Ho visto questo segno di disperazione nella lettera demenziale, camuffata da scherzo lugubre, inviata il 13 luglio scorso (resa nota dal Corriere della Sera
il 18 luglio) ad Adachiara Zevi, personaggio internazionale della
critica d’arte contemporanea, nota e autorevole come ideatrice e
realizzatrice dellaBiennale Internazionale “Arte in Memoria” (allestita nella Sinagoga di Ostia Antica) e come organizzatrice in Italia delle “Pietre d’inciampo” (ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig).
Pietra d’inciampo è un sampietrino di ottone dorato collocato di fronte alla casa in cui ha abitato una persona o famiglia deportata a norma delle leggi razziali (più giustamente dette razziste), con l’indicazione del nome, della data della deportazione, della data e luogo della morte nell’universo nazista e fascista di uno sterminio, bene organizzato con la complicità di collaborazione e silenzio, come ci raccontano, anche in questi giorni, con calma e precisione Liliana Segre al Senato e Lia Levi nel suo bellissimo romanzo Questa sera è già domani.
C’è anche una legge sul “Giorno della Memoria” per la Shoah, 27 gennaio, abbattimento dei cancelli di Auschwitz (la legge 211, entrata in vigore nell’anno 2000) e tutto ciò offre un contesto che dovrebbe essere molto nitido e molto forte al lavoro fervido di Adachiara Zevi, che attraverso “Arte in Memoria” e le pietre di inciampo ha cambiato esperienza e conoscenza di molti italiani sul loro, sul nostro passato.
Ma proprio qui io vedo il segno e il senso del furore che, a cicli sempre più stretti e più crudi, si solleva contro personaggi (specialmente se noti e creativi) che impediscono la polverizzazione della memoria. Penso a quel gruppo di Como, 17 camerati entrati arbitrariamente in una casa della città per obbligare un gruppo di persone, al lavoro per i migranti, ad ascoltare un loro demenziale documento. È stato un atto in apparenza inutile e penoso che però ha segnalato all’orda anti immigrazione che si poteva fare, e che si stava consolidando in un rapporto di lavoro fra vecchio fascismo (basato su disprezzo e persecuzione) e nuovo nazionalismo, fondato sulla chiusura dei porti e delle frontiere ed esaltato dal grido “la pacchia è finita”. Dove “pacchia” significa aggrapparsi, col bambino morto, ai relitti di una barca distrutta con soldi italiani da banditi detti “guardia costiera libica”, in un’operazione un po’ rude organizzata affinché nessuno si illuda che “la pacchia” di sopravvivere, possa ancora durare.
Ora mettetevi nei panni di un vero discepolo di Hitler, disturbato dall’attivismo di “Arte in Memoria”, della diffusione delle pietre d’inciampo, del continuo lavoro di collegare il presente al passato, affinché tutti si rendano conto del senso di ciò che è avvenuto allora e che potrebbe avvenire adesso. Questo discepolo di Hitler, non può non vedere in Josepha dallo sguardo perduto, in acqua accanto al bambino morto, la rappresentazione africana della Shoah in mezzo al Mediterraneo. Ma proprio questo lo stimola a insultare la docente ebrea che ha riempito Roma di pietre di inciampo e i musei italiani di “Arte in Memoria”.
Il fascista sa di essere minacciato dalla memoria. Ma constata di essere circondato da camerati che gridano, come lui intende gridare alla Zevi, “la pacchia è finita”. E mentre si moltiplicano, intorno a Brescia e intorno a Rimini le ronde miste di fascisti e leghisti, non sembra vero a certi seguaci del nazionalsocialismo di sapere che non corrono rischi nel dire agli ebrei, ciò che viene detto agli africani: “Noi, razza bianca e cristiana, siamo liberi finalmente di manifestare il nostro sano e assoluto suprematismo”.
Mai dimenticare che uno dei punti fondamentali del manifesto della razza era “gli ebrei non sono italiani, sono stranieri e come tali un pericolo sia politico che religioso”. Fontana, il nuovo presidente leghista della Lombardia, ha esaltato la “razza italiana” nel suo primo intervento elettorale.
Ovvio che il nazifascista che ha scritto ad Adachiara Zevi (a nome di Hitler) il suo dispiacere per non aver potuto partecipare personalmente allo sterminio, sa che il clima è giusto per simili parole. Invece di essere preso per pazzo, sarà accettato come un camerata delle ronde, o uno scafista diventato guardia costiera libica, a cura del governo italiano deciso a porre fine alla “pacchia” che consente ai profughi di sopravvivere.
Pietra d’inciampo è un sampietrino di ottone dorato collocato di fronte alla casa in cui ha abitato una persona o famiglia deportata a norma delle leggi razziali (più giustamente dette razziste), con l’indicazione del nome, della data della deportazione, della data e luogo della morte nell’universo nazista e fascista di uno sterminio, bene organizzato con la complicità di collaborazione e silenzio, come ci raccontano, anche in questi giorni, con calma e precisione Liliana Segre al Senato e Lia Levi nel suo bellissimo romanzo Questa sera è già domani.
C’è anche una legge sul “Giorno della Memoria” per la Shoah, 27 gennaio, abbattimento dei cancelli di Auschwitz (la legge 211, entrata in vigore nell’anno 2000) e tutto ciò offre un contesto che dovrebbe essere molto nitido e molto forte al lavoro fervido di Adachiara Zevi, che attraverso “Arte in Memoria” e le pietre di inciampo ha cambiato esperienza e conoscenza di molti italiani sul loro, sul nostro passato.
Ma proprio qui io vedo il segno e il senso del furore che, a cicli sempre più stretti e più crudi, si solleva contro personaggi (specialmente se noti e creativi) che impediscono la polverizzazione della memoria. Penso a quel gruppo di Como, 17 camerati entrati arbitrariamente in una casa della città per obbligare un gruppo di persone, al lavoro per i migranti, ad ascoltare un loro demenziale documento. È stato un atto in apparenza inutile e penoso che però ha segnalato all’orda anti immigrazione che si poteva fare, e che si stava consolidando in un rapporto di lavoro fra vecchio fascismo (basato su disprezzo e persecuzione) e nuovo nazionalismo, fondato sulla chiusura dei porti e delle frontiere ed esaltato dal grido “la pacchia è finita”. Dove “pacchia” significa aggrapparsi, col bambino morto, ai relitti di una barca distrutta con soldi italiani da banditi detti “guardia costiera libica”, in un’operazione un po’ rude organizzata affinché nessuno si illuda che “la pacchia” di sopravvivere, possa ancora durare.
Ora mettetevi nei panni di un vero discepolo di Hitler, disturbato dall’attivismo di “Arte in Memoria”, della diffusione delle pietre d’inciampo, del continuo lavoro di collegare il presente al passato, affinché tutti si rendano conto del senso di ciò che è avvenuto allora e che potrebbe avvenire adesso. Questo discepolo di Hitler, non può non vedere in Josepha dallo sguardo perduto, in acqua accanto al bambino morto, la rappresentazione africana della Shoah in mezzo al Mediterraneo. Ma proprio questo lo stimola a insultare la docente ebrea che ha riempito Roma di pietre di inciampo e i musei italiani di “Arte in Memoria”.
Il fascista sa di essere minacciato dalla memoria. Ma constata di essere circondato da camerati che gridano, come lui intende gridare alla Zevi, “la pacchia è finita”. E mentre si moltiplicano, intorno a Brescia e intorno a Rimini le ronde miste di fascisti e leghisti, non sembra vero a certi seguaci del nazionalsocialismo di sapere che non corrono rischi nel dire agli ebrei, ciò che viene detto agli africani: “Noi, razza bianca e cristiana, siamo liberi finalmente di manifestare il nostro sano e assoluto suprematismo”.
Mai dimenticare che uno dei punti fondamentali del manifesto della razza era “gli ebrei non sono italiani, sono stranieri e come tali un pericolo sia politico che religioso”. Fontana, il nuovo presidente leghista della Lombardia, ha esaltato la “razza italiana” nel suo primo intervento elettorale.
Ovvio che il nazifascista che ha scritto ad Adachiara Zevi (a nome di Hitler) il suo dispiacere per non aver potuto partecipare personalmente allo sterminio, sa che il clima è giusto per simili parole. Invece di essere preso per pazzo, sarà accettato come un camerata delle ronde, o uno scafista diventato guardia costiera libica, a cura del governo italiano deciso a porre fine alla “pacchia” che consente ai profughi di sopravvivere.
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