È uscita in questi giorni per i tipi de «Il Mulino» la traduzione italiana del libro di Paul De Grauwe I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia?
Si tratta di un testo importante se non altro perché è stato scritto da uno dei maggiori studiosi dell’economia dell’Unione europea, autore del manuale sul quale si formano le nuove generazioni di economisti nelle università di diversi Paesi dell’Unione.
Ma il libro è soprattutto un esempio di
chiarezza nell’esposizione di problemi economici complessi che diventano
immediatamente comprensibili anche per i non addetti ai lavori. De
Grauwe non è un sostenitore di teorie economiche antisistema, ma è anzi
un economista molto ascoltato che insegna alla London School of
Economics: fonda le sue tesi sulle teorie di studiosi sicuramente mainstream come Daniel Kahneman, vincitore del premio Nobel per l’economia 2002, o Raghuram G. Rajan e Luigi Zingales[1], e su teorie politiche di grande successo come quelle di Robinson e Acemoglu[2].
La tesi principale sostenuta nel libro è
che il mercato così come oggi lo conosciamo non ha ancora molto tempo
innanzi a sé e che le prospettive per il futuro sono tutt’altro che
rosee. Il mercato, infatti, rischia di raggiungere presto i suoi limiti e
di andare a sbattere contro un muro. Secondo De Grauwe il muro che il
mercato si troverà innanzi è costruito, innanzitutto, dall’interno
attraverso l’accentuarsi, oltre ogni limite, della diseguaglianza
nella ricchezza materiale. Ciò, alla lunga, non è sostenibile e darà
luogo, come è già avvenuto in passato, a una reazione violenta da parte
di coloro che si vedono privati dei necessari mezzi di sostentamento e
che diventano ogni giorno più numerosi. Ma questo limite interno non è
il solo e non è neanche il più pericoloso. L’altro limite è esterno al
mercato ed è quello ambientale dal momento che il mutamento climatico,
di cui oggi vediamo chiaramente gli effetti, non ha un andamento lineare
e quindi non possiamo prevedere se e quando si verificheranno eventi
catastrofici che sconvolgeranno il sistema economico prima ancora che
raggiunga i suoi limiti interni.
Di questi due gravissimi pericoli che
incombono sul mercato come due pesanti spade di Damocle, il primo è
generato, secondo De Grauwe, dall’errata convinzione maturata dagli
economisti – e acquisita poi dai mercati – che l’uomo si comporti nelle
sue scelte quotidiane come un essere razionale. Senonché è necessario
convincersi che il cosiddetto homo oeconomicus immaginato dagli
studiosi non è, in realtà, quello che determina i comportamenti
individuali. E ciò sarebbe dimostrato, tra l’altro, dagli studi dello
psicologo israeliano Daniel Kahneman, sui comportamenti irrazionali
degli esseri umani nel campo economico. Kahneman «ha sviluppato l’idea –
sono parole di De Grauwe – che all’interno del nostro cervello siano in
funzione due diversi sistemi. Il Sistema 1 è legato al comportamento
emotivo e intuitivo ed è il più antico in termini evolutivi. Questo
governa le emozioni come paura, panico, euforia, simpatia, disgusto e
così via, ed è anche il sistema che regola le emozioni come l’amore e il
sentimento di giustizia. Il Sistema 2 è la parte della mente umana
razionale e calcolatrice. È il sistema che ci porta a soppesare ciò che è
meglio per il nostro benessere, facendo analisi costi-benefici prima di
arrivare a prendere una decisione» (p. 25). Questi due sistemi sono in
lotta tra loro determinando e condizionando nelle diverse contingenze il
comportamento individuale. L’individuo è portato più spesso ad agire
seguendo il Sistema 1, quello irrazionale, soprattutto perché è più
veloce ed è quello più facile da usare. Mentre il Sistema 2 comporta un
notevole sforzo da parte dell’individuo che non sempre viene realizzato:
«Secondo Kahneman, il Sistema 2 è “pigro” e ciò può eventualmente
portare gli individui a fare calcoli non sufficientemente razionali e a
lasciar guidare il processo decisionale al Sistema 1 (il sistema
emotivo)» (p. 26).
Insomma il comportamento irrazionale
finisce per prevalere nelle scelte dei consumatori e anche delle aziende
generando una frattura tra la razionalità individuale e la razionalità
collettiva che mette in crisi le basi stesse su cui si fonda l’idea di
mercato.
Quanto al limite esterno al sistema
economico costituito dalla questione ambientale, De Grauwe sostiene che i
mercati non siano in grado di risolvere da soli il problema delle
esternalità negative, cioè dei danni e delle mutazioni che la produzione
industriale provoca all’ambiente i cui costi non vengono calcolati
dall’economia. «Nel sistema di mercato – sono parole di de Grauwe – non
c’è niente che impedisca alle aziende e ai consumatori di generare costi
esterni a meno che non ci sia uno stato che interviene ponendo un
freno. In altre parole, non esiste un meccanismo regolativo interno per
cui l’ambiente può opporsi ai costi esterni che ricadono su di esso» (p.
73).
Possibili rimedi
Sia per quanto riguarda l’eccesso di
diseguaglianza che per il limite ambientale, l’unico legittimato a
intervenire per correggere la rotta è lo Stato. Si tratta di una ricetta
classica che De Grauwe ritiene l’unica possibile dal momento che non si
vede quale altra istituzione possa impedire che si superino i livelli
tollerabili di diseguaglianza o che si limitino le esternalità negative
prodotte sull’ambiente dal funzionamento del mercato anche contrastando
la volontà e gli interessi dei singoli individui.
Ma De Grauwe non è certo un sovranista alla Trump,
tutt’altro. L’economista della LSE non crede affatto che bisogna
ridurre le imposte. Pensa, invece, che sia giunto il momento di tassare i
redditi e i patrimoni più elevati per porre mano a una significativa
politica redistributiva volta a diminuire il livello di diseguaglianza.
Solo un’azione di questo tipo potrebbe salvare il libero mercato e
sanare quella che Stiglitz ha chiamato la «grande frattura» tra chi ha
troppo e mira ad avere sempre di più e chi rischia di non avere più
nulla. «Una drastica politica di redistribuzione focalizzata sui più
ricchi che ricevono redditi estremamente alti, andrebbe pertanto a
beneficio del sistema di mercato, rafforzando nella società il sostegno
al sistema ed evitando che esso si scontri con i suoi limiti interni»
(p. 92).
Lo Stato, dicevamo, è l’unica
istituzione in grado di prendere questo tipo di decisioni anche contro
la volontà dei più ricchi. Secondo De Grauwe, perché lo Stato possa
redistribuire non può essere che una istituzione democratica fortemente
inclusiva che rispetti gli interessi di tutti, ma che torni a scegliere
di perseguire gli interessi collettivi risolvendo nel modo più adeguato,
per gli individui e per il mercato, il problema dello scontro tra
razionalità individuale e razionalità collettiva. Solo lo Stato
democratico può garantire la giusta misura degli interventi
redistributivi in modo da interrompere il processo di demolizione degli
istituti di welfare e, al tempo stesso, di non danneggiare l’economia
impedendo la produzione di ricchezza attraverso un eccesso di
pianificazione economica. La conclusione di De Grauwe è la seguente: «lo
stato può proseguire nella politica redistributiva solo fino a quando
la prosperità materiale non ne viene danneggiata. Nell’Europa
occidentale e in Nord America siamo ben lontani da quel punto. Nel caso
questa soglia dovesse essere superata gli stati raggiungerebbero i loro
limiti, e vi sarebbero buone probabilità che il loro ruolo nell’economia
venga risospinto indietro» (p. 111).
In questa oscillazione di corsi e ricorsi storici tra un eccesso di pianificazione e un eccesso di laissez faire,
De Grauwe individua il pendolo dell’economia che in questo momento è
troppo spostato verso il mercato rischiando di provocare danni enormi al
sistema economico. È necessario rispingere/reindirizzare il pendolo
verso il centro del suo percorso attraverso un intervento dall’esterno
che non sia a sua volta troppo invasivo per non spostare eccessivamente
il pendolo dall’altra parte.
Ma l’economista della LSE tiene a
chiarire bene il punto: «la vecchia discussione se il mercato sia più
importante dello stato o viceversa non ci porta da nessuna parte. La
sola domanda che vale la pena di porsi è in che modo la divisione del
lavoro tra il mercato e lo stato possa essere organizzata al meglio» (p.
119).
Sull’unione monetaria europea
Anche sulla questione dell’unione monetaria,
De Grauwe non fa sconti. La zona euro è fortemente squilibrata e tale
squilibrio va corretto perché, da un lato, non consente all’Europa di
reagire adeguatamente alle crisi economiche e, dall’altro, espone alla
speculazione internazionale gli Stati fortemente indebitati.
Sul primo punto Da Grauwe fornisce una
prova evidente comparando la reazione alla crisi del 2008 negli Stati
Uniti e nel Vecchio Continente e confrontandola con la reazione alla
grande crisi del ’29: «mentre il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno
visto una ripresa (sebbene debole), nel 2011-2012 l’eurozona è ritornata
in recessione. Questa recessione è stata particolarmente profonda nei
paesi dell’Europa meridionale (più l’Irlanda) e ha portato a un
drammatico aumento della disoccupazione.
In alcuni paesi, come Grecia e Spagna, la disoccupazione è salita a
oltre il 30 %, una situazione che ricorda la Grande depressione anni
Trenta». La seconda recessione è stata causata da un problema
strutturale dell’Unione europea: «l’assenza di banche centrali che
supportano i governi nazionali ha fatto andare nel panico molti mercati e
ha obbligato i governi ad attuare misure di austerità eccessivamente
restrittive. Ciò ha portato a sua volta a un netto crollo della domanda
complessiva di beni e servizi in un momento in cui l’economia doveva
ancora riprendersi. La conseguenza è stata una doppia caduta nella
recessione, che ha impedito ai governi di mantenere i disavanzi sotto
controllo e che, a causa del crollo del Pil [il denominatore del
rapporto], ha finito anche per far aumentare bruscamente il rapporto
debito/Pil» (p. 173-4).
In conclusione, De Grauwe è convinto che
si possa ancora intervenire sull’economia europea e che lo si possa
fare attraverso la collaborazione di tutti gli Stati democratici perché
la democrazia è ancora il miglior modo per rappresentare efficacemente
gli interessi comuni e per prendere decisioni non a favore dei pochi più
ricchi, ma dell’intera collettività.
Nonostante i venti populisti che spirano
sull’Europa, De Grauwe pensa che la democrazia possa ancora essere
efficace e abbia solidi argomenti per correggere il sistema economico
nel senso dell’equità e della giustizia sociale senza compromettere il
consenso diffuso per il libero mercato.
Qualche considerazione conclusiva
Come ha recentemente evidenziato Vittorio Emanuele Parsi[3],
l’ordine liberale che ha governato gli equilibri politici nelle
democrazie occidentali e a livello internazionale fino agli anni
Settanta del secolo scorso, era un ordine progressista perché basato
sulla redistribuzione e su una ragionata e sostenibile estensione dei
diritti sociali a una sempre più ampia fetta di popolazione. La
direzione, almeno in Occidente, era quella dell’espansione del ceto
medio diretta alla creazione e alla stabilizzazione di una «società dei
due terzi».
Negli anni Settanta e Ottanta del secolo
scorso si è determinata una discontinuità dovuta alla crisi petrolifera
degli anni Settanta e soprattutto alle modalità scelte per contrastare
tale crisi soprattutto a partire dai governi di Margareth Thatcher in
Inghilterra e di Ronald Reagan negli Stati Uniti.
La ricetta pressoché esclusiva in
economia diventa quella della Scuola di Chicago che vuole lo Stato fuori
dall’economia e il governo quanto più possibile lontano dalla
produzione diretta di beni o di servizi sulla base di uno slogan
largamente condiviso secondo cui lo Stato era il problema e non la
soluzione.
Da allora si può dire che le politiche
economiche perseguite nelle grandi democrazie occidentali non sono mai
cambiate anche durante i periodi di governi sostenute da forze politiche
che provenivano da una tradizione liberale progressista o
social-democratica. La direzione di fondo è stata, costantemente, quella
dell’estensione dei settori di libero mercato e del ritiro sistematico
dello Stato da tutte le attività economiche.
Del resto già all’inizio degli anni
Settanta del secolo scorso, Jürgen Habermas aveva affrontato il problema
della crisi del «capitalismo maturo» ricordando che il pensiero
liberale aveva reso stabile, su un arco temporale relativamente lungo,
l’equilibrio tra economia e politica riuscendo a dare «forza vincolante a
sistemi di valori rigorosamente universalistici, poiché il traffico di
scambio stesso doveva essere regolato universalisticamente»[4].
Habermas aveva anche chiarito come alla
crisi del «capitalismo maturo» faceva da sfondo la crisi della
democrazia che aveva trasformato radicalmente la sua natura sulla base
delle teorie funzionaliste allora dominanti: «per democrazia non si
intendono più le condizioni nelle quali tutti gli interessi legittimi
possono essere soddisfatti seguendo la via della realizzazione
dell’interesse fondamentale per l’autodeterminazione e la
partecipazione; essa è ormai intesa solo come chiave di distribuzione di
indennizzi conformi al sistema, o come un regolatore per il
soddisfacimento di interessi privati; questa democrazia rende possibile
il benessere senza libertà»[5].
Oggi De Grauwe, un economista pienamente
inserito nella cultura economica dominante, chiede agli Stati
democratici e all’Unione europea di prendere finalmente quelle decisioni
politiche che dovrebbero evitare che il mercato provochi il suo stesso
crollo, rinnovando il compromesso che ha dato vita a quella forma di
capitalismo democratico che è tipica delle moderne democrazie
occidentali.
Queste ultime appaiono oggi in seria
difficoltà proprio perché ridotte a mere forme procedurali e dominate
dai particolarismi nazionali, mentre le maggioranze politiche sembrano
costruirsi sulle frustrazioni e insoddisfazioni delle classi medie
ignorando le questioni più importanti. Non a caso mentre l’Unione
europea è in grave difficoltà sia sulla questione delle migrazioni, sia
sulle trattative per la Brexit,
si riaprono guerre commerciali tra i grandi Stati nazionali dovute alla
decisione degli Stati Uniti di imporre dazi sui prodotti provenienti
dalla Cina e dal Vecchio Continente.
L’intervento dello Stato proposto da De
Grauwe deve, inoltre, fare i conti con un’ulteriore difficoltà.
L’economista della LSE propone, infatti, un rimedio che è ancora
sostanzialmente basato su una dimensione normativa senza tener conto
della difficoltà di tale dimensione. Come ha spiegato Saskia Sassen, si
va affermando una nuova normatività che «proviene dal mondo del potere
privato ma si colloca nel dominio del pubblico»[6].
Ciò significa che non solo la politica economica oscilla tra mercato e
pianificazione, come sostenuto da De Grauwe, ma anche i rapporti tra
diritto ed economia hanno un andamento ciclico e che il diritto rischia,
soprattutto nell’attuale fase di espansione della razionalità
economica, di diventare una semplice infrastruttura di cui l’economia si
serve per raggiungere i propri obiettivi[7].
*Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa”
[1] Cfr. R.G. Rajan-L. Zingales, Salvare il capitalismo dai capitalisti, Einaudi, Torino, 2004.
[2] Cfr. D. Acemoglu-J. Robinson, Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity, and Povertyœ, New York, Crown, 2012.
[3] Si veda V.E. Parsi, Titanic. La fine dell’ordine liberale, Il Mulino, Bologna, 2018.
[4] J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari, 1979 (1° ed. italiana 1975) [ed. or.: Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M., 1973], p. 97.
[5] J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari, 1979 (1° ed. italiana 1975) [ed. or.: Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M., 1973], p. 137.
[6] S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino, 2008 [ed.or.: A Sociology of Globalization, Oxford, W.W. Norton & Company, Inc., 2007], p. 39.
[7] Sul punto si veda N. Irti-E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari, 2001 e A. Sandulli, Il ruolo del diritto in Europa. L’integrazione europea dalla prospettiva del diritto amministrativo, FrancoAngeli, Milano, 2018.
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