...I conteggi, richiesti da anni da enti locali e attivisti No tap, li stanno facendo ora i nuovi periti...!
“Stabilimento”. Una sola parola che vale quanto un gasdotto. Perché fa la vera differenza tra l’assoggettabilità dell’infrastruttura alla normativa Seveso e la sua esclusione.
Non una cosetta: è il nodo principale dell’opera, la chiave che potrebbe ancora scardinare tutto, questione così essenziale da essere oggetto di incidente probatorio nell’ambito della seconda inchiesta aperta a Lecce dopo la precedente archiviazione.
Se il progetto della Tap ha potuto sottrarsi alle maglie strette delle direttive previste è proprio perché ha evitato quella parola.Applicare la normativa Seveso sarebbe infatti come far passare il gasdotto dalla cruna di un ago. Tra le altre cose, le tre direttive in materia prevedono che la verifica di assoggettabilità a tale normativa preceda sia le autorizzazioni ambientali che i permessi a costruire. Pertanto, potrebbe rimettere in discussione l’autorizzazione unica.
Poi, impone distanze di sicurezza più restrittive da punti ritenuti sensibili e, in particolare la Seveso III, chiede di calcolare il rischio di incidente rilevante anche sulle cose e non solo sulle persone.
Per gli stabilimenti assoggettati, inoltre, può essere previsto anche un referendum popolare nelle zone interessate.
La tesi è nota: il termine di ricezione (Prt) è un impianto, dunque non è uno stabilimento, dunque Seveso non si applica alla Tap.
Ciò che non è noto, almeno finora, è che è stata la stessa multinazionale, invece, a qualificare come “stabilimento” quel Prt, per il quale, tra l’altro, la scorsa notte sono stati riavviati i lavori tra le proteste degli attivisti.
È quello il cervello del gasdotto, da cui si controllano i flussi del gas fino al confine greco-turco. Sorgerà a otto chilometri dalla costa di San Foca, dove il tubo è destinato ad approdare, su dodici ettari nelle campagne strette tra i centri abitati di Melendugno, Calimera, Vernole e Castrì, in provincia di Lecce: 20mila abitanti nel raggio di 3,5 chilometri esposti fisiologicamente al rischio incendi ed esplosioni.
Non può essere una svista: Tap ripete per 28 volte quella parola all’interno della relazione tecnica sull’“Analisi di rischio del terminale di ricezione italiano e del relativo gasdotto”, inviata come risposta alle richieste integrative del comando dei vigili del fuoco di Lecce per il nulla osta di fattibilità. 28 volte. Quel documento, che contiene dati in parte riservati e che è in possesso del fattoquotidiano.it, è stato predisposto sulla “base delle informazioni fornite e messe a disposizione dalla Società Tap e dalla Società responsabile della progettazione”, la E.On Technologies GmbH. Tiene conto del fatto che il gasdotto “avrà inizialmente una capacità pari a 10 miliardi di metri cubi/anno (prima fase del progetto)”, portata che “può essere ampliata fino a 20 miliardi di metri cubi/anno dopo circa dieci anni di funzionamento”.
La relazione è stata anche depositata agli atti nell’ambito dell’incidente probatorio da parte del legale della Regione Puglia, Francesco Zizzari. Se e quanto sarà presa in considerazione lo si potrà capire solo dopo la consegna della superperizia. Il termine, prorogato già due volte, è fissato al 18 novembre prossimo, visto che non slitterà ancora: il gip Cinzia Vergine ha deciso di non sostituire uno dei periti nominati dal Tribunale e risultato collega del consulente di Tap.
La gravità di questo documento è ancora più chiara se contestualizzata. La relazione reca la data del novembre 2014. Non un mese qualunque: si è alle soglie della conferenza dei servizi definitiva del 3 dicembre 2014, in prossimità della quale il ministero dell’Ambiente fa un’inversione a U. Dopo aver prescritto la sottoposizione del terminale alla legge sul rischio di incidenti rilevanti, cambia idea, in seguito ad un confronto con i ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Interno. Il Viminale, in particolare, esclude la Seveso il 25 novembre di quell’anno sulla base di un parere della Commissione Ue che, stando a quanto rivelato da l’Espresso, è stato quanto meno sintetizzato in maniera dubbia.
Conclusione: i tre dicasteri ritengono superata la prescrizione ritenendo che il terminale di ricezione sia un “elemento connesso con il sistema di trasporto del gas” e pertanto non rientri “nella nozione di stabilimento”. Nell’aprile 2015, il ministero dell’Ambiente depenna la prescrizione Seveso. Gli danno ragione Tar del Lazio e Consiglio di Stato, rimarcando che non c’è attività di manipolazione del gas. Tap, ovviamente, si guarda bene dal ricordare che lei stessa aveva qualificato il terminale proprio come stabilimento e considera la faccenda già chiusa. L’incidente probatorio, però, ha riaperto i giochi.
C’è poi un altro giallo, anche se secondario rispetto a quanto emerge dal documento del 2014. Finora infatti è stato preso per buono solo per un altro dato, ovvero la tabella nella quale sempre la multinazionale afferma che il quantitativo massimo di gas accumulato lì è pari a 48,6 tonnellate.
Proprio una spanna in meno rispetto al limite di 50, oltre il quale si applica la Seveso, sempre nel caso in cui di stabilimento si tratti. I primi consulenti della Procura hanno preso per buona quella cifra fornita dalla stessa Tap, non hanno fatto calcoli propri.
Non hanno spiegato perché, ad esempio, nel 2013, il Comando provinciale dei vigili del fuoco ha quantificato in 100 tonnellate la presenza di gas naturale, altamente infiammabile.
I conteggi, richiesti da anni da enti locali e attivisti No tap, li stanno facendo ora i nuovi periti.
E potrebbero riservare sorprese. Intanto la questione stabilimento sì o stabilimento no, mai come ora, è il vero nervo della contesa.
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