“La legalità formale è il paravento dietro il quale si nascondono i tecnocrati e chi non ha a cuore i diritti dei cittadini”. Parla l’assessore ai beni comuni di Napoli, autore di una delibera che valorizza le esperienze di gestione diretta di spazi pubblici abbandonati, forzando la legalità in nome dei valori costituzionali, secondo l’insegnamento di Stefano Rodotà. Un regolamento che giuristi ed amministratori di mezza Europa, tra cui Ada Colau a Barcellona, stanno studiando.
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micromega intervista a Carmine Piscopo di Giacomo Russo Spena
Si scrive Carmine Piscopo, si legge delibera ex Asilo Filangieri. Un regolamento che valorizza le esperienze di gestione diretta di spazi pubblici abbandonati che giuristi ed amministratori di mezza Europa stanno studiando. Ed emulando. “Se la Costituzione secondo l’insegnamento di Stefano Rodotà e di Paolo Maddalena è il fulcro, le città e le collettività, nella loro diversità, rappresentano l’architettura costituzionale del nostro Paese”, afferma l’assessore di Napoli il quale ricorda come i nodi da sciogliere siano molti, malgrado la strada in materia sia già segnata: “Il dibattito che si va diffondendo in Italia indica con chiarezza principi giuridici, etici, civili, politici e amministrativi che individuano nel bene comune una scelta precisa e il superamento della nozione di proprietà”.
Lei, in veste di assessore, ha dato attuazione alla delibera Ex Asilo Filangieri: un regolamento comunale che tende a valorizzare il recupero degli spazi abbandonati nella città. Ci può spiegare in che consiste tale delibera che non tutti conoscono?
Con la delibera 400 del 2012, l’Amministrazione ha individuato l’immobile denominato ex Asilo Filangieri quale luogo che assicurasse l’accessibilità e la fruizione del bene a cittadini, associazioni, gruppi e fondazioni, nell’ambito della cultura, intesa quale bene comune e diritto fondamentale all’espressione della collettività. Con tale delibera si garantiva lo svolgimento di percorsi, processi culturali, incontri, convegni, manifestazioni e altre espressioni artistico-culturali attraverso le quali, in linea con lo Statuto del Comune, si affermasse il riconoscimento della cultura quale bene comune, da realizzare in maniera condivisa e partecipata tra le pubbliche istituzioni, la comunità di riferimento, la collettività locale e la cittadinanza attiva, nonché quale elemento di rivitalizzazione del territorio, nell’ambito di un processo di sviluppo sociale e culturale della città. A tale scopo potevano essere utilizzati i locali siti all’interno del predetto immobile.
Il Comune ha anche coniato il termine di “usi civici”, ovvero?
Nel 2015 l’Amministrazione ha approvato una nuova delibera con la quale si raggiungeva un nuovo significativo obiettivo nel processo avviato con la delibera del 2012: l’inserimento del complesso nello schema concettuale e giuridico ispirato agli usi civici; la presa d’atto del disciplinare d’uso approvato dalle assemblee degli “abitanti” e della possibilità di iniziative di autosostentamento per garantire la disponibilità dei luoghi necessari allo sviluppo della collettività dei lavoratori dell’immateriale.
Questo per quanto concerne i beni di proprietà pubblica, ma l’amministrazione ha predisposto una bozza di regolamento, approvato in giunta, che sarà sottoposto al vaglio del Consiglio comunale, in cui si parla anche di beni privati. Siamo ad azioni di riappropriazione? È così?
Per quanto attiene il percorso per la realizzazione di azioni dirette all’utilizzo di beni di proprietà privata percepiti quali beni comuni, seguiamo il principio sancito dalla Costituzione del prevalente interesse collettivo (l’articolo 41 della Carta tutela la proprietà privata soltanto se non è in contrasto con l’utilità sociale). Si basa sulla considerazione che il recupero e la riutilizzazione dei beni in questione possa rappresentare una valida occasione sia per riqualificare spazi urbani degradati, restituendo ad essi decoro e identità, sia per creare opportunità di occupazione e di impresa, ma anche di attività e dinamicità sociale, culturale, sportiva attraverso il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini, come singoli o organizzati in associazioni, comitati o altre forme di aggregazione spontanea.
Si chiama esproprio ed è un reato...
Parliamo di specifici spazi, ad esempio di immobili destinati ad attività industriali e commerciali che oggi non sono più utilizzati per la congiuntura economica, per le evoluzioni del mercato o per l’inadeguatezza tecnologica o normativa. O di edifici a destinazione abitativa mai completati o abbandonati per incuria o costi di manutenzione e ristrutturazione sproporzionati al valore. O, ancora, di terreni incolti o incoltivabili per motivi economici o ambientali o per le troppo ridotte dimensioni frutto di divisioni ereditarie o di interventi espropriativi.
Mi scusi, se gruppi di cittadini – associazioni, movimenti, studenti, precari, disoccupati – occupano posti vuoti, privati o pubblici non si sta violando la legge? Non andrebbe chiesto lo sgombero?
La procedura definita dall’Amministrazione comunale per l’individuazione e la gestione dei beni comuni ha una sua chiara riconoscibilità. In questo caso la redditività sociale diviene un principio di riferimento che viene monitorato dall’Amministrazione. In altri casi, chi si propone di gestire il bene comune per le finalità stabilite, può dare vita ad iniziative economiche, compatibili con il bene, che garantiscano l’autosostenibilità del processo. Tutto ciò, in linea con un dibattito etico, giuridico, civile, che sta attraversando l’Italia, che trova fondamento nella Carta costituzionale. Non si tratta, dunque, di un sistema di assegnazioni, quanto, piuttosto, di una restituzione alla collettività di beni che le appartengono. Naturalmente tutto ciò va fatto procedendo attraverso monitoraggi della pubblica amministrazione, che è parte del processo, e regolamenti di uso civico.
E chi decide che quel gruppo sta producendo “utilità sociale”? Quali sono i criteri di giudizio? Chi li stabilisce?
Questo ruolo di supervisione e di accompagnamento, per le realtà esistenti e per quelle che si vanno a formare, è svolto dall’Osservatorio permanente dei beni comuni, nato nel 2013 e recentemente in via di rinnovo. Vi è, inoltre, come previsto dalle regole della pubblica amministrazione, un controllo dell’Ufficio, al quale è stata assegnata, tra l’altro, questa funzione.
Gli insegnamenti del giurista Stefano Rodotà, che in vita è stato uno dei padri spirituali del concetto di beni comuni, sono stati presi come modello?
Siamo partiti proprio dalla categoria giuridica elaborata dalla Commissione Rodotà per la modifica di norme del codice civile in materia di beni pubblici (2007), nella quale si individuavano come beni comuni, essenzialmente, le risorse naturali e le zone paesaggistiche tutelate, nel tentativo di restituire alle collettività il ruolo che la carta costituzionale ad essi attribuisce. Dall’acqua pubblica alla valorizzazione sociale del patrimonio, alla gestione partecipata dei beni comuni, alla difesa dei diritti essenziali della persona, alla tutela del territorio, Napoli non solo si riconosce nei principi fondamentali della Costituzione, quanto, attraverso atti e delibere costituzionalmente orientati, nella sua attuazione. Ha così dato concretezza a un dibattito etico, civile, giuridico, ambientale, incentrato sulle forme d’uso del patrimonio per il prevalente interesse sociale. La gestione dei beni comuni, intesi quali beni direttamente collegati alla sfera dei diritti fondamentali, è, perciò, meritevole di tutela al di là della loro titolarità formale, pubblica o privata. Quindi i beni comuni, sottratti alla logica esclusiva del mercato, hanno nella inclusività e nella partecipazione la loro cifra politica.
Siamo al cambiamento che si attua col diritto e che assume la Costituzione come bussola. Un concetto che si differenzia non poco da chi si fa paladino del legalitarismo, non trova?
La legalità formale è il paravento dietro il quale si nascondono i tecnocrati e coloro che non hanno a cuore i diritti dei cittadini, in particolare delle fasce economicamente più deboli. Legalità formale/giustizia sostanziale rappresenta una dicotomia che consente ad un sistema di potere antidemocratico e repressivo di negare la giustizia in nome di regole formali, spesso incomprensibili alla maggioranza delle persone. Ciò che innanzitutto va tutelato sono i diritti essenziali delle persone.
Nelle città che amministra, il M5S ipotizza l’idea del bando pubblico in nome della trasparenza per assegnare gli spazi e non attuerebbe mai una delibera come quella Filangieri... Che ne pensa?
I bandi sono la regola di tutte le amministrazioni pubbliche. Il Comune di Napoli prevede ed effettua regolarmente bandi sugli immobili da assegnare. Ma nel 2016 la Giunta comunale ha individuato il primo nucleo di beni al quale, in attuazione del regolamento approvato dal Consiglio comunale, veniva riconosciuto la peculiarità di luoghi di sperimentazione civica. Esperienze già esistenti nel territorio comunale, portate avanti da gruppi e/o comitati di cittadini secondo logiche di autogoverno e di sperimentazione della gestione diretta di spazi pubblici, dimostrando, in tal maniera, di percepire quei beni come luoghi suscettibili di fruizione collettiva e a vantaggio della comunità locale, esperienze che nella loro espressione fattuale si sono configurate e si configurano come “case del popolo”, ossia luoghi di forte socialità, elaborazione del pensiero, di solidarietà intergenerazionale e di profondo radicamento sul territorio. A partire, infatti, dalla Convenzione Europea del Paesaggio (Firenze 2000), l’identità di un luogo non è data da valori astratti, quanto, piuttosto, dal riconoscimento dei valori che le collettività di riferimento danno di quei medesimi luoghi.
Insisto, rispetto al M5S non c’è una concezione diversa di legalità, ma anche di “bene comune”?
Si tratta di sperimentazioni che i sindaci delle città amministrate dal M5S avevano dichiarato di voler intraprendere e portare avanti. Dall’acqua pubblica, alla definizione dei pesi nella sfera delle decisioni, alla progettazione condivisa con il territorio, alla gestione pubblica partecipata dei beni comuni. Purtroppo, al di là di tante affermazioni, non possiamo dire di aver registrato concrete attuazioni su tali terreni.
Ha fatto incontri con assessori di altre città? Sa se qualcuno vuole ricalcare il modello della sua delibera in Italia o, persino, in Europa?
In questi anni, la delibera sull’ex Asilo Filangieri, come la
delibera sui principi e il regolamento dei beni comuni, hanno trovato
vasta eco tra i giuristi, i tecnici e gli amministratori pubblici, non
solo italiani, come nel caso delle città di Palermo, Torino, Barcellona e
Madrid. È stata tradotta in diverse lingue, ispirando e rafforzando un
complesso di studi e ricerche europee. Vale la pena, ancora, di
ricordare quanto l’ex Asilo Filangieri, nella sua espressione fattuale
di collettività culturale che muta continuamente, abbia ricevuto premi e
riconoscimenti culturali, e, di recente, anche un finanziamento del
MIBACT per un progetto da loro presentato. Alcune città si sono
dimostrate particolarmente interessate a queste teorie e alle nostre
prime sperimentazioni. Credo che una maggiore condivisione di queste
esperienze non possa che giovare alla tenuta sociale e alla tenuta
democratica delle collettività interessate, in specie nei momenti di
crisi non solo economica.
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