giovedì 26 luglio 2018

Disobbedire al 3%: come restare nell’Unione europea senza austerità

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di Guglielmo Forges Davanzati
Gli economisti, dallo scoppio della crisi, hanno assunto un rilievo nel dibattito pubblico probabilmente senza precedenti e comunque eccessivo rispetto alla capacità della disciplina di produrre analisi, prescrizioni di politica economica e previsioni affidabili. Molti si sono cimentati nell’ardua impresa di individuare possibili soluzioni tecniche alla crisi dell’Unione Monetaria Europea: impresa ardua e verosimilmente inutile dal momento che qualsiasi soluzione (ammesso che vi sia) è per sua natura politica.

Ciò premesso, in quanto segue si proporrà una possibile via d’uscita dalla crisi, consapevoli del fatto – richiamato prima – che la soluzione (ammesso che vi sia) è esclusivamente politica.

In premessa: si accoglierà l’argomento per il quale la lunga recessione italiana è imputabile esclusivamente all’adozione dell’euro; si accoglierà la tesi per la quale l’architettura istituzionale europea implica, per sua natura, l’adozione di politiche di austerità; si recepirà l’argomento per il quale le politiche di austerità sono alla base della crisi italiana. Infine, si proporrà un intervento (fin qui, a nostra conoscenza, mai proposto) che eviti l’exit italiano e che, al tempo stesso, consenta l’attuazione di politiche fiscali espansive.

La via d’uscita consiste nell’incorrere volontariamente e persistentemente in procedure di infrazione. Si tratta di questo. Il Patto di stabilità e crescita prevede due fasi di sanzionamento per un Paese membro dell’Unione Monetaria Europea che sfori il vincolo del 3% del rapporto deficit/Pil. È ampiamente noto che quella percentuale non ha alcun fondamento scientifico e non risponde dunque a nulla di oggettivo, ma è nei Trattati e ne va tenuto conto. La procedura di infrazione viene attivata solo nel caso in cui quel Paese non si trovi in una “circostanza eccezionale”, causata da una recessione nell’ordine del 2% “prolungata”.

L’articolo 1467/1997 del PDE dispone che nel caso di mancato rispetto del 3% al Paese inadempiente venga dato un avvertimento (early warning). Tale avvertimento consiste semplicemente nel chiedere al Governo di quel Paese di avviare una procedura di rientro, generando avanzi primari (cioè riducendo la spesa pubblica) entro l’anno successivo. Qualora ciò non accada, si procede alla seconda fase: si accorda allo Stato inadempiente un ulteriore anno per ridurre il deficit. Qualora si persista nell’inadempienza, viene comminata una sanzione di importo compreso fra lo 0.2% e lo 0.5% del Pil. L’importo deve essere versato come deposito infruttifero presso la Banca centrale europea.

Dunque, si tratta di una procedura lunga e, nell’ipotesi estrema, non eccessivamente costosa per chi non rispetta le regole.
Casi di infrazione ci sono stati e sono stati trattati in modo diverso per Paesi diversi: generalmente, sanzionamenti più severi per i Paesi mediterranei, meno severi (o del tutto assenti) per Francia e Germania. Il primo caso di raccomandazione riguardò l’Irlanda nel 2001, alla quale seguì la raccomandazione per il Portogallo (con “segnalazione precoce”). Diverso il caso di Francia e Germania nel 2000, nel quale – diversamente da Irlanda e Portogallo, Paesi che misero subito in atto politiche di rientro dal deficit – la correzione fu insufficiente e la commissione europea non diede luogo all’ulteriore passaggio della sanzione. Va poi ricordato che l’Italia è stata oggetto di due procedure di infrazione: la prima, nel 2004, conclusasi con il solo avvertimento; la seconda, avviata nel 2009, si è conclusa ben quattro anni dopo (nel 2013), senza alcun effetto.

L’avvio delle procedure di infrazione fu seguito da attacchi speculativi e, più in generale, non vi è evidenza su possibili correlazioni fra aumento del deficit oltre il 3% e reazioni ostili della finanza sovranazionale. Ciò sembrerebbe suggerire che (i) non vale l’argomento della perdita di credibilità e del conseguente aumento degli interessi da pagare sui titoli di Stato; (ii) ciò che muove la vendita in massa di titoli del debito pubblico (un attacco speculativo, appunto) non è un eccesso di spesa pubblica. Ed è ragionevole che gli investitori si comportino in questo modo, dal momento che è loro esclusivo interesse ottenere il rimborso del credito e che questo interesse prescinde del tutto da vincoli di natura formale.

Posta la questione in questi termini, e ricordando i caveat posti in apertura di questa proposta, la disobbedienza ai Trattati (ovvero il non rispetto del vincolo del 3%), anche per un solo Paese, comporterebbe formalmente la sua permanenza nell’UME.

Dunque, non si sta qui invocando l’abbandono unilaterale della moneta unica, né la sua messa in discussione. Si sta, per contro, ipotizzando un percorso di ripresa della crescita, che segua questo ordine di eventi:

-    Aumento della spesa pubblica finanziata con emissione di titoli (nell’impossibilità di monetizzarla, dati i vincoli europei), portando il deficit a un livello tale da garantire il pieno impiego, o comunque approssimarsi a questo. Ciò soprattutto attraverso un piano di investimenti pubblici e di assunzioni nel settore pubblico (riprendendo l’idea di Minsky dello stato occupatore di ultima istanza) e l’adozione di politiche industriali e di finanziamento della ricerca scientifica che frenino il drammatico calo della produttività del lavoro e che rafforzino la struttura produttiva italiana. 

-    L’aumento dell’occupazione farebbe crescere la base imponibile, garantendo gettito che, almeno in parte, finanzierebbe l’iniziale aumento della spesa pubblica e consentirebbe il rimborso dei debiti contratti e il pagamento della sanzione. Si noti che l’aumento della spesa pubblica, nel caso italiano, non si tradurrebbe in modo apprezzabile in maggiori importazioni, dal momento che – come documentato da ISTAT-ICE – la propensione italiana alle importazioni è una delle più basse fra i Paesi OCSE.

-    L’aumento dell’occupazione produrrebbe maggiore crescita, rendendo quindi maggiormente sostenibile la dinamica del debito pubblico.

Questa ipotesi – utilizzare la leva fiscale per fini redistributivi e per l’attuazione di politiche industriali –  si rende tecnicamente fattibile a ragione dei vulnus giuridici dei Trattati (e dell’ampia discrezionalità nella loro attuazione, a fronte dell’apparente rigidità della norma) e i tempi lunghi della burocrazia europea. La disobbedienza può generare, nel lungo periodo, la decadenza effettiva della norma, giacché non rispettata e quindi non riconosciuta come cogente. E poiché, come ampiamente mostrato nel percorso di unificazione europeo, sono le stesse èlites a modificare le norme, qualora non le ritengano più convenienti, potrebbe accadere che lo stesso vincolo del 3% sia giudicato insussistente perché non più rispettato e non più conveniente se l’interesse effettivo delle èlites è il mantenimento dell’unità europea.  

La possibilità tecnica di stare nell’Unione Monetaria Europea senza necessariamente adottare misure di austerità mostra che le politiche di austerità non sono logicamente implicate dall’architettura istituzionale europea. E l’ipotesi qui prospettata mira a mostrare che ogni proposta di riforma dell’UME o di uscita unilaterale, anche se tecnicamente fattibile, incontra esclusivamente vincoli politici. 

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