martedì 31 luglio 2018

La decrescita per contrastare la globalizzazione finanziaria

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A due anni dall’inizio di questa rubrica mi rendo conto di averla iniziata dando molto per scontato sulla decrescita, come capita a chi vive quotidianamente un discorso e ne perde di vista i margini, occupandosi di un argomento di cui parlano in molti ma di cui se ne conosce ancora troppo poco. In Italia, poi, la situazione della diffusione di questi argomenti è purtroppo legata a un movimento che che non ha solide basi accademiche e ha, al contrario, esagerate connotazioni di bricolage. A volte sembra che l’unica declinazione della decrescita sia quella di impastare il pane a mano, mentre si sogna utopisticamente di andare a vivere in campagna in piena autosufficienza. Oppure, l’argomento viene evitato da chi in città ci sta benissimo e confonde la decrescita con le comuni del 1968. O con la dissimulazione chic della povertà.
Sorvolo poi con molta pietà sull’aspetto profondamente maschilista che accompagna la decrescita in Italia: schiere di uomini che sgomitano per esporre la stessa identica teoria obsoleta, intanto che le donne fanno solo corsi di autoproduzione dove scimmiottano la vita delle loro bisnonne contadine, piegate dalla fatica e raramente con un libro in mano. Bella prospettiva!
È la decrescita del Belpaese, quella adattata alle masse e ultimamente persino inginocchiata in Vaticano, con il suo leader che commenta encicliche in tono ammirato. Agli italiani viene proposto questo modello semplificato, edulcorato e maschilista di quello che è il reale movimento di decrescita nel mondo. Ricordo ancora una conferenza sulla decrescita di qualche anno fa, di cui potete trovare forse ancora qualche traccia su youtube, in cui questi imitatori nostrani di Latouche – oltre la ripetizione delle teorie di Latouche non sono mai andati – sedevano tronfi e schierati aspettando di parlare, tutti uomini. E donnette sprovvedute che si aggiravano per la sala gestendo l’evento, portando acqua, fogli e deferenza. Ben altri panorami nelle conferenze estere, persino in paesi del terzo mondo.
Lasciamo quindi perdere la versione italiana del movimento decrescita, che non rispecchia nemmeno quanti fanno questa scelta in modo indipendentemente, seriamente e coscientemente, portandola avanti a prescindere da bandiere e credo, ben consci anche di far parte di un mondo in cui le donne hanno un centinaio di anni di diritti riconosciuti e millenni di pensieri evoluti. La decrescita, sostanzialmente, non è appannaggio esclusivo di un movimento “felice”.
Attualmente, nel mondo, i due movimenti che comprendono centinaia di altre realtà di resistenza civile o rivoluzione di pensiero sono i movimenti Occupy e Décroissance, decrescita appunto. La necessità di decrescita si basa sulla nozione ormai acclarata che la crescita economica non è un processo regolare, continuo e autosufficiente. Su tutte, le opere dell’economista Nicholas Georgescu-Roegen hanno spiegato come la termodinamica e le leggi degli esseri viventi siano inseparabili dall’economia e dalla società. La crescita infinita dei prodotti è insostenibile a causa dell’irreversibilità della trasformazione dell’energia in materia. Non possiamo crescere all’infinito perché le risorse sono elementi finiti. Inoltre una crescita non omogenea ma limitata ad alcuni paesi crea forti disuguaglianze sociali che generano tensioni.
Anche durante quello che è stato chiamato “trentennio d’oro” (1945-1974), la miglior epoca di crescita economica, questa si è verificata solo nei paesi industrializzati, ha coinvolto una minoranza della popolazione mondiale, utilizzato gli altri paesi meno industrializzati per il saccheggio di risorse naturali, l’accesso a combustibili fossili a basso costo e li ha portati alla dipendenza dalle tecnologie killer come i pesticidi.
Quando negli anni ’80 è stato evidente che i limiti geo-fisici avrebbero portato a un arresto della crescita, sono stati proposti dei modelli di crescita alternativi, modelli con nomi buffi e poco credibili, come “sviluppo durevole” e “crescita sostenibile”. Uno su tutti, il rapporto Brundtland del 1987, “Our Common Future”, ha sostenuto la possibilità di una crescita pulita che avrebbe garantito contemporaneamente la sostenibilità ecologica, lo sviluppo tecnologico e la giustizia sociale. Questa proposta è diventata poi la base di discussione per il Summit sulla Terra di Rio de Janeiro del 1992. Suonano tutti molto importanti vero? Eppure oggi le persone cambiano un cellulare all’anno, costruito con materiali non rinnovabili, pericolosi, spesso maneggiati da bambini – schiavi e analfabeti – per darci la possibilità di postare la foto del buongiorno sui social. Le auto vanno ancora a benzina, la Cina come la Pianura Padana vive sotto una cappa gialla di polveri e inquinamento visibile dal satellite. Morale: non funziona.
L’esplosione delle disuguaglianze, che ha poi fatto sorgere movimenti come Occupy, e il fatto che siamo andati oltre i limiti ecologici del pianeta, hanno chiarito che lo “sviluppo sostenibile” è una teoria inattuabile e obsoleta. Lo sappiamo noi, lo sanno gli economisti, fingono di ignorarlo i media con aziende sponsor a cui interessa solo lo sviluppo ora e subito, vendere di più ora, produrre sempre di più.
Con buona pace di chi fa controinformazione, la maggioranza della gente continua a non essere informata sui movimenti di decrescita. Non sa per esempio che un punto cardine della decrescita non è, come pensano in Italia, fare il pane in casa o vivere come un folletto tra i boschi. Un punto cardine del movimento Décroissance è invece il contrasto dell’attuale globalizzazione finanziaria perché l’integrazione dei mercati mondiali e delle banche è quello che sta spingendo maggiormente lo sviluppo e il consumo di risorse. Vengono coinvolti nei piani della Banca Mondiale i paesi in via di sviluppo e questi, per inseguire l’utopia di uno sviluppo simil-occidentale, si caricano di debiti massicci e compiono enormi pagamenti per questo servizio. Così sono obbligati a procedere a una la crescita forzata e una sovraproduzione, per garantire il rimborso del debito. La crescita genera la necessità di ulteriore crescita, in una continua rincorsa di promesse impossibili da attuare. Se un ventesimo dei paesi arrivasse alla crescita dell’occidente, collasseremmo. Non è sostenibile per questo pianeta.
Questi paesi, avendo adottato lo stesso modello economico dei paesi sopravvalutati, basato su una esasperata accelerazione della produzione industriale, sono colpiti violentemente dai limiti della crescita. Il caso del Brasile o quello della Grecia sono emblematici: dopo aver sperimentato un notevole aumento dell’attività economica e aver promosso politiche sociali basate sulla crescita, il processo si è arrestato improvvisamente e sono sprofondati in una grave crisi sociale e politica. Ancora, la crescita economica genera sempre la necessità di una maggiore crescita. Nelle società basate sulla crescita, però, il rallentamento di questa equivale a prolungare la recessione economica, un’esplosione nella povertà, un’intensificazione di attività produttive o estrattive e sorgere di movimenti nazionalisti.
Il progresso sociale, la prosperità e il buon vivere sono possibili anche senza una crescita economica? Sì, richiedono uno spostamento verso società con modelli post-crescita o decrescita.
Un po’ più complicato delle riunioni felici barattando la pasta madre, vero? Ma ci vogliono anche quelle, senz’altro. A proposito: questo articolo l’ho scritto mentre il mio compagno preparava la cena.

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