Pubblichiamo la prefazione di Giorgio Griziotti al libro di Sébastien Broca, L’utopia del software libero. Dal bricolage informatico alla reinvenzione sociale, di cui Griziotti ha curato l’edizione italiana per Mimesis Edizioni. Per dare a chi fosse interessato un’idea più ampia dei contenuti del libro, aggiungiamo anche il prologo, scritto da Sébastien Broca, che potete scaricare e leggere cliccando qui: Prologo Utopia del software libero di Sébastien Broca
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Il mio desiderio di far conoscere in Italia il libro di Sébastien
Broca nasce da motivazioni correlate con le sue molteplici qualità.
Nonostante la giovane età del suo autore “L’Utopia del software libero” è
infatti un saggio che entra nella grande tradizione della ricerca
sociologica francese.Un esempio su tutti: il suo lavoro di indagine su tre grandi progetti – Linux, Debian e Wikipedia – è esemplare. Broca non indulge mai alla tentazione di dimostrare che l’ormai ultracelebrata organizzazione orizzontale sia l’unica molla del movimento del software libero. Egli espone, basandosi su un’osservazione approfondita ed acuta, un’analisi accurata dei modi di organizzazione e di funzionamento dei tre progetti proprio per mostrarne le complessità, le differenze anche profonde, i limiti e talvolta le contraddizioni. Per queste caratteristiche articolate e per l’influenza che ormai esercita nella società il Libero è quindi un’utopia concreta, concetto ripreso da Ernst Bloch, che diventa una necessità di fronte alle irreversibili derive ed ai “fatal error” verso cui il neoliberismo ci sta conducendo.
Broca è infatti pienamente cosciente del ruolo centrale del software libero come modalità alternativa di produzione in una economia della conoscenza sfruttata dal capitalismo biocognitivo. Come afferma Christopher M. Kelty, a proposito di questo saggio, Broca “riesce splendidamente ad unirsi al ristretto numero di ricercatori che si sono concentrati sulla comprensione degli aspetti tecnici, giuridici, economici e socioculturali di questo fenomeno senza precedenti[1].”
La maggior parte dei “non addetti ai lavori” ha probabilmente una percezione tenue, attutita o riflessa della presenza e dell’importanza del software libero. Pochi sono coscienti di usarlo quotidianamente[2] o ne conoscono le sue origini. Origini che risalgono all’epoca distante dove all’università californiana di Berkeley, in un’unità di tempo e di luogo, nascevano le rivolte contro la guerra del Vietnam e venivano concepiti sviluppati i protocolli di comunicazione ancor oggi utilizzati per connettersi ad internet e le prime versioni di Unix “open source” (BSD). Esisteva una relazione fra queste due occorrenze, la nascita di internet corrispondeva anche al bisogno di una generazione che desiderava aprire forme di comunicazione più orizzontali e meno gerarchiche.
Da un altro punto di vista il software libero è anche il risultato di un incontro delle pulsioni libertarie nate negli anni Sessanta (simbolicamente rappresentate dal maggio ’68) con la “concezione della conoscenza teorizzata, all’epoca, dai fondatori della teoria economica della conoscenza e della sociologia della scienza, rispettivamente Kenneth J. Arrow e Robert K. Merton. In questa prospettiva, in un articolo del 1942 intitolato The Normative Structure of Science [3] [Merton] definendo l’ethos della scienza e le norme di regolazione dell’attività pubblica di ricerca degli scienziati secondo i principi dell’open science, specifica i quattro imperativi istituzionali: Universalismo, Proprietà comune dei beni, Disinteresse e Dubbio sistematico.”[4]
Broca in una forma ben documentata ci mostra come la spinta sociale e politica nata in quegli anni sia stata la scintilla che darà vita, nei decenni immediatamente successivi, al movimento ed alla realtà del software libero come modo di produzione del comune da un lato ma anche come esternalità positiva sfruttata a fondo dal capitalismo cognitivo dall’altro. Qui tocchiamo uno degli elementi politici fondamentali e cioè la questione dei diritti di proprietà intellettuale (DPI), una delle principali armi del capitalismo cognitivo che non si limita ad applicarle al software ma dilaga in tutti gli aspetti della scienza e della ricerca, rompendo clamorosamente con l’ethos mertoniano a cui abbiamo appena accennato. Al centro del movimento del software libero sta il principio del copyleft certamente “l’hacking più famoso ed ingegnoso di Richard Stallmann”. Broca mostra chiaramente le differenze di principio fra software libero e l’open source che spesso invece vengono confuse. Il primo impone la clausola di condivisione che garantisce le quattro libertà/gratuità del software (utilizzare, studiare, diffondere, modificare); il secondo, al contrario si limita pragmaticamente a difendere l’accessibilità al codice per affermare la propria superiorità tecnico-economica.
Il tema era stato trattato in Italia dal collettivo Ippolita[5], Broca lo sviluppa per mettere in evidenza il principio del copyleft come perno attorno al quale si articolano la critica e l’antagonismo all’estensione capitalista dalla proprietà intellettuale che rende rari ed esclusivi i beni immateriali abbondanti a costo marginale zero. E nell’Utopia appare chiaramente come, a partire dal software libero, il copyleft si opponga in tutti gli ambiti nella società al dilagare dei DPI: dalla scienza (per esempio con la vittoria contro la proprietariarizzazione del genoma umano) alla cultura.
L’aspetto sociologico e la descrizione de “l’ethos del Libero” sono trattati principalmente attraverso tre valori che sembrano “costituire la base comune all’insieme delle sensibilità del movimento: l’autonomia nel lavoro, la creatività tecnica e la libera circolazione dell’informazione”. Abbiamo visto come quest’ultimo valore abbia costituito la punta di diamante delle lotte contro i DPI e i numerosi ostacoli che il capitalismo finanziarizzato pone giuridicamente alla diffusione dell’informazione. Dal mondo del Libero è partito l’impulso che ha portato alla vittoria contro ACTA, il tentativo abortito di legge globale repressiva dettata dalle multinazionali dell’industria del divertimento.
I tre valori del libero richiamano fortemente l’autorealizzazione nel lavoro di André Gorz e questo ci porta inevitabilmente sul piano del più grande cambiamento in atto nella società: l’integrazione in un’unica sfera di politica, lavoro e vita umana e non-umana. È una trasformazione in cui si fa politica a secondo del proprio fare, dei compiti che si scelgono e si svolgono in modo autonomo ma cooperativo. È qui che il software libero, che tratta di artefatti immateriali e non di teorie astratte o di dispute intellettuali, apre la strada a nuove utopie concrete e realiste. La scintilla scocca inizialmente nel campo delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (TIC) dove nascono forme d’organizzazione che cercano di allontanarsi dai rapporti di forza capitalisti. Poi sbocciano molti progetti che ne riprendono i principi. Ci sono per esempio i filoni dell’open-hardware e delle piattaforme cooperative. La politica del fare del Libero ha anche aperto la strada ad altre pratiche “etiche” di produzione, dall’agricoltura al commercio. La ricerca e la pratica di un’utopia concreta diventano poi una necessità assoluta se entriamo nel campo dell’ecologia politica ed è qui che si moltiplicano le pratiche sociali ed economiche diffuse e virali come nel caso delle Transition Town un movimento dove le comunità affrontano le sfide problematiche del riscaldamento globale e dell’uso dei carboni fossili. Certo molte di queste iniziative hanno mezzi incomparabilmente ridotti rispetto ai loro corrispondenti capitalisti. Anche se il peso economico e politico della giungla delle piattaforme dominanti, dove fioriscono gli acronimi GAFA, NATU o BATX[6], può sembrare schiacciante Broca ci ricorda come anch’esse siano tecnicamente hackable. Resta che l’ostacolo invisibile più tenace sia costituito dalle prescrizioni di soggettività che tali piattaforme esercitano. Una forma sofisticata di servitù volontaria contemporanea dove è difficile sfuggire all’influenza e alla presenza invasiva di queste “megamacchine del neurocapitalismo”[7].
Ma torniamo, per concludere, alla parte finale del saggio dove Broca, basandosi anche su pensatori come André Gorz, Yann Moulier Boutang e Toni Negri, si interroga su una prospettiva del software libero come punto di partenza per operare “un’inversione strategica del rapporto tra attività e reddito : l’attività viene valorizzata di per sé, in ragione del suo valore intrinseco, conformemente all’etica hacker del lavoro… e il reddito non è più la finalità di quest’ultima, ma il mezzo per dedicarvisi”. E qui si innesta la tematica sempre più centrale, anche in Italia, di un reddito universale in completa sintonia con “l’affermarsi del general intellect, che rende obsoleta la misura del contributo di ciascuno alla ricchezza prodotta collettivamente” e che permette “la stessa inversione del rapporto tra attività e reddito che è presente nel movimento del software libero”.
Ecco quindi che la politica del fare induce un fare politica in cui i bricoleur e visionari del Libero dispensano un insegnamento fondamentale. Una lezione dove un agire collettivo è capace di “scoprire qualcosa di cui non si sospettava l’esistenza e giungere là dove non si sarebbe potuti arrivare” e in grado di “riappropriarsi di saperi confiscati a causa della loro incorporazione nelle strutture di potere”. Un agire politico che mostra il cammino verso una liberazione dalla servitù volontaria, un sentiero magari lungo ed impervio che in ogni caso non dobbiamo rinunciare di percorrere.
NOTE
[1] Christopher M. Kelty nella prefazione dell’edizione francese P. 9. “I lavori sul software libero sono numerosi, ma solo pochi specialisti l’hanno studiato a fondo. Possiamo citare lo stesso Kelty The Cultural Significance of Free Software Two Bits, Duke press, 2008; Enid Gabriella Coleman, Coding Freedom. The Ethics and Aesthetics of Hacking, Princeton, Princeton University Press, 2012 ; Jelena Karanovic, Sharing Publics. Democracy, Cooperation and Free Software Advocacy in France, tesi di dottorato, New York University, 2008 ; Samir Chopra et Scott D. Dexter, Decoding Liberation. The Promise of Free and Open Source Software, New York, Routledge, 2008 ; Johan Söderberg, Hacking Capitalism. The Free and Open Source Software Movement, New York, Routledge, 2008 ; Steven Weber, The Success of Open Source Software, Cambridge, Harvard University Press, 2004 ; Anita Say Chan, Networking Peripheries. Technological Futures and the Myth of Digital Universalism, Cambridge, MIT Press, 2013 ; David Berry, Copy, Rip, Burn : The politics of Copyleft and Open Source, Londres, Pluto Press, 2008 ; Yuri Takhteyev, Coding Places. Software Practice in a South American City, Cambridge, MIT Press, 2012
[2] L’infrastruttura di rete come le data farm sono maggioritariamente basate su Linux o altri sistemi operativi open source e la stragrande maggioranza dei dispositivi mobili contengono porzioni di software libero.
[3] tradotto in “Scienza e struttura sociale democratica”
[4] Robert K. Merton, «Scienza e struttura sociale», vol. iii, Sociologia della conoscenza, il Mulino, Bologna, 1970, pp. 973-986 in Vercellone C. et al.; Il Comune come modo di produzione; Ombre corte (2017) p.150-152
[5] Ippolita, Open Non è Free, Eleuthera, 2002
[6] GAFA: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft; NATU: Netflix, Airbnb, Tesla, Uber; BATX: Baidu, Alibaba, Tencent et Xiaomi
[7] G. Griziotti, Megamacchine del neurocapitalismo. Genesi delle piattaforme globali. Effimera 2017 http://www.euronomade.info/?p=8914
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