global project Anna Irma Battino
L’aggressione
all'atleta italo-nigeriana Daisy Osakue è solo l’ultimo di una serie di
episodi di violenza razzista che si stanno moltiplicando nel Paese.
Sembra un bollettino di guerra, ma è l'amara realtà dell'Italia
“giallo-verde”, che assomiglia sempre più al sud degli Stati Uniti di
oltre un secolo fa. Ma andiamo per ordine.
Alabama,
lo stato simbolo del sud conservatore degli Stati Uniti; 1865 l’anno di
passaggio dalla guerra civile a quella che venne definita «la pace
incivile» da Christopher Lyle McIlwain. Una storia di opportunità
mancate che hanno avuto conseguenze sostanziali, gli anni
dell’assassinio di Lincoln, del passaggio del XIII emendamento della
Costituzione degli Stati Uniti, gli anni della liberazione degli
schiavi.
Si
abolisce la schiavitù, ma non si sconfigge il razzismo. Tra il 1877 e
il 1950 migliaia di afro-americani furono pestati, mutilati, picchiati,
trascinati per strada, sottoposti a ogni forma di tortura e alla fine
impiccati come ultima forma di umiliazione pubblica, in quelli che sono
passati alla storia come atti di esecuzione sommaria o linciaggio.
Azioni che si espandono largamente negli Stati Uniti post Guerra di
Secessione. Come una sorta di rabbiosa reazione alla fine della
schiavitù, il sud del Paese cominciò a sviluppare un vero e proprio
“terrore razziale”, sotto forma di atti pubblici di tortura contro la
popolazione di colore.
Nel
1865 si abolisce la schiavitù ma rimane il segregazionismo: nei luoghi
pubblici i bianchi da una parte e i neri dall’altra. Questo lembo del
«profondo Sud» americano, meno di cinque milioni di abitanti, è il cuore
e l’anima di quell’America conservatrice, maschilista, venata di un
razzismo nostalgico della segregazione, che a tratti riemerge come
“ricorso storico”. Ma l’Alabama è anche il luogo dove i neri, costretti a
vivere da cittadini di serie B senza scuole né servizi sociali e senza
nemmeno un vero diritto di voto anche dopo la fine dello schiavismo,
hanno costruito il loro riscatto con la ribellione di Rosa Parks — il
rifiuto di cedere il suo posto a un bianco su un autobus a Montgomery
nel 1955 — e le marce per i diritti civili guidate da Martin Luther
King, fino alla tragica Bloody Sunday sull’Edmund Pettus Bridge, il
ponte di Selma.
Italia
2018, si parla di razzismo. Razzismo di Stato che bombarda le orecchie,
a cui sempre più ci siamo abituati, come se fosse normalità. Il
Belpaese si sta ripresentando agli occhi del mondo non per le bellezze
che ha da offrire, ma per continui episodi di xenofobia, di odio e di
richiami pericolosi al passato. Una terra sempre più dei pregiudizi
radicati. Il governo italiano dedica costanti attenzioni a migranti e
rom, individuandolo come causa dei problemi che attanagliano il Paese,
tra allarmismi su improbabili invasioni di “proporzioni bibliche” dalla
Libia, alle ultime dichiarazioni del ministro Salvini che parla di una
«emergenza criminalità» legata ai migranti. Solo piccoli esempi di una
retorica irresponsabile. O forse responsabilmente razzista. Non solo,
l’Italia è il Paese più omofobo dell'Ue, tra i più islamofobi d'Europa
ed ha ancora un enorme problema con il sessismo: abbiamo così la
fotografia una nazione in preda alla paura del “diverso”.
Non
siamo più «gli italiani brava gente, italiani da cuore d’oro»
(Caparezza, il secondo album) ricalchiamo ormai l’Italia della paura,
delle fake news, del razzismo radicato nelle masse, in una
forma difficile da debellare perché è la “guerra tra poveri” portata
all'estremo. Una guerra che nell'odio vede un alibi rispetto alla
costante erosione dei diritti e smantellamento del welfare. Una guerra
che diventa disumana, dal momento in cui diviene consolidata la
legittimità a sparare dai balconi, impallinare una bambina rom, uccidere
un sindacalista solo perché nero, farsi giustizia da soli per ipotetico
furto.
Inoltre,
non si può non citare lo sport che è uno dei campi in cui il razzismo
può esprimersi pubblicamente e, troppo spesso, impunemente. Lo abbiamo
visto nelle curve della serie A e nel calcio dilettantistico. E oggi non
si può non parlare dell’ultimo episodio che vede protagonista e vittima
Daisy Osakue, ferita solo perché nera, aggredita perché scambiata per
una prostituta. La discobola azzurra di origine nigeriana è stata
colpita mentre tornava a casa, a Moncalieri, da alcune uova lanciatele
da un'auto in corsa.
Daisy, nata a Torino 22 anni fa da genitori nigeriani, è stata riconosciuta italiana soltanto all'età di diciotto anni, proprio grazie all'attività sportiva che ha sempre svolto da quando era adolescente. Ha iniziato la sua carriera nell'atletica leggera improntando la sua attività sulla corsa ad ostacoli, dove riesce ad ottenere un titolo cadetti nel 2011. Il suo talento però nel corso degli anni è emerso come discobola e pesista. Come tutte le donne atlete si trova a dover affrontare i problemi dell'essere dilettante con tutte le difficoltà del caso.
Daisy, nata a Torino 22 anni fa da genitori nigeriani, è stata riconosciuta italiana soltanto all'età di diciotto anni, proprio grazie all'attività sportiva che ha sempre svolto da quando era adolescente. Ha iniziato la sua carriera nell'atletica leggera improntando la sua attività sulla corsa ad ostacoli, dove riesce ad ottenere un titolo cadetti nel 2011. Il suo talento però nel corso degli anni è emerso come discobola e pesista. Come tutte le donne atlete si trova a dover affrontare i problemi dell'essere dilettante con tutte le difficoltà del caso.
Deisy
è purtroppo balzata agli onori della cronaca non per le sue gesta
sportive, ma per un atto violento, codardo e vigliacco. In questo vile
attacco si sommano e intrecciano quelle "oppressioni" che stanno
caratterizzando il nostro paese nell'ultimo periodo: il razzismo e il
sessismo. Un'infame gesto dettato presumibilmente dal fatto che una
donna nera sia una prostituta e quindi disprezzabile e offendibile dalla
violenza della maschile dell'uomo bianco.
Il
valzer delle scuse e il rimbalzo delle responsabilità non si è fatto
aspettare: Di Maio rinnega l’allarme di crescente razzismo, e porge
ancora la mano a Salvini. C’è una bieca cecità che permette sempre più
che determinati comportamenti siano normalizzati, che le Ong vengano
criminalizzate e che razza è genere diventino elementi di
marginalizzazione.
In
Alabama c’è un esempio - dolce per certi aspetti, ma purtroppo di
fantasia - che ha riscattato all'opinione pubblica una lunga lista di
brutture. Forrest Gump, di Greenbow, eroe dell’integrazione razziale e
dei diritti, ma anche reduce della guerra del Vietnam, paladino dei
diritti lgbtq+.
In Italia sta mancando, ormai, anche questo tipo di fantasia.
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