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L’espressione “decrescita felice” suscita ancora oggi molta
perplessità. E’ un equivoco tutto italiano. Io non ho mai usato questa
espressione. La decrescita ha un significato preciso e parte
dall’assunto che noi viviamo in un mondo finito e con risorse finite. La
seconda legge della termodinamica ci dice che se bruciamo 10 litri di
benzina essa “non si distrugge”, ma non la possiamo nemmeno più
riutilizzare come forma di energia. Come forma di energia la benzina se
n’è andata per sempre. E la benzina, che è un derivato del petrolio, è
un combustibile limitato, cioè finito. Queste sono cose che capirebbe
anche un bambino, ma gli economisti no, si rifiutano di includere nell’economia questo aspetto determinante per il nostro futuro.
Pertanto, io ritengo che siamo giunti ad un punto cruciale, che impone
il non-sviluppo. Purtroppo la stragrande maggioranza dei mass media
e delle persone è indotta a pensare il contrario, e cioè che sia
necessario produrre sempre di più. Per farlo, tuttavia, è necessario che
le persone siano infelici. Le persone felici, infatti, non hanno
interesse a consumare, nel senso che consumano solo ciò che è
strettamente necessario, e non acquistano cose per noia e frustrazione,
come accade oggi. Ma il mercato è proprio di questa frustrazione che ha
bisogno, se vuole crescere.
Dunque, io vedo la felicità come una cosa lontana dalla crescita e,
sotto molti punti di vista, in antitesi allo sviluppo. Più cresciamo
senza che ce ne sia bisogno, più siamo infelici. Il concetto di felicità
inteso come accumulo e consumo, comunque, è piuttosto
recente, e risale agli ultimi tre secoli, che non a caso sono i secoli
dell’industrializzazione. Prima, il concetto di beatitudine prevaleva
su quello di felicità che, per certi punti di vista, nemmeno esisteva.
Quando le risorse erano scarse, la frugalità era un valore. Ora che le
risorse sono ritenute abbondanti il consumo, invece, è diventato il
valore per eccellenza. Io propongo di tornare ad un modello frugale, è
vero, ma non può essere questa una mera nostalgia per una mitica età
bucolica. Al tempo stesso, però, è molto stupido e bugiardo ritenere che
non ci sia mai stata nella storia
dell’umanità un’era della frugalità conforme alla natura umana, ai suoi
ritmi e ai suoi bisogni. Anzi! Per centinaia di migliaia di anni, cioè
per la maggior parte del tempo della nostra storia,
l’uomo è stato cacciatore-raccoglitore, e lavorava 2-3 ore al giorno.
Il resto del tempo si interessava alle relazioni sociali e al gioco.
Dunque, noi oggi lavoriamo quasi il triplo dei nostri predecessori
per motivi legati alla crescita fine a se stessa, ma non perché ciò sia
necessario alla nostra sopravvivenza, e tanto meno per la nostra
felicità. Se la produzione agricola diminuisce secondo un modello di
decrescita, com’è possibile mantenere alti standard di quantità e
qualità alimentare? L’agricoltura è stata industrializzata a partire dal
Settecento. Prima della rivoluzione agricola e industriale c’erano dei
terreni comuni, cioè terreni di tutti, dove si pascolava il bestiame
(openfield). Poi, in Inghilterra sono arrivate le recinzioni
(enclosures) che hanno responsabilizzato i coltivatori, hanno aumentato
la superficie coltivabile e implementato l’ambizione del proprietario
della terra. Ciò ha determinato una grave crisi per quel modello contadino, basato sull’economia
di villaggio, il dono e la solidarietà. Si può recuperare qualcosa del
modello “openfiled” senza però gettare vie le conquiste fatte in questi
secoli in termini di progresso?
Ci sono molte proposte, ma la più credibile e percorribile è quella
dell’agricoltura biologica, perchè riduce al minimo gli sprechi e
consente anche di salvare i beni comuni dalla privatizzazione.
Per beni comuni intendo realtà materiali come ovviamente l’aria e
l’acqua, ma anche beni non legati alla natura, come i trasporti,
l’istruzione e la salute. La decrescita prende atto che lo sviluppo per
lo sviluppo non ha senso. Lo sviluppo ha senso solo se soddisfa
determinati bisogni, altrimenti diventa una religione: la religione
dell’economia.
Se guardo alla mia personale biografia devo ammettere che anch’io ero
caduto nell’errore di pensare che la crescita produttiva fosse sempre e
comunque positiva. Ho lavorato in Africa, ad esempio, e anche da
quell’esperienza mi sono reso conto che nel tentativo di
industrializzare l’Africa stavamo facendo lo stesso errore fatto in
Unione Sovietica, che infatti si è rivelato un errore grave perché quel
tipo di comunismo ha cercato di combattere il capitalismo sul suo stesso
terreno, e cioè quello della produttività fine a se stessa. Tra le
dottrine economiche elaborate negli ultimi secoli, marxismo e Keynes
rappresentano senza dubbio alternative che mi piacciono, se non altro
perché mirano a risolvere la disoccupazione, che è l’arma attraverso la
quale il capitale alimenta se stesso producendo precarietà, e dunque
ricatto (e il consumismo, che come detto si basa sull’infelicità e
l’insoddisfazione).
Detto questo, tuttavia, è più corretto pensare alla decrescita più
come ad una “mentalità”, ad un salto culturale, che non come ad
un’alternativa qualsiasi al modo di produzione. Il pensiero liberale si è
imposto come cambio di paradigma ed è basato su un’autoregolazione del
mercato che esiste solo nella fantasia, come quella di una “mano” che
non si vede. Concetti come “decrescita” e “frugalità” hanno a che fare
con il concetto di limite, un concetto che aveva un grande valore
nell’antica Grecia e che oggi è stato sostituito dal suo opposto:
l’illimitato. Per recuperare il limite come valore è necessario tornare
alle poleis greche, cioè al comunitarismo? Io sono un fiero avversario
dell’universalismo, cioè di quella ideologia secondo la quale ci sono
valori assoluti determinatisi in Occidente ed esportabili in tutto il
mondo. Pertanto, credo che le comunità locali siano una valida
risposta alla globalizzazione del mercato, che è la nuova veste assunta
dall’imperialismo, seppur più subdola e pericolosa di altre ideologie
del passato.
La Terra è un pianeta con un ecosistema finito, ma l’universo ci vene
raccontato come infinito, o perlomeno in espansione. Si può sostenere
che il concetto di limite sia dato da limiti umani che verranno a breve
superati, oppure anche l’universo ha dei limiti? La fisica non sostiene
affatto che l’universo sia infinito, ma a prescindere da questo non è
stato ancora detto come trasportare gli esseri umani, probabilmente
tutti, e cioè 7 miliardi, nel pianeta vivibile più vicino. Secondo
alcuni, il pianeta vivibile più vicino si trova a decenni di anni luce
dalla Terra, e non è nemmeno sicuro che sia idoneo alla nostra
sopravvivenza. Inoltre, nessuno è ancora in grado di dirci con quale
tipologia di carburante si potrà inaugurare una simile Arca della
salvezza. L’ipotesi transumanista non è percorribile al momento e,
direi, non è nemmeno auspicabile. Qual è lo stato dell’arte del progetto
sulla decrescita? Ad alti livelli il dibattito – anche in Francia
– è zero, nel senso che non se ne parla e non se ne vuol parlare tra
istituzioni e politici, e stessa cosa dicasi per il mondo accademico.
Diverso il discorso per l’ambito culturale, tra le associazioni e tra le
persone comuni. Temo però che a prescindere dal dibattito, il collasso
del sistema sia dietro l’angolo e che quindi poi il cestino, a cose
fatte, ci farà esclamare: “Troppo tardi, coglioni!”.
(Serge Latouche, dichiarazioni rilasciate in una recente conferenza a
Sernaglia della Battaglia, Treviso, moderata e condotta da Massimo
Bordin, che ha riportato il testo integrale della conversazione del suo
blog, “Micidial”, il 9 novembre 2018).
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sabato 17 novembre 2018
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