo periodo. Nella misura in cui
questi disavanzi primari si sono tradotti, principalmente, in sgravi
fiscali a favore dei più ricchi, due conseguenze ne sono discese: da un
lato si è contribuito ad una società più diseguale ed ingiusta.
Dall’altro, poiché il disavanzo è stato destinato a misure dal
moltiplicatore relativamente basso, il risultato macroeconomico
complessivo è stato inferiore di quello che si sarebbe potuto ottenere, a
parità di disavanzo, con investimenti infrastrutturali e politiche
sociali a favore delle classi più disagiate.
Grafico 1. Saldo primario corretto per il ciclo (fonte: IMF.org)
La piena occupazione è un problema
Dati
alla mano, la Gran Bretagna è quindi prossima al pieno impiego, e
questo rappresenterebbe un problema… per qualcuno, dovremmo aggiungere.
Ma oggi non sembra necessario ripetere l’ovvio perché, seppur in tempi
di menzogna, il giornale del padrone è stavolta smaccatamente sincero:
la piena occupazione è “una
buona notizia? Fino a un certo punto: perché in realtà molte industrie
ora stanno facendo fatica a trovare dipendenti e questo spinge verso
l’alto i salari, intaccando i profitti delle aziende”. Il Corriere della Sera avrebbe potuto titolare questo commento “La piena occupazione spaventa il profitto”. Sembra di leggere il celebre Aspetti politici del pieno impiego di
Michał Kalecki, dove l’economista polacco ci spiegava l’ostilità con la
quale il capitale guarda all’eliminazione della disoccupazione: senza
di essa, i padroni perdono un potente strumento di ricatto e disciplina nei
confronti del mondo del lavoro. Sappiamo infatti che, al di là degli
aspetti istituzionali a tutela dei lavoratori (sindacati, contratti
collettivi, norme contro il licenziamento), i salari crescono nei
periodi di bassa disoccupazione, in virtù della maggiore forza
contrattuale dei lavoratori, frutto anche di una minore facilità per le
imprese nel rimpiazzare gli occupati con chi sta facendo la fila fuori
ed è magari disposto a lavorare anche a condizioni meno favorevoli, pur
di avere un reddito. In sostanza, il Corriere della Sera ci ricorda una
storia di cui eravamo, purtroppo o per fortuna, già consapevoli: è la
vecchia questione della lotta di classe, in cui i capitalisti non sono
poi così contenti se c’è lavoro per tutti perché in queste condizioni
accaparrarsi una fetta consistente del prodotto sociale è meno agevole.
Tuttavia, fa sempre piacere ascoltare questo concetto espresso e
raccontato così a chiare lettere da chi di solito fa il gioco del
capitale, descrivendo l’oggi come un’era di armonia in cui tutti siamo
capitalisti in quanto imprenditori di noi stessi. Anzi, magari se lo
scrive il Corriere della Sera e non qualche bizzarro collettivo di
economisti, è pure più credibile. Resta il fatto che (e qui a parlare
non è né il Corsera né Coniare Rivolta, ma l’Ocse), purtroppo, al
momento di crescita dei salari non ce n’è traccia: come si evince dal
grafico 2, in termini reali le retribuzioni sono ferme ai livelli
pre-crisi.
Grafico 2. Retribuzioni medie annue in sterline costanti del 2016 (fonte: Oecd.stat)
Ode alla mobilità del lavoro
L’analisi sugli aspetti distributivi del pieno impiego non ci può cogliere di sorpresa.
Al massimo, più che i contenuti della messa ci stupisce la faccia del
prete che la canta. L’autore dell’articolo si dedica comunque ad un
contorto salto logico. Assistiamo infatti ad un canto alla mobilità del
lavoro su scala internazionale, con una finalità ben precisa: secondo il
Corriere della Sera, la piena occupazione è “un
meccanismo perverso, che rischia solo di essere esacerbato dalla
Brexit: con l’uscita dalla Ue Londra metterà fine alla libera
circolazione e dunque verrà prosciugato quel bacino di lavoratori
europei che è vitale per il funzionamento di molte attività britanniche”.
L’articolo è chiaro nell’asserire che attualmente diversi lavori sono
principalmente eseguiti da stranieri, sia nei settori in cui sono
impiegati lavoratori poco qualificati (i camerieri sarebbero quasi tutti
italiani…) che nei settori high-tech (ingegneri e programmatori
sarebbero per lo più indiani o cinesi). In sostanza, da un lato si
ammette che la piena occupazione è stata raggiunta nonostante la
libera circolazione che ha permesso agli stranieri di trovare lavoro in
UK, ma dall’altro si asserisce che, qualora la Brexit dovesse essere
caratterizzata da un controllo dei flussi in entrata, questa carenza di
lavoratori sarebbe esasperata dai mancati afflussi di lavoratori
stranieri. In altri termini, prima si fa emergere che la piena
occupazione si può raggiungere anche ospitando migranti economici, e poi
si rimarca l’idea che non dovrebbero essere chiuse le frontiere ma solo perché i disoccupati del sud europeo (italiani, spagnoli e portoghesi) potrebbero così trasferirsi in UK evitando il prosciugamento di “quel bacino di lavoratori europei che è vitale per il funzionamento di molte attività britanniche”. Ecco spiegata la chiosa: in UK “lavorano
tutti e il problema è trovare semmai chi faccia i lavori: per questo
alzare barriere nel momento attuale appare un’idea decisamente infelice”.
L’esempio più fulgido di come si possa usare un argomento condivisibile
(alzare le barriere è sbagliato) per una finalità squisitamente di
classe, ossia quella di costruire un esercito di riserva su scala
internazionale. Soprattutto, un esempio fulgido e chiaro della ipocrisia
che intesse questi ragionamenti, quando vengono maneggiati in maniera
‘volgare’. Una economia capitalista ha strutturalmente bisogno di una
massa di disperati, dalla cui miseria estrarre il profitto. Se questa
massa di disperati è esterna alla cittadinanza, e quindi più isolabile,
tanto meglio, ci saranno meno resistenze. Se questo esercito di
‘stranieri’ viene a mancare, lo sfruttamento dovrà cercare altri
soggetti – indigeni – su cui esercitarsi, con tutte le conseguenze del
caso in termini di scontento e problemi di consenso elettorale. Questi
sono i termini della questione, nonostante le cattive coscienze del
Corriere della Sera e gli strepiti dei cattivisti presunti di sinistra che, per inseguire la Lega, scoprono tutto ad un tratto le virtù delle frontiere.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org
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