sabato 10 novembre 2018

DIARIO DALLA PALESTINA - Gerusalemme appartiene a tutti

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di Giorgio Pagano
Sono tornato a Gerusalemme e in Palestina dopo sette anni di lontananza, per seguire -per conto della Water Right Foundation- un progetto di cooperazione internazionale sul tema dell’acqua. Dall’aeroporto di Tel Aviv si arriva a Gerusalemme con l’autostrada 433: per metà passa in territorio israeliano, per metà in territorio palestinese occupato. Ai lati ci sono spesso postazioni militari, che controllano i pochi palestinesi che vogliono venire a Tel Aviv. Gli israeliani, invece, possono andare dove vogliono. Le macchine israeliane hanno targhe verdi, quelle palestinesi gialle. Di macchine con le targhe gialle non ne ho viste. Lungo la strada c’è la città di Modi’m: anch’essa per metà in territorio israeliano, per metà in territorio palestinese. Ma è abitata solo da israeliani.

Arrivato a Gerusalemme, ho visto con dolore la parte araba. È come se fosse stata stuprata. Davanti alla porta di Damasco, che porta al suk, sono state collocate due orribili postazioni militari israeliane. Soldatesse e soldati israeliani armati pattugliano ogni angolo di Gerusalemme est. Sono stato nella Città Santa tante volte in passato, tra il 2005 e il 2011: ciò che ho visto in questi giorni in quegli anni sarebbe stato impensabile. Il processo di “ebraicizzazione” della città è andato molto avanti. Il controllo di Israele sulla parte araba è progressivamente aumentato. Nelle vie principali della kasbah gli israeliani hanno comprato case, addobbate con le loro bandiere. Nessun palestinese potrebbe mai farlo a Gerusalemme ovest. Nel frattempo sono cresciute le differenze strutturali e sociali: solo il 10% circa del bilancio municipale è dedicato ai quartieri arabi.

La “spianata del Tempio”, che gli arabi definiscono Haram ash-Sharif (“il Nobile Recinto”), con il fulgore della Qubbat as-Sakhra (“la Cupola della Roccia”), è una delle meraviglie del mondo. Per rivederla mi sono alzato molto presto. Dopo una lunga fila, e controlli serrati di polizia e militari israeliani, sono riuscito finalmente a entrare. La passerella di legno che conduce alla spianata è grottesca. Transennata ai lati, chiusa sopra, circondata da filo spinato in alcuni punti, dà il senso di come il terzo luogo sacro dell’Islam -dopo La Mecca e Medina- sia stato accerchiato.

L’ARCHEOLOGIA TRA RELIGIONE E POLITICA

La decisione del Presidente americano Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele ha rappresentato una spinta potente a questo processo. E pone una grande domanda: una città che è stata per secoli “al centro del mondo” e della storia, la Città Santa delle tre fedi monoteistiche, la città che ebrei, cristiani e musulmani da secoli si contendono e nella quale, come figli di Abramo, si incontrano e si riconoscono, può appartenere in senso assoluto ed esclusivo a qualcuno? La risposta è no: non ce lo dice solo il diritto internazionale, ce lo dice una lunga storia. Nel suo bellissimo libro “Storia d’amore e di tenebra” lo scrittore israeliano Amos Oz ha definito quello israelo-palestinese come “lo scontro delle due ragioni”: due diritti legittimi, che vanno entrambi riconosciuti. Mai come a Gerusalemme la domanda “Chi ha ragione?” è urgente ma anche disperata, perché le ragioni sono due, non una.

Gerusalemme è al contempo Yerushalem, Jerusalem e al-Quds, è ebrea, cristiana e musulmana. Nulla come l’archeologia ce lo fa capire fino in fondo. In Palestina e in Israele ho conosciuto e visto all’opera molti archeologi. Nel 2011 mi recai in Israele, sul lago di Tiberiade, ospite degli amici francescani della Custodia di Terra Santa, che, prima sotto la guida dello scomparso Michele Piccirillo, poi di Stefano De Luca, si stavano occupando degli scavi archeologici nell’area. Le sponde del lago, dove si svolse gran parte della vita pubblica di Gesù, sono costellate di rovine imponenti. I francescani mi fecero camminare su un tratto di via lastricata dove era solito camminare Gesù, e mi fecero vedere la scoperta più importante, i resti dell’antico porto. Purtroppo gli israeliani hanno poi impedito gli scavi nelle aree attigue, che sono state destinate a un centro commerciale. Non lo hanno fatto solo per il business. L’archeologia, in Terrasanta, ha un forte legame con la religione, e quindi anche con la politica: Israele ha interesse ai resti delle presenze ebree, non a quelli delle altre religioni. Nella città vecchia di Gerusalemme la presenza, nel sottosuolo, di più memorie c’è più che altrove, metro per metro. Chiunque scavi, si trova di fronte al problema di Dio. Privilegiare le memorie ebree, quando ci sono, significa scegliere le più antiche, situate negli strati più profondi. E quindi significa la conseguente distruzione della Gerusalemme ellenistica, romana, bizantina, araba, crociata, mamelucca, ottomana ed europea-coloniale. E disconoscere una grande parte della storia della Città Santa. Ecco perché la città vecchia di Gerusalemme dovrebbe essere dichiarata “Patrimonio mondiale dell’umanità”.

IL “CENTRO DEL MONDO”

Gerusalemme è il “centro del mondo” perché per la tradizione ebraica il Tempio stava al centro del mondo, e perché i cristiani lo spostarono nella basilica del Santo Sepolcro, sul cui pavimento una pietra ancora esistente (anche se rimossa) segnava il punto che, secondo la tradizione e l’immaginario cosmologico medievale, Gesù avrebbe indicato come l’umbilicus mundi. Nei mappamondi dei secoli XI-XIII, e anche oltre, Gerusalemme figurava al centro del mondo. Per i cristiani nel coro della basilica c’era una piccola croce al centro di un circolo, che segnava il luogo in cui il corpo di Cristo, dopo la deposizione dalla croce, fu lavato, cioè la “Pietra dell’Unzione”. Ma queste erano le opinioni dei secoli andati. Ora Gerusalemme è il “centro del mondo” perché resta il centro della famiglia universale, il centro profondo della storia. E per questo non può appartenere a qualcuno in particolare: è di tutti.

LA STORIA. DAI GEBUSEI AI MUSULMANI

Non sappiamo ancora quando Gerusalemme fu fondata. Sappiamo che nel 1004 a.C. gli ebrei, che prima erano nomadi, si insediarono in Palestina conquistandola a scapito di coloro che la Bibbia chiama “gebusei”. Il conquistatore fu il re David; suo figlio Salomone costruì il Tempio a Gerusalemme, nella “spianata”. Poi la città fu conquistata dagli assiri, e Nabucodonosor distrusse il Tempio. Il popolo ebraico ebbe il permesso di tornare e ricostruì il Tempio nel 500 a. C. circa. Seguirono la conquista da parte di Alessandro Magno (la fase ellenistica) e poi da parte di Pompeo (la fase romana, durante la quale nacque Gesù). Anche i romani, con Tito, distrussero il Tempio, lo stesso giorno, il 29 agosto, in cui era stato distrutto da Nabucodonosor. Non fu mai più ricostruito. A Roma un grande altorilievo, sotto l’arco dedicato a Tito, commemora l’evento. Nel 325 d.C. Costantino iniziò a costruire la basilica della Resurrezione (Anàstasis): nacquero la Gerusalemme cristiana -una città-santuario- e il pellegrinaggio cristiano. Il centro religioso e culturale degli ebrei si spostò a Tiberiade. La croce di Cristo fu trasferita a Roma, nella basilica denominata appunto “di Santa Croce in Gerusalemme”; altre reliquie sono, sempre a Roma, nella basilica di San Giovanni in Laterano. Nel 614 d.C. i persiani occuparono e distrussero la città: la loro fu un’occupazione breve ma, almeno all’inizio, durissima. La crisi dell’impero persiano e di quello bizantino avvantaggiò l’offensiva arabo-musulmana. L’ingresso del califfo Umar in Gerusalemme, nel marzo-aprile del 638, scrive lo storico Franco Cardini, “è una delle più belle, commoventi ed esemplari pagine della storia del mondo”, che vede concordi tutte le fonti. Vestito di un umile abito da nomade, Umar entrò in città assicurando che “la vita e le proprietà dei cristiani sarebbero state rispettate e i loro Luoghi Santi lasciati intatti. Visitò la basilica dell’Anàstasis dove lo colse l’ora della preghiera canonica, che egli recitò piamente fuori dall’edificio per evitare che i musulmani ne rivendicassero la proprietà; chiese poi di essere accompagnato dove sorgeva il Tempio, si addolorò vedendolo ridotto a un deposito di rifiuti e prese umilmente, aiutato dai suoi, a ripulirlo (alcune fonti sostengono che obbligò anche il patriarca cristiano a fare altrettanto), finché non riuscì a far affiorare, sotto lo spesso strato di lordure, la santa roccia del Moria. Qui egli fece edificare subito un piccolo oratorio di legno”. Nella “spianata del Tempio” furono costruite il santuarioQubbat as-Sakhra (“la Cupola della Roccia”) e la moschea el-Aqsa (“la Lontana”). Gerusalemme diventò la terza Città Santa dell’Islam. Dal VII secolo agli inizi dell’XI Gerusalemme visse in pace: la città venne ordinata in quartieri, ognuno con i suoi santuari e i suoi pellegrini: cristiani, musulmani, ortodossi, armeni, ebrei. Una ripartizione della città che fu sostanzialmente rispettata, con la parentesi del regno crociato tra il 1099 e il 1187 e nonostante i numerosi conflitti, almeno fino alla guerra arabo-israeliana del 1967.

LA STORIA. DALLE CROCIATE ALLA FONDAZIONE DELLO STATO DI ISRAELE

Ai primi dell’XI secolo un califfo riconosciuto poi come eretico dallo stesso Islam, al-Hakim, si mise a perseguitare gli ebrei, i cristiani e i musulmani sunniti. Nel 1099 i crociati europei conquistarono Gerusalemme. Delle chiese costruite dalla Gerusalemme crociata ci resta la bellissima chiesa di Sant’Anna. I musulmani riconquistarono la città nel 1187, con Saladino: anch’egli, come Umar, rispettò i santuari originariamente cristiani ma restituì al culto musulmano le moschee che i cristiani avevano trasformato in chiese, prime tra tutte le due della “spianata”. Il Saladino favorì inoltre l’insediamento in Gerusalemme di una numerosa comunità ebraica, composta in gran parte da famiglie profughe da Francia e Inghilterra. Il governo dei sultani degenerò nel tempo, fino al declino e all’abbandono di Gerusalemme nel corso del Quattrocento. Nel 1516 cominciò l’era ottomana: Gerusalemme rimase per quattro secoli nelle mani dei sultani di Istanbul. Solimano “il Magnifico” valorizzò molto Gerusalemme: fu “un’età d’oro” per la città. Ma l’apertura e la simpatia si indirizzarono più verso gli ebrei e i cristiani ortodossi che verso i cattolici. Da allora a oggi le chiavi della basilica del Santo Sepolcro sono affidate a due antiche famiglie arabe musulmane di Gerusalemme. Tra Settecento e Ottocento la città conobbe un nuovo periodo di abbandono, fino alla svolta di Ibrahim Pascià, egiziano, che avviò Gerusalemme verso la modernità (quarto decennio del XIX secolo); e poi al “Grande gioco” tra le potenze colonialiste occidentali per spartirsi il regime ottomano ormai sfasciato, alla fine del quale, nel 1920, la Palestina fu affidata a un “mandato” britannico. Era intanto nato il movimento sionista. Proseguiva l’esodo degli ebrei verso la Terrasanta, e il sionismo si reggeva su un malinteso di fondo: l’idea che la Terrasanta fosse “una terra senza gente per una gente senza terra”. Ma la gente palestinese c’era, eccome. Dal 1929 crebbero sempre più gli scontri tra britannici, ebrei e arabi. Dal 1937 si cominciò a parlare di due Stati, uno ebraico e uno arabo, ma senza successo. Gli ebrei crescevano di continuo, anche per la nascita del nazismo. L’esodo ebraico proseguì e si ampliò dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Shoah. Il 14 maggio 1948 nacque lo Stato di Israele: per i palestinesi quella data è la Nakba (“Catastrofe”). La battaglia attorno e dentro Gerusalemme si concluse con l’estromissione degli ebrei dalla città vecchia e l’attestarsi di una linea di confine smilitarizzata. Il 9 novembre 1949 l’Onu votò una risoluzione che confermava a Gerusalemme lo status di città internazionale. Intanto il governo di Israele cominciò a spostare la capitale da Tel Aviv a Gerusalemme: ma la comunità internazionale non accettò e continuò a inviare a Tel Aviv i suoi ambasciatori. Il regno di Transgiordania si annetté Gerusalemme est e l’area a ovest del Giordano, trasformandosi in Regno di Giordania.

LA STORIA. DALLA GUERRA DEL 1967 A OGGI

Dopo la “Guerra dei Sei Giorni” (5-10 giugno 1967) l’intera Gerusalemme si trovò sotto il controllo di Israele, che vi trasferì definitivamente la sua capitale, nonostante le risoluzioni contrarie dell’Onu. Subito dopo fu distrutto il quartiere musulmano“Mughrabi”, con le sue moschee e madrase di età saladiniana. Israele cominciò la politica degli insediamenti dei coloni nei territori occupati e di “ebraicizzazione” della città vecchia, con l’espulsione dei palestinesi e la loro sostituzione con residenti ebrei. Anche in questo caso la condanna dell’Onu rimase lettera morta. I palestinesi reagirono con la prima e la seconda Intifada. Nacque il movimento islamista Hamas, e la Resistenza palestinese da “nazionale” diventò in parte “religiosa”: i governi israeliani puntarono scientemente a rafforzare Hamas, per dividere e indebolire i palestinesi. Il resto è storia di oggi: una situazione che sembra senza via d’uscita. La questione di Gerusalemme è centrale: uno Stato palestinese senza Gerusalemme est come capitale non avrebbe senso. Questo obbiettivo si scontra con la dichiarazione unilaterale israeliana di Gerusalemme eterna ed indivisa sua capitale, e con la problematica relativa alla “spianata del Tempio”, che ospita da 1300 anni due luoghi di culto musulmano ed è di proprietà musulmana, ma che Israele considera “sua” perché l’area coincide con quella dell’antico Tempio. C’è un settore della società israeliana -una parte della destra nazionalista, religiosa e laica- che si batte per la ricostruzione del Tempio al posto delle due moschee. Il primo obbiettivo è l’introduzione nella “spianata” del sistema adottato da Israele dopo il massacro compiuto da un colono israeliano (25 febbraio 1994) di 29 palestinesi alla Tomba dei Patriarchi di Hebron: la spartizione del sito religioso, con due sezioni, una musulmana, una ebraica.

UN ALTRO COLPO FATALE ALLA PACE

La decisione di Trump viola il diritto internazionale e le decisioni dell’Onu, rende superfluo il negoziato per i due Stati e favorisce le tendenze estremiste e fondamentaliste nel mondo arabo. Obama al Cairo nel 2009 disse: “Sento in cuor mio la disperazione del popolo palestinese ancora senza terra e senza patria”. Ma non riuscì a combinare alcunché. Trump ne ha preso atto, ha rinunciato a mediare tra le parti e ha creato una situazione in cui Israele è sempre più forte e la debole Autorità Nazionale Palestinese esaurisce di fatto la sua funzione. Naturalmente la speranza è che da tutto questo, per paradosso, la questione palestinese riprenda slancio e forza. In fondo anche Israele si confronta oggi con una sfida da cui dipende la propria esistenza: non può controllare milioni di palestinesi in uno Stato di apartheid senza compromettere la propria natura ebraica e democratica. La fine della Palestina è anche la fine di Israele, di come Israele si era pensato. Ma è una speranza flebile.

DA GERUSALEMME UN PRIMO NO A NETAYAHU

Tra i fattori, sia pur piccoli, di speranza c’è il fatto che il Likud, il partito del premier israeliano Benjamin Netanyahu, è uscito sconfitto dalle elezioni amministrative tenutesi il 30 ottobre nelle principali città del Paese. I laburisti hanno vinto a Tel Aviv e ad Haifa. A Gerusalemme, invece, nessuna forza ha raggiunto il 40% e si andrà, il 13 novembre, al ballottaggio tra un candidato laico e un candidato esponente della destra religiosa. Il candidato del Likud non è nemmeno arrivato al ballottaggio. Ma la situazione non è per nulla confortante. I palestinesi di Gerusalemme, il 30% degli aventi diritto al voto, hanno boicottato le elezioni, e gli ultra-ortodossi hanno 17 seggi su 31 nel Consiglio municipale. È davvero difficile bloccare il processo di “ebraicizzazione” della Gerusalemme araba.

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