Evidence indicates that the tightening of
restrictive policies experienced in Italy after 2010/11 did not lead to
fiscal consolidation, while they contributed to increase debt-to-GDP
ratio by curbing aggregate demand. Particularly, budget cuts occurred in
health and education. On the contrary, we argue that expansionary
measures may lower the debt ratio by increasing real output.
Al contrario, in questa breve nota proveremo a mostrare per mezzo di
alcuni dati di contabilità nazionale che i tagli alla spesa e l’aumento
della pressione fiscale ci sono stati, e che proprio per questo il rapporto debito/PIL è aumentato.
Il fondamento economico per cui le
politiche di austerità fiscale possono in molti casi peggiorare ciò che
dicono di voler migliorare, ossia il rapporto debito/PIL, risiede nel
fatto che, per via del moltiplicatore fiscale,[1]
la riduzione di debito pubblico – attuata ad esempio grazie ad un
avanzo di bilancio – può causare una riduzione del denominatore del
rapporto (il reddito) di proporzione maggiore della riduzione del
numeratore (il debito pubblico). In altre parole, un consolidamento
fiscale, inteso come taglio della spesa o aumento delle tasse, può far
crescere il rapporto debito/PIL invece di ridurlo.[2]
Per queste ragioni il principio del bilancio in pareggio, introdotto in
Costituzione nel 2012 ed in linea con le linee di politica economica
dettate dal Fiscal Compact,
non è virtuoso ogni qual volta l’economia si trovi in una fase ciclica
negativa o comunque vi siano nel Paese lavoro e capacità produttiva (gli
impianti delle imprese) inutilizzati o sotto-utilizzati.[3]
In tali circostanze, infatti, perseguire il bilancio in pareggio
tagliando la spesa equivarrebbe – per parafrasare metafore poco
appropriate ma molto usate nella recente campagna elettorale – ad un
padre di famiglia indebitato che rinunciasse ad andare a lavorare per
risparmiare sul costo del trasporto verso il posto di lavoro.
Quando il PIL diminuisce, come accaduto in Italia e in altri Paesi dopo il 2008 a causa di una crisi
‘importata’ e causata da eventi esterni al nostro sistema economico, il
disavanzo pubblico cresce fisiologicamente come conseguenza della
diminuzione del PIL, e quindi della diminuzione di tutte quelle entrate
fiscali che sono proporzionali al reddito (come IVA, IRPEF e IRAP).
Inoltre, altrettanto fisiologicamente aumentano le spese per i
cosiddetti ‘ammortizzatori sociali’, in particolare i sussidi di
disoccupazione e la cassa integrazione. Tale aumento del disavanzo ha
però una funzione di stabilizzazione del reddito, tende cioè a ridurre
gli effetti negativi della crisi. Se in tali circostanze si cerca di ridurre
il disavanzo tagliando la spesa o aumentando le tasse (soprattutto sui
redditi più bassi), ciò riduce ulteriormente la domanda aggregata e
quindi la produzione, generando ulteriori effetti negativi sulle entrate
fiscali e aumento delle spese per ammortizzatori sociali con effetti perversi
sul rapporto debito/PIL (Ciccone 2012; Nuti 2013), come ormai
confermato anche da molta letteratura economica internazionale (Fatás
and Summers 2017).
Dopo questo quadro introduttivo sui
possibili effetti reali delle politiche di austerità fiscale in tempi di
recessione, diamo uno sguardo ai dati relativi al caso italiano. Il
grafico 1 mostra l’andamento del PIL: c’è un primo crollo dovuto alla
crisi finanziaria internazionale del 2008, seguito da un avvio di
ripresa, poi di nuovo una caduta verticale di circa 75 miliardi (in
termini reali, cioè al netto degli effetti dell’inflazione) che è invece
largamente attribuibile alle politiche di austerità varate in seguito
alla ‘crisi degli spread’ del 2011 e fortemente volute dalle istituzioni
europee. Occorre comunque notare che gli effetti sul PIL dei tagli alla
spesa pubblica e dell’aumentata pressione fiscale sono stati
parzialmente mitigati dalla costante crescita delle esportazioni,
passate dai circa 404 miliardi del 2010 ai 438 del 2013 (dati a prezzi
costanti).[4]
Grafico 1. PIL italiano, miliardi di Euro costanti (2010), fonte: OECD Economic Outlook
Dal lato delle entrate tributarie, il gettito fiscale complessivo è aumentato in termini reali di 18 miliardi dal 2011 al 2012 (fonte: OECD),[5]
a testimonianza del fatto che le politiche di austerità non hanno solo
riguardato i tagli alla spesa, bensì anche l’aumento della pressione
fiscale, con impatto negativo sulla domanda aggregata.
Dal lato della spesa, quella complessiva
– comprendente tutti i servizi pubblici (sanità, istruzione, etc.) e la
protezione sociale (pensioni, sussidi di disoccupazione) ma non gli investimenti – diminuisce
in termini reali di 16 miliardi tra il 2011 e il 2015, con una
flessione ancor più accentuata (-26,5 miliardi) dal massimo raggiunto
nel 2009 – si veda grafico 2. Oltre alla spesa corrente, gli
investimenti pubblici (strade, infrastrutture, etc.), che nel 2009
avevano fatto registrare un aumento rispetto agli anni precedenti,
registrano un vero e proprio crollo (-15 miliardi nel 2013 rispetto al
2008; -20 miliardi rispetto al 2009; – 10,5 miliardi dal 2011), per poi
stabilizzarsi a tale livello più basso dal 2013 – si veda grafico 3.
Grafico 2. Spesa pubblica complessiva, miliardi di Euro costanti (2010), fonte: OECD.Stat (COFOG)
Grafico 3. Investimenti pubblici, miliardi di Euro costanti (2010), fonte: OECD.Stat (COFOG)
Provando inoltre a disaggregare la spesa corrente (come si vede nei grafici 4 e 5)[6]
i servizi che subiscono la riduzione maggiore sono la sanità, che
registra un taglio in termini reali di 8,5 miliardi dal 2011 al 2013
(pari al -7%), e l’istruzione, con un’ulteriore sforbiciata di 2,6
miliardi nello stesso periodo (all’interno della ben più prolungata
stagione di tagli che ha comportato una riduzione del 20%, pari a circa
15 miliardi, tra il 2007 e 2015). Calano in termini reali anche le spese
per servizi pubblici (-17 miliardi dal 2012 al 2015) e quelle per
affari economici (-4 miliardi dal 2011 al 2015). Aumenta, seppur
moderatamente, la spesa per protezione sociale, che data l’elevata
disoccupazione avrebbe dovuto far registrare una crescita ben più
accentuata, come invece accaduto nel biennio 2008/2009 a ridosso della
prima fase di crisi. L’aumento delle spese per ammortizzatori sociali è
stato evidentemente compensato dalla riforma pensionistica
(Monti-Fornero), inseritasi nel più ampio affresco delle politiche di
consolidamento fiscale, che ha allungato la permanenza al lavoro dei
lavoratori più anziani causando una crescita repentina della
disoccupazione giovanile (che tra il 2011 e il 2014 passa dal 20,5% al
30%), in quanto innalzando l’età pensionabile si è bloccato per almeno
un biennio il fisiologico ricambio dovuto alla sostituzione dei
lavoratori in uscita per raggiunti limiti di età con giovani in entrata
sul mercato del lavoro (si veda grafico 6).
Grafico 4 e 5. Spesa pubblica per funzione di spesa, miliardi di Euro costanti (2010), fonte: OECD.Stat (COFOG)
Complessivamente, dunque, il taglio di
spesa tra servizi, protezione sociale e investimenti pubblici è stato di
46,5 miliardi tra 2009 e 2015, di cui 26,5 a partire dal 2011. Come
anticipato, nello stesso periodo si è anche avuto un aumento della
pressione fiscale legato, tra l’altro, all’aumento dell’IVA (avvenuto
tramite due revisioni a rialzo delle aliquote, nel 2011 e nel 2013, per
cui la massima è passata dal 20% al 22%), un tipo di tassazione che
tende a incidere maggiormente su chi ha redditi bassi.
Grafico 6. Tasso di disoccupazione giovanile (15-29 anni), fonte: Istat
E il debito pubblico? Il grafico 7
mostra l’andamento del rapporto debito/PIL che aumenta a seguito della
crisi del 2008, mostra un inizio di stabilizzazione e poi si impenna
ulteriormente tra il 2011 e il 2014 (passando dal 116 al 132%) per poi
stabilizzarsi. In altri termini: le politiche fiscali restrittive hanno
contribuito ad aumentare il rapporto tra debito e PIL, proprio
quell’indicatore che – stando alle dichiarazioni – si prefiggevano di
ridurre. Tuttavia, alla luce di quanto esposto in questa nota, questo
dato non dovrebbe sorprendere in quanto il consolidamento fiscale è costoso in termini di perdite di produzione. Inoltre, se si considera che molta letteratura economica ha recentemente sostenuto la state dependency
dei moltiplicatori fiscali – ovvero, il fatto che tendano ad essere più
elevati nelle fasi recessive che in quelle espansive (si veda ad
esempio il contributo di Auerbach e Gorodnichenko 2012) – tanto più
elevati risultano moltiplicatore e rapporto debito/PIL, tanto
maggiore è la probabilità che il consolidamento fiscale abbia l’effetto
perverso di far aumentare il rapporto fra debito pubblico e PIL (Nuti 2013). Nel periodo in esame, il caso italiano sembra piuttosto coerente con queste considerazioni.
Grafico 7. Rapporto debito pubblico/PIL (%), fonte: OECD Economic Outlook
In conclusione, l’evidenza empirica
suggerisce, al contrario di quanto spesso sostenuto nel dibattito
economico, che le politiche di austerità hanno effettivamente trovato
applicazione in Italia dopo il 2011, e che hanno contribuito a
peggiorare il quadro recessivo. Per queste ragioni è doveroso evitare
facili ma erronei parallelismi tra un sistema Paese ed un agente privato
(una famiglia), considerando erroneamente equivalenti, sia nella loro
narrazione che nella relativa trattazione, debito pubblico e debito
individuale. Le politiche fiscali restrittive stando alle quali il
contenimento del debito pubblico deve avvenire soprattutto tramite tagli
alle varie voci di spesa hanno contribuito a peggiorare i “problemi”
che si diceva avrebbero contribuito a risolvere. Di conseguenza, si può
ritenere che adeguate politiche di aumento della spesa possano contribuire a ridurre il rapporto debito/PIL attraverso la crescita del reddito.
*Università di Roma Tre
riferimenti
Auerbach A., & Gorodnichenko, Y. (2012). Measuring the Output Responses to Fiscal Policy, American Economic Journal – Economic Policy, Vol. 4, pp. 1–27.
Batini, N., Callegari, G., & Melina,
G. (2012). Successful Austerity in the United States, Europe and Japan,
IMF Working Paper 12/190, July, Washington.
Christiano, L., Eichenbaum, M., & Rebelo, S. (2011). When is the government spending multiplier large?. Journal of Political Economy, 119(1), 78-121.
Ciccone, R. (2012). Austerità, BCE e il peggioramento dei conti pubblici, in Oltre l’austerità, MicroMega.
Fatás, A., & Summers, L. H. (2017). The permanent effects of fiscal consolidations Journal of International Economics, online publication, December.
MEF (2017). Nota di aggiornamento al documento di Economia e Finanza, disponibile qui.
Nuti, D. M. (2013). Perverse Fiscal Consolidation. Sbilanciamoci. info, 11.
Palumbo, A. (2008). I metodi di stima del PIL potenziale tra fondamenti di Teoria economica e Contenuto empirico, Roma Tre University, Department of Economics Working Paper Series, 92.
Paternesi Meloni, W. (2017). Austerity and competitiveness in the Eurozone: a misleading linkage. Roma Tre University, Department of Economics Working Paper Series, 0223.
Pusch, T., & Rannenberg, A. (2011).
Fiscal Spending Multiplier Calculations based on Input-Output Tables –
with an Application to EU Members, IWH Discussion Papers 1/2011, Halle
Institute for Economic Research (IWH).
Stirati A. (2016) Blanchard, the Nairu
and economic policy in the Eurozone, Inet blogpost:
https://www.ineteconomics.org/perspectives/blog/blanchard-the-nairu-and-economic-policy-in-the-eurozone
[1]
Segnaliamo a riguardo un contributo del Fondo Monetario Internazionale
(Blanchard e Leigh 2013) in cui sono state riviste a rialzo le stime dei
moltiplicatori fiscali, indicando un valore minimo di 0,9. Nell’ambito
del DEF 2017, per l’Italia assume valore di 1,1 (MEF 2017). Pusch e
Rannenberg (2011) stimano invece, usando delle tavole input-output che
tengono conto delle importazioni richieste da differenti categorie di
spesa finale, un moltiplicatore di 1,8 per l’Italia. In altri studi
basati su dati panel il valore stimato del moltiplicatore
fiscale è piuttosto elevato, specialmente se misurato in periodi di
recessione (si veda Batini et al. 2012; Christiano et al. 2011).
[2]
Nuti (2013) dimostra che ciò accadrebbe con certezza nel caso in cui il
moltiplicatore fiscale sia maggiore dell’inverso del rapporto tra
debito pubblico e PIL. Nel caso italiano, quindi, non sarebbe necessario
un moltiplicatore superiore a 1, bensì superiore a circa 0,76.
[3]
Si noti che le stime del prodotto potenziale e dell’output gap, o le
deviazioni del tasso di disoccupazione effettivo dal tasso “strutturale”
di disoccupazione (o meglio, NAIRU) stimati dalle organizzazioni
internazionali (Ocse e Commissione Europea) non possono essere
considerati delle misure valide di sottoutilizzo della capacità. Per un
approfondimento critico su questi temi si veda Palumbo (2008), per una
discussione più divulgativa si veda Stirati (2016).
[4]
Come indicato in Paternesi Meloni (2017), le politiche di austerità
avrebbero anche avuto la funzione di migliorare i saldi esterni sia
grazie alla maggiore competitività di prezzo causata dal processo di
svalutazione interna sia per mezzo della riduzione dell’import connessa
alla caduta del reddito.
[5]
Si tenga conto che tra 2010 e 2011 il PIL era cresciuto di 12 miliardi
(in termini reali), mentre tra 2011 e 2012 si registra una diminuzione
di 45 miliardi – l’incremento delle entrate dunque non riflette un
aumento del valore aggiunto ma della pressione fiscale.
[6] Si fa riferimento alla disaggregazione “per funzione” proposta da OECD, come indicato nel Dataset 11, Government expenditure by function (COFOG).
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