Dapprima in Germania e poi in Europa è stata la variante tedesca “ordoliberista”
a vincere il dibattito culturale, così da diffondersi attraverso gli
“apparati ideologici di Stato”, diventando senso comune e creando i
presupposti per un complesso sistema di controllo. Spesso questo avviene
senza percezione da parte della maggioranza della popolazione, tant’è
che vi è una grande confusione in merito al suo effettivo contenuto.
Nelle prossime pagine, si cercherà di fare chiarezza su questo tema,
ricostruendone le idee e il periodo storico nel quale si è affermato.
Il momento fondativo del neoliberismo è collocabile al convegno Walter Lippmann tenutosi a Parigi, nel 1938 e in cui parteciparono, tra gli altri, von Hayek, Röpke e von Rüstow (Dardot e Laval, 2013). Al convegno per la prima volta venne usato il termine “neoliberismo” (Davies, 2014) e questo rappresenta di fatto il primo tentativo di creazione di una vera e propria “Internazionale neoliberista”. Nove anni dopo, nel 1947, Hayek fondò la Mont Pelérin Society con l’obiettivo di darne seguito con un think tank che riunisse tutti gli intellettuali neoliberisti del mondo. La nuova associazione diventerà il baluardo del neoliberismo agendo nell’accademia, nei media e nel business allo scopo di inserire membri e simpatizzanti in ruoli chiave, sia politici che economici, e divenendo famosa grazie anche agli otto premi Nobel assegnati ai suoi membri (tra i quali Milton Friedman e lo stesso Hayek) (Miroski e Plehwe, 2009). La volontà di incidere soprattutto sul cambiamento di lungo periodo ha portato i neoliberisti a combinare produzioni di élite con scritture popolari, analisi teoriche con semplificazioni populiste, produzioni di libri di testo e creazioni di diversi istituti e organismi internazionali, come l’Institute of Economic Affairs (IEA) e il Forum economico mondiale che si svolge ogni anno a Davos in Svizzera (Dardot e Laval, 2013).
All’interno dell’internazionale neoliberista si devono tuttavia distinguere due tendenze: quella Neo-austriaca di Hayek e von Mises e quella tedesca dell’Ordoliberismo.
Comunque, secondo il pensiero dello storico e filosofo Mirowski (2009),
dal punto di vista della storia della scienza economica l’ideologia
ordoliberista e quella neo-austriaca possono essere entrambe assegnate a
ciò che egli ha chiamato un unico “pensiero collettivo neoliberista”.
L’avversione al socialismo e al collettivismo, la libertà individuale e
la libera concorrenza sono il comune denominatore, essendo loro
obiettivo primario quello di costruire un “ordine di concorrenza”
fondato sul meccanismo dei prezzi. Si può vedere una sostanziale
equivalenza tra il concetto di funzione segnaletica del sistema dei
prezzi di cui parla Eucken ed il concetto di concorrenza come “processo
di scoperta” sviluppato da Hayek: per entrambi i prezzi sono il
“principio ordinatore” del mercato (Forte e Felice, 2010, p.15).
Entrambe riconoscono che era in corso, a
partire dalla fine del XIX secolo, una crisi del capitalismo che aveva
provocato un riorientamento dell’azione dello Stato verso politiche
redistributive, di ammortizzazione sociale, di pianificazione e di
protezionismo. Queste politiche venivano percepite come un passo verso
una collettivizzazione dell’economia e quindi, per ostacolarne la
tendenza, si doveva contrapporre una nuova ideologia che riprendesse il
pensiero liberista del XVIII e XIX secolo.
Ciò che, però, differenzia queste
posizioni tra loro è la contrapposta visione del mercato:
“naturalistica” per i neo-austriaci e “costruttivista” per gli
ordoliberisti. Per i primi il mercato è una realtà autonoma con proprie
leggi e meccanismi che, senza alcun intervento esterno, è in grado di
fornire il massimo benessere agli individui; per i secondi il mercato,
per poter funzionare in modo concorrenziale, richiede un ordinamento
attivo da parte dello Stato. Da questa diversa visione derivano
indicazioni differenti sul ruolo dell’intervento pubblico: se i primi
gli riconoscono poca legittimazione, gli altri ritengono fondamentale un
“ordine costituzionale” che fissi in modo chiaro i principi
fondamentali dell’economia e dell’intervento pubblico. Così, l’ideologia
neo-austriaca ha fornito indicazioni verso la privatizzazione delle
imprese pubbliche, la deregolamentazione dei mercati e ha posto l’enfasi
su un ruolo statale limitato alla salvaguardia dai poteri
monopolistici; quella ordoliberista ha spinto invece verso uno Stato
“ordinatore” capace di usare la concorrenza come norma e strumento
dell’attività di governo fino ad occuparsi addirittura di questioni
socio-antropologiche. Queste differenze risultano utili per capire
perché il neoliberismo non si realizzi come un fenomeno internazionale
coerente ed omogeneo, ma crei di volta in volta combinazioni politiche
differenti a seconda delle realtà nazionali sociali, economiche ed
istituzionali incontrate.
In Europa, è stata la visione
ordoliberista a diventare egemone, a partire dal suo successo nella
Repubblica federale tedesca e poi nella successiva costruzione
dell’Unione Europea dal Trattato di Maastricht del 1992 e soprattutto
nella Costituzione del 2005, che poi diventerà il Trattato di Lisbona,
il cui articolo 3 delinea l’obiettivo dell’UE come «un’economia sociale
di mercato altamente competitiva» col riconoscimento delle quattro
libertà del mercato interno (delle persone, dei beni, dei servizi e dei
capitali) come diritti fondamentali dei cittadini europei.
L’ordoliberismo nasce negli anni Trenta a Friburgo da
economisti come Walter Eucken, giuristi come Franz Böhm e Hans
Grossmann-Doerth e sociologi come Alfred Müller-Armack, Wilhelm Röpke e
Alexander von Rüstow. Esso si definisce così perché costituitosi attorno
alla rivista Ordo fondata da Eucken nel 1940 e si afferma come
pensiero e politica dominante con la fondazione della Repubblica
Federale nel 1949 e con la “svolta monetarista” della Bundesbank del
1970, anche attraverso la nomina di Ludwing Erhard a ministro
dell’economia, una posizione mantenuta per quattordici anni consecutivi
(Pühringer, 2016). Il suo dogma è stato “la concorrenza prima di tutto”
(Dardot e Laval, 2013) e la sua “economia sociale di mercato” ha potuto
affermarsi anche grazie alle circostanze politiche della Germania
post-1945, legate soprattutto al fatto che gli Stati Uniti hanno
appoggiato tutte le sue scelte allo scopo di costruire un blocco
antagonista al collettivismo sovietico e che gli economisti di sinistra
erano stati eliminati dai nazisti o erano stati costretti ad emigrare
(Miroski e Plehwe, 2009). Dopo un arresto dell’applicazione delle
politiche ordoliberiste tra gli anni Sessanta e inizio anni Ottanta
quando in tutta Europa si erano affermate politiche economiche
keynesiane, con l’ascesa al potere dell’Unione Cristiano Democratica
(Cdu). In Italia l’economista più affine a questa ideologia è stato
Luigi Einaudi, legato ad alcuni esponenti di spicco della tradizione
ordoliberista, in modo particolare a Wilhelm Röpke (Forte e Felice,
2010). Al suo pensiero si richiama Alberto Alesina che è stato definito
come il suo “pieno erede” nonché il network legato all’Università della
Bocconi, i c.d. “Bocconi Boys”, che comprende economisti come Giavazzi,
Tabellini, Perotti, Ardagna, Trebbi, Schiantarelli, Favero, Angeloni,
Galasso e Grilli (Oddný , 2016).
La caratteristica principale
dell’ideologia ordoliberista è quella di essere una proposta sociale,
politica ed economica che si presenta come una terza via tra il liberismo e l’economia pianificata e può essere definita paradossalmente come un neoliberismo stato-centrico (Bonefeld, 2012). Non si tratta della teorizzazione di un ritorno al dogma del laissez-faire, ma
di una organizzazione economica in cui si costruisce giuridicamente uno
Stato di diritto e un ordine di mercato, la c.d. “economia sociale di
mercato” in cui il termine “sociale” rimanda ad una forma di società
fondata sulla concorrenza come modalità di legame tra gli attori
economici. La concorrenza però non è considerata un fatto naturale, ma
come una creazione contingente del legislatore. È quindi in questa
prospettiva che viene ripensato il ruolo dello Stato: una politica
attiva, tesa alla creazione cosciente di un ordine legale all’interno
del quale l’iniziativa privata può dispiegarsi liberamente, purché
sottomessa alle leggi della concorrenza. Infatti, oltre al totalitarismo
e al collettivismo, sono considerati nemici mortali anche i monopoli, i
cartelli e, in generale, le concentrazioni di potere all’interno dei
mercati causati non da fattori endogeni, ma da politiche di privilegio e
di protezione portate avanti da uno Stato controllato da qualche grande
gruppo di interesse privato.
Onde evitare queste distorsioni le regole fondamentali dell’ordinamento economico e dell’intervento statale vanno costituzionalizzate,
non lasciando alcun spazio ad un interventismo amministrativo che possa
disturbare o intralciare la libertà di azione delle imprese e il
meccanismo di formazione dei prezzi. Per poter stabilire se un’azione
politica è conforme o meno a questo principio, si deve considerare come
discriminante una logica procedurale basata sul rispetto della
concorrenza. Quindi, la grande svolta ideologica rispetto al liberismo
non è tanto la considerazione che il fallimento del mercato deve
autorizzare un intervento statale, quanto piuttosto la teorizzazione
della trasformazione dell’azione pubblica che deve risultare
governata da rigide regole di concorrenza e sottoposta a costrizioni di
efficienza simili a quelle delle imprese private.
Inoltre, la concorrenza deve essere posta alla base non solo del mercato ma anche dell’ordine politico:
l’ideale sociale ordoliberale vagheggia una società di piccoli
imprenditori, in cui nessuno è in grado di esercitare un potere
esclusivo e arbitrario sul mercato e contemporaneamente un regime di
democrazia dei consumatori che esercitano quotidianamente il loro potere
individuale di scelta (Dardot e Laval, 2013, p. 214).
Si configura così un contratto tra
consumatori e Stato, in cui la “costituzione economica”, incoronando la
sovranità del consumatore, incorona anche l’interesse generale. Sempre
in nome dell’interesse generale viene anche ripensata l’idea di
sovranità popolare. Per poter resistere a tutti i gruppi di pressione,
infatti, si riconosce come necessario uno Stato forte governato
da élite competenti che non rappresentino interessi o appetiti
popolari. Per evitare quindi un intervento generalizzato e illimitato
dello Stato, è necessario limitare il potere del popolo alla sola
elezione dei governi e proteggere l’esecutivo dalle interferenze
capricciose delle popolazioni e, se necessario, sospendere
temporaneamente le regole democratiche per poter intervenire in
situazioni di emergenza (Tribe, 2007). In pratica, ciò che è auspicabile
è una de-democratizzazione dello Stato. Questo processo comporta che i dirigenti politici non rispondano più ai propri cittadini, ma al controllo di agenzie di rating
e della comunità finanziaria internazionale. Ciò modifica in modo
sostanziale i rapporti democratici perché, assumendo efficienza e
rendimento finanziario come obiettivi prioritari, il rapporto tra Stato e
cittadini/clienti si trasforma in un mero calcolo di costi/benefici,
ossia tra le tasse pagate e i servizi resi, eliminando qualsiasi
possibilità di partecipazione e di critica che non siano meramente
economiche.
La politica sociale va quindi limitata
ad una legislazione minima a protezione dei lavoratori, operando una
redistribuzione fiscale molto moderata che permetta ad ognuno di poter
continuare a partecipare al “gioco del mercato”. Ma siccome la giustizia
sociale deve essere garantita non solo nella fase della distribuzione
dei profitti, bensì già nel corso del processo di produzione per
minimizzare il numero di persone che possono aver bisogno di assistenza
sociale pubblica, l’ordoliberismo dà allo Stato un altro obiettivo,
quello di trasformare gli individui (Dardot e Laval, 2013). Nel linguaggio degli ordoliberisti questa politica è chiamata Vitalpolitik
e viene descritta come una politica sociale in grado di trasformare i
«lavoratori recalcitranti in imprenditori responsabili del loro lavoro»
(Bonefeld, 2012). Gli individui devono sviluppare capacità
imprenditoriali, che pure sono riconosciute come non naturali e che
devono essere costruite nel tempo, con l’obiettivo finale di farli
arrivare a percepire sé stessi come un’impresa. I lavoratori vanno
trasformati in individui innovativi, competitivi, propensi al rischio,
eternamente mobili, auto-sufficienti e auto-responsabili che
percepiscono la povertà come un incentivo a fare meglio e la
disoccupazione come un’opportunità per migliorare. Questa trasformazione
permetterebbe ai lavoratori di emanciparsi dalla loro condizione di
dipendenza economica, realizzando così la loro piena libertà e
responsabilità.
Innalzare un edificio politico minimale
dell’Unione Europea sulla base dei principi di una economia
concorrenziale di mercato posti a livello costituzionale sembra essere
la concretizzazione perfetta del modello ordoliberista, ma ovviamente
non si tratta di un modello puro affermato in modo univoco e lineare in
tutti i paesi europei, poiché esso si è dovuto adattare, come ogni
ideologia, alle specifiche caratteristiche nazionali.
Bibliografia
Bonefeld, W. (2012), “Freedom and the Strong State: On German Ordoliberalism”, New Political Economy, 17:5
Dardot, P. e Laval, C. (2013), La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma
Davies, W. (2014), “Neoliberism: A Bibliographic Review”, Theory, Culture & Society, Vol. 31 (7/8)
Forte, F. e Felice, F. (a cura di) (2010), Il liberalismo delle regole – Genesi ed eredità dell’economia sociale di mercato, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli
Mirowsi, P. – Plehwe, D. (a cura di) (2009), The Road from Mont Pelérin – The making of the Neoliberal Thought Collective, Harvard University Press, Cambridge – London
Oddný, H (2016), “The Bocconi boys go to Brussels: Italian economic ideas, professional networks and European austerity”, Journal of European Public Policy, 23:3, p. 392-409
Pühringer, S. (2016), “Think Tank networks of German neoliberalism. Power structures in economics and economic policies in post-war Germany”, ICAE Working Paper Series, No.53
Tribe, K. (2007), “Ordoliberalism and the Social Market Economy”, The History of Economic Thought, Volume 49, No. 1
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