martedì 24 luglio 2018

L'Europa e le false credenze della Sinistra.

Per cambiare davvero l’Europa serve una lotta degli Stati contro i mercati, che tuttavia non prende corpo anche per le colpe della sinistra: prigioniera degli stessi luoghi comuni – dalla confusione tra europeismo e internazionalismo a quella tra identità nazionale e nazionalismo – che a partire dagli anni Ottanta l’hanno trasformata in un fedele custode dell’ortodossia neoliberale.



micromega Alessandro Somma
Tragedia greca

L’Unione europea ha finalmente dichiarato la conclusione del programma di assistenza finanziaria imposto alla Grecia nel maggio del 2010. In questi otto anni il Paese ha ricevuto prestiti per 243 miliardi di Euro dal fondi Salva-Stati, e per 32 miliardi di Euro dal Fondo monetario internazionale. In cambio ha realizzato centinaia di riforme strutturali con le quali ha tagliato la spesa sociale per l’istruzione, la sanità e le pensioni, ridimensionato la pubblica amministrazione, privatizzato i beni pubblici e le principali infrastrutture, liberalizzato i servizi, precarizzato il lavoro e indebolito il sindacato.

La dimensione della macelleria sociale provocata da queste misure si coglie dai dati che documentano l’esplosione della povertà, la compressione dei salari e delle pensioni, la crescita della disoccupazione soprattutto giovanile, la perdita dei posti di lavoro nel settore pubblico, la condizione miserevole in cui è ridotta la sanità e il sistema della sicurezza sociale nel suo complesso. Anche i parametri economici documentano in modo incontrovertibile l’insuccesso della cura imposta dall’Europa: il deficit è stato annullato e anzi il Paese è ora in surplus, ma al prezzo di un rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo passato dal 146% dell’anno in cui la Troika è giunta ad Atene, al 178,6% di adesso. Sono cresciuti anche la pressione fiscale e l’ammontare dei prestiti in sofferenza delle banche, mentre sono calati la competitività e il potere di acquisto.

Vi sono dunque riscontri notevoli di quanto l’assistenza finanziaria fornita alla Grecia sia stata fallimentare se non criminale, tenuto conto che il 90% delle somme prese a prestito hanno beneficiato le banche francesi e tedesche espostesi per aver tentato di lucrare sui titoli del debito greco. Ciò nonostante Atene sarà costretta a proseguire lungo la strada imposta da Bruxelles come contropartita per l’assistenza, e continuerà a essere sorvegliata da Commissione, Banca centrale e Fondo monetario internazionale. Il Paese sarà infatti sottoposto alla “sorveglianza rafforzata” prevista per i casi in cui si temono “gravi difficoltà per quanto riguarda la sua stabilità finanziaria, con probabili ripercussioni negative su altri Stati membri nella zona euro”[1]. Sebbene il programma di assistenza finanziaria sia formalmente concluso, di fatto esso prosegue, così come la cessione di sovranità politica ed economica alla Troika, presumibilmente sino al 2022.

Nel documento della Commissione europea con il quale si è attivata la sorveglianza si lodano le autorità greche perché il bilancio dell’anno in corso si chiuderà probabilmente con un surplus del 3,5%. E tuttavia si stigmatizzano l’entità del debito e gli altri parametri negativi appena elencati: ad essi la Grecia dovrà rimediare attuando un programma di riforme concordato con la Commissione europea come contropartita per la formale conclusione del programma di assistenza finanziaria[2].

La Commissione europea ha voluto sottolineare che il programma di riforme non costituisce una sorta di nuovo piano di assistenza condizionata, ma è chiaro che si tratta di una scusa non richiesta, equivalente a un’accusa manifesta. E difatti Atene si è impegnata a mantenere un surplus del 3,5% per il futuro, ovvero, inevitabilmente, a “modernizzare il welfare” e dunque a tagliare ulteriormente la spesa sociale soprattutto per le pensioni e la sanità. Dovrà poi rilanciare il programma di dismissione del patrimonio pubblico, privatizzando quanto di appetibile è rimasto ancora nelle mani dello Stato. Non mancano poi impegni a intervenire ulteriormente nel mercato del lavoro per “salvaguardare la competitività” e dunque renderlo sempre più flessibile e sottopagato, nel settore privato come nel settore pubblico: si dovranno realizzare “riforme per modernizzare la gestione delle risorse umane nella Pubblica amministrazione”[3].

La resa dei conti

Alla luce di queste vicende si capisce lo scontro in atto entro la Sinistra europea, che comprende oramai forze collocate su fronti davvero inconciliabili. Da una lato Syriza, il partito di Tsipras che si è arreso alla Troika, divenendo il fedele esecutore materiale dei programmi che questa ha riservato per la Grecia. Dall’altro lato il Partie de Gauche di Mélenchon, che ha recentemente lasciato la Sinistra europea in polemica contro la decisione di non espellere Syriza: forza politica che “sta spingendo la sua logica austeritaria sino a limitare il diritto di sciopero, così accogliendo in modo sempre più servile i diktat della Commissione europea”[4]. In mezzo l’indecisione delle altre formazioni aderenti alla Sinistra europea, in qualche modo alimentata dalla posizione della Linke, che giustifica le politiche di Atene: “è ricattata dalla Troika” e dunque non ha scelta[5].

Peraltro la Linke non è compatta, e i suoi orientamenti sono sempre meno rappresentativi di quanto avviene nella sinistra radicale, dove non regge più il mantra che fa da sfondo alla posizione ufficiale sulla sinistra greca: l’Europa dei mercati può essere riformata e divenire un’Europa del lavoro e dei diritti. È oramai diffusa la convinzione opposta, ovvero che questa Europa è irriformabile perché l’Unione economica e monetaria è un dispositivo neoliberale concepito per cancellare le tracce del compromesso keynesiano che resistono qua e là, e soprattutto per impedire che questo possa tornare. Il tutto presidiato da una sorta di mercato delle riforme: la vita della costruzione europea nel suo complesso viene scandita da forme di assistenza finanziaria condizionata all’adozione di riforme di chiara matrice neoliberale. Lo abbiamo riscontrato in occasione degli allargamenti a sud e ad est, e lo sperimentiamo con il modo scelto per affrontare la crisi del debito sovrano e persino con la gestione dei fondi strutturali: inizialmente concepiti come strumento di redistribuzione delle risorse dai Paesi ricchi ai Paesi poveri, poi trasformati anch’essi in dispositivi volti a presidiare l’ortodossia neoliberale[6].

Insomma, l’Europa della moneta unica si regge sulla spoliticizzazione del mercato e sulla sterilizzazione del conflitto sociale. Per cambiarla occorre contrastare la prima riattivando il secondo: occorre tornare alla dimensione nazionale per ripristinare la dialettica democratica e rifondare le basi di una comunità di popoli. E a monte si devono combattere i luoghi comuni che impediscono di vedere in questo percorso l’unica via di uscita, che continuano cioè a illudere circa la possibilità di percorrere scorciatoie. Primo fra tutti la credenza secondo cui l’europeismo coincide con l’internazionalismo, e deve pertanto essere difeso, e poi la confusione tra identità nazionale e nazionalismo, che deve pertanto essere combattuta senza esitazione.

Cosmopolitismo

La confusione tra internazionalismo e cosmopolitismo o europeismo è alla base della convinzione che il favore per i processi di denazionalizzazione appartiene alla storia e alle idealità della sinistra.

Questi processi sono stati avviati a partire dagli anni Ottanta, ma la loro teorizzazione è molto più risalente: la troviamo in uno scritto di Friedrich von Hayek pubblicato sul finire degli anni Trenta[7]. Il punto di partenza è la costruzione di un ordine internazionale incentrato sulla pace, raggiungibile unicamente attraverso una “federazione interstatale” fondata sulla libera circolazione dei fattori produttivi. Solo abolendo le barriere economiche si eliminano le occasioni di conflitto, in quanto i membri della federazione possono disporre di un “meccanismo efficace per la risoluzione di ogni controversia”, e inoltre la federazione nel suo complesso è “tanto forte da eliminare qualsiasi rischio di attacco dall’esterno”. Se invece ci si limita a realizzare “l’unità politica”, ovvero si rinuncia a “una politica fiscale e monetaria comune”, allora si produce in ciascuno Stato “una solidarietà di interessi tra tutti i suoi abitanti, e conflitti” con gli interessi degli “abitanti di altri Stati”.

Hayek parla insomma del vincolo esterno rappresentato dalla forza condizionante di un “mercato unico”, che rende agli Stati “chiaramente impossibile influenzare i prezzi dei diversi prodotti”, e dunque ostacolare il mercato concorrenziale: tanto che “sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro”. Il tutto mentre occorre ovviamente evitare che la stessa possibilità sia accordata al sistema delle relazioni industriali, o peggio trasferita a una qualche autorità federale. Del resto, a quest’ultimo livello, incidono contrasti tra operatori economici sconosciuti a livello statale, tanto da rendere estremamente difficile, se non impossibile, la conclusione di accordi di matrice protezionista o comunque di intralcio per il funzionamento del mercato. Se non altro perché “la diversità di condizioni e i diversi gradi di sviluppo economico raggiunti dai diversi membri della federazione faranno sorgere seri ostacoli alla produzione di regole federali”.

Che il vincolo esterno si traduca inevitabilmente in una diminuzione degli spazi assicurati alla decisione democratica, è dunque un risvolto ineliminabile e anzi voluto della costruzione federale. Per Hayek il livello statale era oramai espressione inemendabile della volontà di redistribuire risorse con modalità alternative a quelle assicurate dal mercato. Questo era dipeso dall’invadenza delle istituzioni democratiche, sicché solo alimentando il livello sovrastatale si poteva ovviare all’inconveniente: “se il prezzo da pagare per lo sviluppo di un ordine democratico internazionale è la restrizione del potere e delle funzioni del governo, è comunque un prezzo non troppo alto”.

Internazionalismo

Come abbiamo detto, se il fascino del cosmopolitismo miete vittime a sinistra, è perché viene identificato con l’internazionalismo, nonostante vi siano insormontabili differenze di fondo: innanzi tutto in ordine alla libera circolazione dei fattori produttivi. Quest’ultima è l’essenza dell’ordine neoliberale, per cui gli Stati sono meri contenitori di risorse che possono e anzi devono circolare senza vincoli alcuni, anche per mettere in moto il meccanismo attraverso cui rendere il pensiero unico irreversibile: quello per cui gli Stati devono fare di tutto per attirare investitori, ovvero abbattere i salari e la pressione fiscale sulle imprese, con ciò impedendo il funzionamento del compromesso keynesiano. L’internazionalismo valorizza invece la frizione tra l’estrema volatilità dei “flussi di segni di valore, merci, servizi, informazioni e membri delle élite che li governano” e l’irrimediabile radicamento dei “corpi di coloro che chiedono cibo, casa, lavoro e affettività”[8]. E in tale prospettiva rigetta quanto si potrebbe chiamare l’internazionalismo delle élites: il cosmopolitismo buono solo a presidiare il mercato autoregolato, a spoliticizzarlo in quanto arena nella quale sviluppare il conflitto redistributivo.

Altrimenti detto, il cosmopolitismo alimenta l’immagine dell’individuo come cittadino del mondo, privo di radicamento territoriale e dunque in balìa delle forze del mercato autoregolato, e nel fare questo ridefinisce i compiti dei pubblici poteri: non più relativi alla gestione del conflitto redistributivo, bensì concernenti tutti il presidio della concorrenza e la sterilizzazione del conflitto sociale. L’esatto opposto dell’internazionalismo, che infatti mira a ribaltare questo schema, ovvero a consentire alle classi subalterne di conquistare lo Stato attraverso l’esercizio della sovranità popolare: finalità per la quale occorre valorizzare la dimensione nazionale e dunque la sovranità statale.

La contrapposizione tra cosmopolitismo e internazionalismo veniva riconosciuta e tematizzata all’epoca in cui l’ortodossia neoliberale non era ancora divenuta l’orizzonte fisso per la costruzione e lo sviluppo dell’ordine economico. Lo vediamo considerando i passaggi parlamentari che hanno accompagnato l’adesione dell’Italia prima al Consiglio d’Europa, poi alla Comunità economica europea, e infine al Sistema monetario europeo.

Il Consiglio d’Europa nasce sul finire degli anni Quaranta per rafforzare la pace nella giustizia e nella cooperazione internazionale. Allora in particolare Lelio Basso ebbe a stigmatizzare il comportamento della borghesia, storicamente espressiva di una “coscienza nazionale”, che aveva abbandonato il “vecchio esasperato nazionalismo” e assunto come sua bandiera il “cosmopolitismo”. E che lo aveva fatto per motivi non certo nobili: voleva resistere alla “pressione di classi che hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che, non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture, minacciano di farle saltare”[9].

Probabilmente Basso non conosceva le tesi di von Hayek in materia di federazione statale, e tuttavia le riflessioni del primo ben possono costituire la traccia per una puntuale reazione critica alle proposte del secondo. Il deputato socialista chiarisce che l’emancipazione delle classi subalterne passa dalla loro capacità di togliere “alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominate”, ma non anche di abbandonarla come terreno di lotta politica. E ciò equivale a dire che il proletariato deve acquisire “contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi”.

La distinzione tra cosmopolitismo e internazionalismo, speculare a quella tra nazionalismo delle classi dominanti e sentimento nazionale delle classi subalterne, ricorre anche nelle discussioni che hanno accompagnato la nascita della Comunità economica europea.

La Relazione al disegno di legge di ratifica dei Trattati di Roma aveva fatto chiari riferimenti al senso della denazionalizzazione che la costruzione europea avrebbe provocato: “la tecnica moderna non può applicarsi completamente che nei grandi spazi e nei grandi mercati”, motivo per cui gli Stati nazionali dovevano trasmettere la certezza che la loro azione “ispirata a motivi più o meno giustificati non può in alcun caso limitare le dimensioni del mercato”. Si sarebbe in tal modo realizzata l’utopia neoliberale: il “diffondersi della domanda verso i prodotti migliori ed a miglior prezzo”, l’espansione “dell’offerta verso zone di potenziali acquirenti oggi artificialmente tenuti esclusi dalla protezione doganale e quantitativa”, e la dissoluzione delle “posizioni monopolistiche createsi all’interno dei più asfittici mercati nazionali”[10].

Proprio la contestazione di questi automatismi ispira la reazione dell’opposizione di allora. Il deputato comunista Giuseppe Berti li stigmatizza, precisando che in un mercato comune incentrato sulla libera circolazione dei fattori produttivi “la lotta di classe all’interno può attenuare le caratteristiche più negative… ma non può certo mutarne il carattere, poiché questo è fissato, è irreversibile, è immutabile”. Non si potrà cioè incidere sulla circostanza per cui il mercato comune favorirà i “grandi monopoli industriali”, in particolare i tedeschi in quanto “grandi beneficiari dei Trattati”, mentre impedirà “l’affermazione delle classi lavoratrici” e comprimerà “la forza contrattuale dei sindacati”[11]. Anche per questo occorreva ribadire, con Gian Carlo Pajetta, l’utilità di preservare la dimensione statuale in quanto terreno di conflitti sociali capaci di emancipare le classi subalterne: occorreva “comprendere… quale valore grande, decisivo sia quello dell’indipendenza nazionale”[12].

L’opposizione all’internazionalismo delle élites viene ribadita dalla sinistra storica anche sul finire del 1978, in occasione del varo del Sistema monetario europeo: un sistema di limiti alla fluttuazione dei cambi concepito come avvio di un’unione monetaria fondata sul controllo dell’inflazione e dunque della spesa pubblica. Luigi Spaventa, all’epoca deputato della Sinistra indipendente, non utilizza il linguaggio dei suoi predecessori, bensì quello dell’economista intento ad avvertire circa le dinamiche di un’area monetaria in cui non vi sono obblighi per “i Paesi che accumulano riserve ad adottare politiche interne più espansive”. Le conclusioni sono però le stesse: a queste condizioni “la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito”. Il tutto provocato in particolare dalla Germania, che vuole “evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accetta di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna”[13].

Maastricht come religione

Le cose sarebbero però cambiate in occasione della ratifica del Trattato di Maastricht. Guido Carli, Ministro del tesoro tra il 1989 e il 1992, era consapevole che avrebbe condotto ad “allargare all’Europa la Costituzione monetaria della Repubblica federale di Germania”. E lo apprezzava proprio per questo, perché avrebbe implicato “la concezione dello Stato minimo” e dunque un “mutamento di carattere costituzionale”, per cui si sarebbero ristrette le libertà politiche e riformate quelle economiche: realizzando in particolare “una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi”, e un ripensamento complessivo delle “leggi con le quali si è realizzato in Italia il cosiddetto Stato sociale”[14].

L’elogio del vincolo esterno compare anche in occasione del dibattito parlamentare per la ratifica del Trattato di Maastricht. Il liberale Paolo Battistuzzi riconosce che esso impone agli Stati una “stretta disciplina economica finanziaria”, per l’Italia “un compito quasi sovrumano” i cui “effetti recessivi saranno particolarmente forti”, e tuttavia lo considera un condizionamento positivo: “quell’accordo significa rigore economico, trasparenza politica, risanamento anche delle istituzioni”[15]. Nel dibattito non emerge invece la contrarietà della sinistra storica alla costruzione europea, dimentica della distinzione tra cosmopolitismo e internazionalismo rivendicata fino a qualche anno prima.

L’allora Partito democratico della sinistra, per bocca di Claudio Petruccioli, decide di “confermare e rafforzare la scelta strategica dell’unità dell’Europa”, sulla quale “convergono le ragioni della democrazia, del lavoro, della pace e dell’internazionalismo”. E se prima si dicevano cose diverse, era solo a causa della Guerra fredda, che impediva di riconoscere apertamente come “l’idea di Europa” fosse “implicita non solo nelle origini internazionaliste, ma anche nella coscienza dell’antifascismo e della Resistenza”[16]: una ricostruzione molto approssimativa e con il senno di poi, da cui trae conferma la sensazione che l’europeismo di oggi costituisca il rimpiazzo, davvero poco meditato sebbene rassicurante come solo sanno essere le religioni, dell’internazionalismo di ieri e più in generale della crisi delle idealità ereditate dal passato.

Nonostante fosse evidente che l’idea di Europa cui si riferiva Petruccioli non ha nulla a che spartire con l’Europa di Maastricht, la bandiera dell’opposizione a quest’ultima, e nel contempo alle chiusure nazionaliste, viene raccolta solo da Rifondazione comunista. È Giovanni Russo Spena a soffermarsi sul contrasto tra Costituzione italiana e Trattato di Maastricht, innanzi tutto dal punto di vista della disposizione che ammette limitazioni della sovranità solo se volte a promuovere, in condizioni di parità, la pace e la giustizia tra le nazioni (art. 11). Peraltro la costruzione europea comporta trasferimenti e non semplici limitazioni di sovranità, il che è insito nella sua natura di organismo sovranazionale: capace di esercitare porzioni più o meno ampie di sovranità autonoma e concorrente con quella degli Stati. Con il risultato che si finisce per intaccare in modo irrimediabile il carattere unitario e non divisibile della sovranità[17].

Si realizza cioè uno scenario molto diverso rispetto alla partecipazione ad organismi internazionali che trovano il loro fondamento e il loro limite nella sovranità degli Stati, e che infatti non possono produrre regole direttamente rivolte ai loro cittadini. E i Costituenti avevano in mente quest’ultima situazione, giacché disposero in materia di limitazioni della sovranità pensando alle Nazioni Unite: tipica organizzazione internazionale la cui Carta codifica non a caso il “principio della sovrana eguaglianza di tutti i suoi Membri” (art. 2).

Identità nazionale

Peraltro anche nella sinistra radicale si sarebbe in qualche modo digerita l’equazione che identifica l’europeismo con l’internazionalismo. Con le conseguenze da cui abbiamo preso le mosse: un dibattito paralizzante sui massimi sistemi, proprio mentre i dati di realtà offrono spunti incontrovertibili per rigettare l’opzione europeista.

A questa situazione concorre probabilmente l’ambiguità dei riferimenti all’identità nazionale in quanto vicenda screditata dal cosmopolitismo neoliberale e dalla sua ostilità nei confronti delle identità collettive in genere[18]. Quei riferimenti si prestano infatti ad alimentare discorsi attorno a sedicenti tratti naturali o essenziali di una comunità nazionale coesa, ricostruita attorno a valori non negoziabili e magari premoderni, buoni solo a sterilizzare i conflitti prodotti dalla modernità: a spoliticizzare il mercato e a rendere storicamente possibile il funzionamento del capitalismo.

C’è però un modo diverso di intendere l’identità nazionale, che discende dall’equazione che identifica la nazione con il popolo, nel solco di quanto ha fatto la Costituzione. E che soprattutto trae fondamento dall’essere il popolo un concetto che ha perso il significato di “discendenza” per assumere quello di “assemblea che decide”, di “insieme dei cittadini” accomunati dalla condivisione di diritti e doveri[19]. Di qui la connotazione dell’identità nazionale in termini alternativi a quelli ricavati da ontologie di varia natura, che rileva nella sua contingenza anche quando è relativa a sedimentazioni storiche di lungo periodo. E che in quanto tale evita la confusione tra nazione e nazionalismo, destinata invece a manifestarsi nel momento in cui si passa da una concezione volontaristica di nazione a un modo di intenderla in senso naturalistico[20].

Più precisamente, il riferimento all’identità nazionale rinvia alla cittadinanza come condivisione di un “progetto comune in un determinato territorio”, o meglio come appartenenza “a una comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio”, a prescindere dalla riconduzione al medesimo “gruppo etnico o religioso”[21]. Con ciò evidenziando gli stessi tratti cui rinvia “l’indole di un popolo” intesa come “l’insieme delle regole del gioco private e pubbliche di una certa società sedimentate in secoli di storia”[22]: regole concernenti in ultima analisi la conduzione del conflitto redistributivo e la possibilità di recepirne l’esito.

Se così stanno le cose, l’identità nazionale contribuisce a valorizzare la democrazia in quanto pratica saldamente legata alla dimensione statuale[23]: la dimensione del conflitto democratico, con cui collegare al circuito della rappresentanza le decisioni di fondo sul modo di essere dell’ordine economico, oltre che dell’ordine politico. Il riferimento all’identità rinvia all’esistenza di una cornice comune entro cui sviluppare il conflitto, equiparandolo a un confronto tra avversari piuttosto che tra nemici: a un agonismo piuttosto che a un antagonismo. Nel contempo consente però una convivenza della “lealtà comune ai principi di libertà e uguaglianza per tutti” con un “disaccordo sulla loro interpretazione”[24].

Il momento Polanyi

Se la sinistra è in crisi, come si usa dire con un eufemismo, è anche perché si avvita attorno a dibattiti appesantiti dalla resistenza di luoghi comuni come quelli di cui ci siamo occupati. Se lo si riconoscesse, ci si potrebbe finalmente concentrare sul modo corretto di interpretare la realtà, magari a partire da quanto è stato efficacemente descritto in termini di momento Polanyi[25].

Il riferimento è a Karl Polanyi, il fondatore dell’antropologia economica che decenni or sono analizzò l’avvento del fascismo come reazione a quanto aveva caratterizzato l’Ottocento: la dissociazione tra economica e società provocata dall’avvento dei mercati autoregolati[26]. Le società governate dai mercati autoregolati sono infatti votate all’autodistruzione, e per questo prima o poi reagiscono e premono per la risocializzazione dell’economia. Questo si accompagna necessariamente a un recupero della dimensione nazionale, che può avvenire nel rispetto della partecipazione democratica, come accadde con il New Deal statunitense, ma anche in un tutt’uno con l’edificazione di un ordine autoritario o totalitario: il fascismo.

L’epoca attuale è indubbiamente caratterizzata dal rigetto del mercato autoregolato e dal processo di denazionalizzazione che ha accompagnato la sua affermazione, nel solco di quanto auspicato da von Hayek decenni or sono e incarnato ora dall’Unione europea. Il tutto sta però avvenendo a destra, secondo lo schema del nazionalismo economico: si sta profilando una lotta tra Stati per la conquista dei mercati, unita allo sviluppo di un sistema di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. E si stanno diffondendo valori premoderni, escludenti e non negoziabili, buoni solo a occultare la violenza della modernità capitalistica.

Ci sarebbe invece bisogno di una lotta degli Stati contro i mercati, che tuttavia non prende corpo anche per le colpe della sinistra: prigioniera degli stessi luoghi comuni che a partire dagli anni Ottanta l’hanno trasformata in un fedele custode dell’ortodossia neoliberale. Incapace di riconoscere che gli attuali processi di denazionalizzazioni sono inarrestabili, che occorre pertanto evitare di lasciare alla destra il compito di interpretarli.

NOTE

[1] Art. 2 Regolamento 21 maggio 2013 n. 472 “sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri nella Zona Euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria”. [2] Commission implementing decision on the activation of enhanced surveillance for Greece dell’11 luglio 2018, C/2018/4495 fin. [3] Specific commitments to ensure the continuity and completion of reforms adopted under the ESM programme (22 giugno 2018), www.consilium.europa.eu/media/35749/z-councils-council-configurations-ecofin-eurogroup-2018-180621-specific-commitments-to-ensure-the-continuity-and-completion-of-reforms-adopted-under-the-esm-programme_2.pdf. La vastità del piano di privatizzazioni si ricava dalla tabella di marcia predisposta dall’Hellenic Republic Asset Development Fund: v. da ultimo l’Asset development plan del 5 giugno 2018, www.hradf.com/storage/files/uploads/adp-en05062018.pdf [4] Dichiarazione del 30 gennaio 2018, www.lepartidegauche.fr/le-parti-de-gauche-sadresse-au-pge. [5] U. Satter, Französische Genossen nehmen Syriza ins Visier (1. febbraio 2018), https://www.neues-deutschland.de/artikel/1078183.streit-bei-der-europaeischen-linken-franzoesische-genossen-nehmen-syriza-ins-visier.html. [6] A. Somma, Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione europea, Reggo Emilia, 2018, p. 145 ss. [7] F. von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in 5 New Commonwealth Quarterly, 1939, p. 131 ss. [8] C. Formenti, La variante populista, Roma, 2016, p. 256. [9] AC 13 luglio 1949, 10292 ss. [10] La Relazione è riportata in Senato della Repubblica, L’autorizzazione alla ratifica dei Trattati di Roma, Roma, 2007, p. 12. [11] AC 25 luglio 1957, 34736 ss. [12] Ivi, 34518 ss. [13] AC 12 dicembre 1978, 24892 ss. [14] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana (1993), Roma e Bari, 1996, p. 432 ss. [15] AC 28 ottobre 1992, 5261. [16] Ivi, 5251 ss. [17] A. Guazzarotti, Sovranità e integrazione europea, in Rivista AIC, 2017, 3, p. 8 ss. [18] G. Preterossi, Residui, persistenze, illusioni: il fallimento politico del globalismo, in Scienza e politica, 2017, p. 113. [19] A. Tedde, Conflitto di classe e forma istituzionale repubblicana, in Democrazia e diritto, 2016, p. 107 s. [20] D. Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Reggio Emilia, 2018, p. 35 ss. [21] C. Formenti, Quelle sinistre che odiano il popolo (29 gennaio 2018), http://temi.repubblica.it/micromega-online/quelle-sinistre-che-odiano-il-popolo-contro-lideologia-del-politicamente-corretto. [22] S. Cesaratto, Chi non rispetta le regole? La Germania e le doppie morali dell’Euro, Reggio Emilia, 2018, p. 9. [23] Ad es. E.J. Hobsbawm, La fine dello Stato, Milano, 2007, p. 46 s. [24] C. Mouffe, Il conflitto democratico (2013), Milano, 2015, pp. 25 ss. e 73 ss. [25] S. Cesaratto, Polanyi moment (22 settembre 2017), http://sollevazione.blogspot.com/2016/09/polany-moment-quale-strategia-di.html. [26] K. Polanyi, La grande trasformazione (1944), Torino, 1974.

(23 luglio 2018)

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