domenica 29 luglio 2018

2013 - Ecco la vera storia della banda Sacco Camilleri scrive un «western mafioso»

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Esce da Sellerio un romanzo ambientato negli anni Venti

Esce da Sellerio un romanzo ambientato negli anni Venti
PALERMO - Quando aveva sei anni Filippo, nipote di Andrea Camilleri, imparò a tuffarsi in mare e a prendere i ricci. Il suo insegnante in queste specifiche materie era un signore dai modi affabili ed estremamente perbene, che si chiamava Giovanni Sacco, perito tecnico del comune di Porto Empedocle. Un giorno, Giovanni Sacco andò a trovare Andrea Camilleri e gli consegnò un voluminoso incartamento contenente la trascrizione di un processo e un memoriale. Era la storia della famiglia Sacco. I fratelli Sacco erano cinque: Vincenzo, Salvatore, Vanni, Girolamo (genitore del perito tecnico), Filomena e Alfonso. Erano di Raffadali, in provincia di Agrigento. Il padre, Luigi, era poverissimo e cominciò a fare qualche soldo innestando alberi di pistacchio e acchiappando mosche per conto di un farmacista, quelle mosche speciali da cui si otteneva la cantaride, il viagra dell’epoca. Così compra un po’ di terreno. I figli lo aiutano nel lavoro e la fattoria fiorisce. I ragazzi vanno in guerra, quella del 15-18, dove si fanno onore. Tornati dal fronte, gli intraprendenti fratelli aprono un mulino, comprano un autobus che fa servizio postale e passeggeri per Agrigento. Vincenzo, nei giorni di festa, fa il fotografo di matrimoni, battesimi e funerali.

Al principio degli anni Venti la loro vita si può definire agiata. Ma un giorno arriva una lettera anonima al padre Luigi. L’uomo non sa leggere. Gliela legge, la sera, davanti al camino, Alfonso, il figlio che dovrebbe diventare avvocato secondo i piani paterni. È una lettera della mafia che reclama la sua parte. Luigi getta la lettera nel fuoco. La breve storia felice della famiglia Sacco finisce così.
Andrea Camilleri ha scritto tanti libri e di generi diversi (gialli, storici, erotici, comici, per ragazzi) ma non aveva ancora scritto un western. La banda Sacco (Sellerio) è una «Sfida all’O.k. Corral», un «Nessuna pietà per Ulzana», un «Cavalcarono insieme» (che belli che sono i titoli dei film western). Noi italiani abbiamo fatto sempre (dal cinema ai fumetti) bellissimi western, tanto da gareggiare (come ha testimoniato Quentin Tarantino con «Django Unchained») con i padri fondatori del genere. Ma senza nulla togliere a Tex e a Sergio Leone, il western nazionale più western di tutti sono state le storie di mafia, i western di cose nostre, come si intitolava un bellissimo racconto di Leonardo Sciascia, da cui fu tratto un film sceneggiato proprio da Camilleri.
Il rapporto di Camilleri con il genere western comincia dall’infanzia. Ce lo racconta lui stesso: «Quando cominciai a frequentare il cinematografo del mio paese, a sei anni, si proiettavano soltanto film western con Tom Mix, dove era più bravo il cavallo dell’attore, e film di Tarzan con Johnny Weissmuller. Se il pubblico protestava la pellicola veniva immancabilmente sostituita con «La vedova allegra» di Lubitsch che ho visto, perciò, almeno una ventina di volte e che considero da sempre una pietra miliare della mia vita».
Lo scrittore ha avuto un buon rapporto anche con il western all’italiana. «Ho perfino scritto un soggetto che dimenticai di avere scritto e che per caso riconobbi trasmesso in televisione e di cui mi sono dimenticato il titolo…». E forse proprio grazie a questo precedente nel romanzo ci sono almeno due scene che farebbero la felicità di Tarantino. Nella prima i fratelli Sacco sparano a scopo intimidatorio una serie di colpi di fucile in rapidissima successione e stampano la sagoma dell’avvocato C. (eminenza grigia dei mafiosi) sopra al legno della porta che stava per chiudere alla fine di una riunione tra uomini d’onore. L’uomo cade a terra svenuto. Nella seconda scena gli oltre duecento uomini delle forze speciali agli ordini del prefetto Mori (il prefetto di ferro inviato in Sicilia da Mussolini per sterminare la mafia) circondano la casa in cui sono asserragliati i Sacco e cominciano a sparare, come un plotone d’esecuzione, quando questi escono arrendendosi con le mani in alto. Camilleri opportunamente scrive: «Pari in tutto e per tutto una scena di pillicula western». Poi quello che resta della banda viene fatto salire su un camion scoperto e portato in giro per le strade di Raffadali mentre il parroco (amico dei Sacco) suona la campana a morto, non per i caduti nello scontro ma perché è morta la speranza che la mafia possa essere sconfitta (come erano quasi riusciti a fare da soli i fratelli Sacco con la loro guerra privata). Dall’alto del camion, Alfonso, il più giovane dei Sacco, gravemente ferito, scambia un lungo sguardo con la ragazza di cui è innamorato che assiste piangendo al suo passaggio. Quasi quarant’anni dopo Alfonso e quella ragazza (per la cronaca, si chiamava Pina Crapanzano) si sposeranno.
Ma è tempo di fare un flashback. Dal momento in cui Luigi Sacco brucia la lettera minatoria, la mafia di Raffadali la giura a morte a quei contadini ribelli. Prima semplici avvertimenti (furti, incendi), poi agguati a fucilate (in uno di questi un nipotino di dieci anni dei Sacco resta cieco cadendo da cavallo, in un altro viene ucciso un cognato). I Sacco denunciano regolarmente ogni sopruso al maresciallo dei carabinieri che però fa loro capire di essere impotente. Seguono tante sparatorie, fughe, omicidi (del padre dei Sacco, di due capimafia), latitanze, tradimenti. Fino a quando il prefetto Mori catturerà, con eccezionale spiegamento di mezzi, i fratelli. E non si capisce tanto accanimento visto che i Sacco si trovavano, in fin dei conti, dalla sua stessa parte se il suo mandato era quello di debellare l’onorata società. Dice Camilleri: «Mori rimane una persona equivoca di cui non si sono mai riuscite a capire le vere finalità».
Anche la politica entra nella storia dei fratelli Sacco. C’entra perché erano socialisti e i fascisti di Raffadali avevano un conto aperto con loro. E c’entra perché dopo che furono condannati all’ergastolo (in un processo che a rileggere le carte, come ha fatto Camilleri, fa venire i brividi per le sue irregolarità), fecero amicizia in carcere con prigionieri politici eccellenti come Antonio Gramsci e Umberto Terracini. Fu quest’ultimo che ottenne, negli anni 60, la grazia dal presidente Segni per quegli ormai ex ragazzi diventati una leggenda .

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