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micromega Guglielmo Forges Davanzati
Una possibile via d’uscita dalla crisi che eviti l’exit italiano e che, al tempo stesso, consenta l’attuazione di politiche fiscali espansive consiste nell’incorrere volontariamente e persistentemente in procedure di infrazione per lo sforamento del vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil. Un’ipotesi tecnicamente fattibile a ragione dei vulnus giuridici dei Trattati e i tempi lunghi della burocrazia europea.
Gli economisti, dallo scoppio della crisi, hanno assunto un rilievo nel dibattito pubblico probabilmente senza precedenti e comunque eccessivo rispetto alla capacità della disciplina di produrre analisi, prescrizioni di politica economica e previsioni affidabili. Molti si sono cimentati nell’ardua impresa di individuare possibili soluzioni tecniche alla crisi dell’Unione Monetaria Europea: impresa ardua e verosimilmente inutile dal momento che qualsiasi soluzione (ammesso che vi sia) è per sua natura politica.
Ciò premesso, in quanto segue si proporrà una possibile via
d’uscita dalla crisi, consapevoli del fatto – richiamato prima – che la
soluzione (ammesso che vi sia) è esclusivamente politica.
In premessa: si accoglierà l’argomento per il quale la lunga
recessione italiana è imputabile esclusivamente all’adozione dell’euro;
si accoglierà la tesi per la quale l’architettura istituzionale europea
implica, per sua natura, l’adozione di politiche di austerità; si
recepirà l’argomento per il quale le politiche di austerità sono alla
base della crisi italiana. Infine, si proporrà un intervento (fin qui, a
nostra conoscenza, mai proposto) che eviti l’exit italiano e che, al
tempo stesso, consenta l’attuazione di politiche fiscali espansive.
La via d’uscita consiste nell’incorrere volontariamente e
persistentemente in procedure di infrazione. Si tratta di questo. Il
Patto di stabilità e crescita prevede due fasi di sanzionamento per un
Paese membro dell’Unione Monetaria Europea che sfori il vincolo del 3%
del rapporto deficit/Pil. È ampiamente noto che quella percentuale non
ha alcun fondamento scientifico e non risponde dunque a nulla di
oggettivo, ma è nei Trattati e ne va tenuto conto. La procedura di
infrazione viene attivata solo nel caso in cui quel Paese non si trovi
in una “circostanza eccezionale”, causata da una recessione nell’ordine
del 2% “prolungata”.
L’articolo 1467/1997 del PDE dispone che nel caso di mancato
rispetto del 3% al Paese inadempiente venga dato un avvertimento (early
warning). Tale avvertimento consiste semplicemente nel chiedere al
Governo di quel Paese di avviare una procedura di rientro, generando
avanzi primari (cioè riducendo la spesa pubblica) entro l’anno
successivo. Qualora ciò non accada, si procede alla seconda fase: si
accorda allo Stato inadempiente un ulteriore anno per ridurre il
deficit. Qualora si persista nell’inadempienza, viene comminata una
sanzione di importo compreso fra lo 0.2% e lo 0.5% del Pil. L’importo
deve essere versato come deposito infruttifero presso la Banca centrale
europea.
Dunque, si tratta di una procedura lunga e, nell’ipotesi estrema, non eccessivamente costosa per chi non rispetta le regole.
Casi di infrazione ci sono stati e sono stati trattati in modo diverso
per Paesi diversi: generalmente, sanzionamenti più severi per i Paesi
mediterranei, meno severi (o del tutto assenti) per Francia e Germania.
Il primo caso di raccomandazione riguardò l’Irlanda nel 2001, alla quale
seguì la raccomandazione per il Portogallo (con “segnalazione
precoce”). Diverso il caso di Francia e Germania nel 2000, nel quale –
diversamente da Irlanda e Portogallo, Paesi che misero subito in atto
politiche di rientro dal deficit – la correzione fu insufficiente e la
commissione europea non diede luogo all’ulteriore passaggio della
sanzione. Va poi ricordato che l’Italia è stata oggetto di due procedure
di infrazione: la prima, nel 2004, conclusasi con il solo avvertimento;
la seconda, avviata nel 2009, si è conclusa ben quattro anni dopo (nel
2013), senza alcun effetto.
L’avvio delle procedure di infrazione fu seguito da attacchi
speculativi e, più in generale, non vi è evidenza su possibili
correlazioni fra aumento del deficit oltre il 3% e reazioni ostili della
finanza sovranazionale. Ciò sembrerebbe suggerire che (i) non vale
l’argomento della perdita di credibilità e del conseguente aumento degli
interessi da pagare sui titoli di Stato; (ii) ciò che muove la vendita
in massa di titoli del debito pubblico (un attacco speculativo, appunto)
non è un eccesso di spesa pubblica. Ed è ragionevole che gli
investitori si comportino in questo modo, dal momento che è loro
esclusivo interesse ottenere il rimborso del credito e che questo
interesse prescinde del tutto da vincoli di natura formale.
Posta la questione in questi termini, e ricordando i caveat posti
in apertura di questa proposta, la disobbedienza ai Trattati (ovvero il
non rispetto del vincolo del 3%), anche per un solo Paese, comporterebbe
formalmente la sua permanenza nell’UME.
Dunque, non si sta qui invocando l’abbandono unilaterale della
moneta unica, né la sua messa in discussione. Si sta, per contro,
ipotizzando un percorso di ripresa della crescita, che segua questo
ordine di eventi:
- Aumento della spesa pubblica finanziata con emissione di
titoli (nell’impossibilità di monetizzarla, dati i vincoli europei),
portando il deficit a un livello tale da garantire il pieno impiego, o
comunque approssimarsi a questo. Ciò soprattutto attraverso un piano di
investimenti pubblici e di assunzioni nel settore pubblico (riprendendo
l’idea di Minsky dello stato occupatore di ultima istanza) e l’adozione
di politiche industriali e di finanziamento della ricerca scientifica
che frenino il drammatico calo della produttività del lavoro e che
rafforzino la struttura produttiva italiana.
- L’aumento dell’occupazione farebbe crescere la base
imponibile, garantendo gettito che, almeno in parte, finanzierebbe
l’iniziale aumento della spesa pubblica e consentirebbe il rimborso dei
debiti contratti e il pagamento della sanzione. Si noti che l’aumento
della spesa pubblica, nel caso italiano, non si tradurrebbe in modo
apprezzabile in maggiori importazioni, dal momento che – come
documentato da ISTAT-ICE – la propensione italiana alle importazioni è
una delle più basse fra i Paesi OCSE.
Questa ipotesi – utilizzare la leva fiscale per fini redistributivi
e per l’attuazione di politiche industriali – si rende tecnicamente
fattibile a ragione dei vulnus giuridici dei Trattati (e dell’ampia
discrezionalità nella loro attuazione, a fronte dell’apparente rigidità
della norma) e i tempi lunghi della burocrazia europea. La disobbedienza
può generare, nel lungo periodo, la decadenza effettiva della norma,
giacché non rispettata e quindi non riconosciuta come cogente. E poiché,
come ampiamente mostrato nel percorso di unificazione europeo, sono le
stesse èlites a modificare le norme, qualora non le ritengano più
convenienti, potrebbe accadere che lo stesso vincolo del 3% sia
giudicato insussistente perché non più rispettato e non più conveniente
se l’interesse effettivo delle èlites è il mantenimento dell’unità
europea.
La possibilità tecnica di stare nell’Unione Monetaria Europea senza
necessariamente adottare misure di austerità mostra che le politiche di
austerità non sono logicamente implicate dall’architettura
istituzionale europea. E l’ipotesi qui prospettata mira a mostrare che
ogni proposta di riforma dell’UME o di uscita unilaterale, anche se
tecnicamente fattibile, incontra esclusivamente vincoli politici.
(24 luglio 2018)
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