Sergio
Marchionne è stato un funzionario del capitale ed in particolare della
famiglia Agnelli, in assoluta continuità con la storia dell’azienda e
della sua proprietà. Così vanno giudicati la sua opera e gli effetti di
essa, oltre il rispetto che sempre si deve di fronte alla morte dolorosa
e prematura di una persona.
Nel
dopoguerra il gruppo Fiat e la famiglia Agnelli hanno usufruito di tre
manager che hanno fatto la storia dell’azienda e segnato quella del
paese. Il primo fu Vittorio Valletta, che assunse il potere assoluto in
Fiat nel 1945, dopo che il proprietario dell’azienda e capostipite della
famiglia, il senatore del regno Giovanni Agnelli, fu epurato per la sua
smaccata identificazione e collaborazione col regime fascista.
Valletta
fu il primo dei manager che salvarono la Fiat e soprattutto la famiglia
proprietaria. La salvò dall’esproprio per collaborazionismo coi
nazisti, esproprio che invece toccò alla Renault in Francia, e poi la
rilanciò facendo dell’azienda uno dei grandi motori dello sviluppo
industriale del paese. Per realizzare questo obiettivo Valletta perseguì
la sottomissione totale degli operai ai ritmi più feroci dello
sfruttamento, usò le risorse del paese e in particolare l’immigrazione
di massa al nord, ed infine fece della persecuzione contro la Fiom e i
suoi militanti la propria bandiera. Con le discriminazioni, i reparti
confino, i licenziamenti ed anche con strumenti eversivi, come le
schedature e lo spionaggio delle persone, usando persino apparati dello
stato deviati che poi sarebbero stati coinvolti nella strategia della
tensione degli anni 70. Per questa sua scelta ferocemente antisindacale e
autoritaria Valletta divenne un emblema della politica e dei governi
degli anni ‘50.
Nel
1966 Valletta fu destituito da Gianni Agnelli, il nipote di Giovanni
che voleva riprendere le redini dell’azienda dopo una lunga esperienza
di playboy internazionale, e solo un anno dopo morì. Le celebrazioni sui
grandi giornali di allora furono uguali a quelle attuali per
Marchionne.
Alla
fine degli anni ‘70 la Fiat era di nuovo in crisi, perché di fronte
alla sfida delle grandi lotte operaie e alla conquista da parte del
lavoro di diritti e dignità, non era stata in grado né di rispondere con
adeguata innovazione ed investimenti, né con un vero cambiamento nella
gestione aziendale e nelle relazioni con i dipendenti. I fratelli
Agnelli, Gianni ed Umberto, si fecero da parte nella gestione diretta
del gruppo che fu affidata a Cesare Romiti.
In una intervista a La Repubblica
nell’estate del 1980 Umberto Agnelli preannunciò licenziamenti di massa
per rendere l’azienda competitiva e ricevette il sostegno del ministro
del tesoro Andreatta. Romiti condusse l’attacco frontale al sindacato e
alla fine di trentacinque giorni di lotta vinse, mettendo decine di
migliaia di dipendenti in cassa integrazione. E così negli anni ‘80
l’impresa assunse nella società italiana quella centralità che prima
aveva conquistato il lavoro. La sconfitta operaia di fronte alla Fiat di
Romiti aveva indicato la direzione di marcia a tutto il potere
politico, la svolta liberista che avrebbe conquistato tutto il paese
cominciava in fabbrica. Craxi colpì il salario con il taglio e l’avvio
della distruzione della scala mobile e poco dopo Prodi, da presidente
IRI, donò l’Alfa Romeo alla Fiat, che così divenne il solo produttore
italiano di automobili.
Ma
la cura Romiti, se aveva risanato i profitti della famiglia Agnelli,
non aveva fatto crescere adeguatamente la forza industriale del gruppo,
che già all’inizio degli anni ‘90 era di nuovo in crisi. Nel 1994 la
Fiat colpiva con la cassa integrazione la massa di quegli impiegati e
capi che nel 1980 avevano organizzato una decisiva manifestazione contro
gli operai in lotta. La gratitudine non è mai stata una caratteristica
aziendale.
La
Fiat aveva ancora una volta bisogno di investimenti e ricerca e ancora
una volta la proprietà si mostrava assolutamente sorda a questo
richiamo. Anche perché in quegli anni la famiglia Agnelli aveva tentato
di creare una seconda corporation, entrando nella Telecom, in Banca
Intesa e in tante altre imprese che con la produzione di auto nulla
avevano a che fare. Fu un’operazione fallimentare, la seconda
conglomerata Fiat crollò e la famiglia Agnelli dovette abbandonare tutte
le aziende che credeva conquistate, mentre nel frattempo la prima Fiat,
quella industriale, perdeva posizioni per mancanza di adeguati
prodotti.
Nel
1998 Cesare Romiti lasciò l’azienda, e anche per lui, per sua fortuna
vivente, ci furono pubblici elogi come salvatore dell’azienda e come
manager che aveva saputo indirizzare non solo la Fiat, ma tutto il paese
verso la via della competitività, distruggendo i vincoli e lacciuoli
dei contratti e dei diritti del lavoro.
La
gestione Fiat tornò alla famiglia Agnelli e a vari manager avvicendati e
l’azienda precipitò verso il fallimento. Nel 2004 la Fiat era di
proprietà delle banche, che si erano svenate per un piano di salvataggio
senza precedenti nel paese, e al suo capezzale venne chiamato il vice
presidente dell’Unione Banche Svizzere, Sergio Marchionne.
Marchionne
ha salvato la Fiat come azienda industriale italiana? Sicuramente no.
Seguendo la traccia dei suoi predecessori, Valletta e Romiti, Marchionne
ha lavorato prima di tutto per gli interessi della famiglia Agnelli,
oramai assai numerosa e fermamente interessata in tutte le sue
componenti ad una quota certa di profitti. Se nel passato era stato
ancora possibile far parzialmente coincidere gli interessi della
proprietà familiare con quelli dello sviluppo industriale dell’azienda,
ora questo non si poteva più fare.
La
proprietà, che addirittura aveva cercato di sbarazzarsi della
produzione di automobili rifilandola a General Motors, non aveva certo
intenzione di svenarsi per recuperare l’enorme gap tecnologico e di
prodotti accumulato dal gruppo. Ci sarebbero voluti almeno 20 miliardi
di investimenti, quelli che Sergio Marchionne avrebbe promesso
successivamente, quando decise di abolire il contratto nazionale. Di
quei 20 miliardi, che avrebbero dovuto rilanciare quella che Marchionne
chiamò la Fabbrica Italia, si sono perse tutte le tracce in azienda e
anche sui giornali di questi giorni.
La
Fiat è stata salvata in un altro modo, con l’intervento dello Stato,
non di quello italiano ma di quello statunitense. Fu il salvataggio
pubblico della Chrysler voluto da Obama a permettere alla Fiat di
evitare il fallimento e di questo va dato merito alla intelligenza
politico-finanziaria di Marchionne, che seppe vedere l’affare là dove la
Mercedes era fuggita.
La
Fiat salvò la Chrysler e fu salvata, naturalmente al prezzo di essere
assorbita nella multinazionale americana, di cui ora è la succursale
povera. Non esiste più una industria automobilistica italiana e non solo
perché la sede fiscale del gruppo FCA, nel quale la Fiat è assorbita,
sta a Londra e quella legale in Olanda. Dove si è localizzata anche la
finanziaria della famiglia Agnelli, la Exxor.
Anche
la famiglia Agnelli, ora guidata da John Elkann, non è più una famiglia
imprenditorialmente italiana. E’ diventata una famiglia del capitalismo
globale proprio durante la gestione Marchionne, anche se il progetto
probabilmente veniva da lontano. Perché tra i soci fondatori del gruppo
Bildeberg, la famigerata lobby finanziaria internazionale, figurava
proprio Vittorio Valletta.
Oggi
la produzione di auto in Italia è ridotta al lumicino, con
l’occupazione dimezzata da quando Marchionne divenne amministratore
delegato della Fiat. Progettazione e ricerca sono state smantellate e
non vi sono nuovi modelli in arrivo, tanto è vero che in tutti gli
stabilimenti residui dilaga la cassa integrazione. Certo resta la
gallina delle uova d’oro Ferrari, che non a caso è stata scorporata
dalla Fiat e val più di essa. Ma anche Ferrari oramai è stata
finanziarizzata all’estero e in ogni caso non potrà mai avere una
produzione industriale di massa.
Il
lascito industriale di Marchionne è quello della trasformazione della
Fiat in una multinazionale americana con l’italia come sede marginale,
quello finanziario è l’esternalizzazione delle proprietà della famiglia
Agnelli, e quello sociale e politico?
Qui
c’è il tratto più comune tra i tre manager che hanno fatto la storia
della Fiat dal 1945 ad oggi: il rifiuto del sindacato solidale e di
classe e la lotta feroce per eliminarlo dagli stabilimenti Fiat. Tutti e
tre gli amministratori delegati si sono ispirati a modelli esteri in
questa loro opera. Valletta alla violenza antisindacale di Henry Ford e
alla costruzione di sindacati di comodo in azienda, con cui stipulare
contratti al ribasso. In realtà Valletta realizzò tutti i suoi
obiettivi, la messa al confino della Fiom, la costituzione di un
sindacato aziendale giallo da una scissione della Cisl con il Sida, oggi
Fismic, la soppressione di ogni libertà dei lavoratori; tutti tranne
uno: la realizzazione di un contratto solo per i lavoratori Fiat.
Obiettivo
che fu invece raggiunto da Marchionne, quando con il ricatto della
chiusura degli stabilimenti, con la complicità di Cisl-Uil e di tutta la
politica ufficiale, impose ai lavoratori la rinuncia al contratto
nazionale, mentre la Fiat abbandonava la Confindustria.
Romiti
avrebbe invece voluto che nelle sue fabbriche si applicasse il modello
giapponese di collaborazione e valorizzazione di un lavoro capace di
essere fedele all’azienda. Dopo la dura repressione antisindacale degli
anni ‘80, di cui elemento fondamentale fu l’uso discriminatorio della
cassa integrazione, Romiti tentò di introdurre il modello di lavoro
giapponese in particolare nello stabilimento di Rivalta a Torino e nella
nuova fabbrica insediata a Melfi negli anni 90. Ora però Rivalta è
chiusa, ciò che resta di essa non è più Fiat, mentre a Melfi, sotto la
gestione Marchionne è stato introdotto il sistema di tempi chiamato Ergo
Was, cioè il più brutale e faticoso metodo fordista di lavoro.
In
un certo senso dunque Marchionne ha portato a compimento il modello di
Valletta, con una differenza fondamentale. Nel secolo scorso quel
modello autoritario e discriminatorio si realizzava in un gruppo ed in
un paese in grande espansione, tanto é vero che allora i salari Fiat
erano più alti rispetto alla media del paese. Oggi invece il salario di
un operaio Fiat è tra i più bassi, ed il gruppo riduce progressivamente
occupazione e produzioni in Italia.
Sia
con Valletta, che con Romiti che con Marchionne la persecuzione dei
lavoratori ribelli o scomodi ha prodotto drammi e tragedie. I licenziati
per discriminazione politica e sindacale degli anni ‘50 subirono
sofferenze enormi. I cassaintegrati degli anni ‘80 pure e decine di essi
si suicidarono, così come accadde di nuovo recentemente. Maria Baratto
si uccise pochi anni fa a Pomigliano dopo anni di cassa integrazione
discriminatoria. E cinque operai che protestavano contro quel suicidio
furono licenziati per offese a Marchionne.
Non è una questione di essere buoni o cattivi, è che non si governa la Fiat innocentemente.
Oggi
Sergio Marchionne viene presentato come un innovatore a cui il paese
avrebbe dovuto dare maggiore ascolto. Ma in realtà lo ha fatto: il
Jobsact, come ha affermato lo stesso Renzi, è stato ispirato dalle
posizioni sindacali e contrattuali di Marchionne. Come nel passato, le
vittorie contro i diritti dei lavoratori dei manager Fiat sono diventate
l’esempio da seguire per tutta la società. Un esempio regressivo.
Marchionne, come tutti i suoi predecessori, non ha difeso gli interessi del lavoro o del paese, ma quelli della proprietà.
Una proprietà, quella della famiglia Agnelli, sempre più gaudente ed
avara, della quale tutto si può dire tranne che faccia gli interessi di
tutti.
È
questa proprietà che periodicamente i grandi manager Fiat hanno
salvato, ultimo Marchionne. Era la loro missione e questa hanno
realizzato.
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