Dal realismo magico della Ortese al rigore filosofico e semantico, intriso di essenza femminile, della de Beauvoir. Dalle ferite dell’Angelus Novus di Walter Benjamin, portatore di una storia “porosa” e da ri/scrivere, al documento “Nuovo Realistico“ che
fa i conti col post-modernismo dominante e con le derive ermeneutiche
del pensiero debole e post ideologico. Dalla rabbia poetica ed
iconoclasta della drammaturga inglese Sarah Kane, agli accenti elegiaci della poetessa araba Zhabiya Khamis. Fino all’immediato e scarno lirismo fotografico di Salgado. Sono queste le tracce implicite – a parer mio, ben inteso, perché se ne potrebbero intravedere tante altre, come quelle del femminismo della Lonzi – su cui sembrano muoversi, con passo lento ma inesorabile, impietoso ma appassionato, i romanzi di Barbara Balzerani. Romanzi in cui la politica e l’ideale marxista sono il controcanto, tacito e imprescindibile, attraverso cui lasciar risuonare le note tragiche di un’esistenza in lotta.
Qui, di seguito, un passaggio, tra i più significativi, del suo terzo “Perché io perché non tu”:
«Esistono
momenti che si stampano nella memoria e rimangono lì a bruciare dovesse
passare una vita. Clic, come uno scatto nella messa a fuoco e il mondo
cambia faccia. Se fossi stata zitta avrei prolungato ancora per un po’
l’innocenza ma quelle parole mi uscirono dalla bocca da sole,
inconsapevole peccato di tale immodestia da meritare l’immediato
castigo. Se ne incaricò la padrona del negozio che, guardandomi come una
larva che si crede farfalla, mi fece notare la differenza tra i due
vestiti. Portavo uno straccetto da pochi soldi e neanche stavo zitta.
Con
un colpo solo mi aveva rivelato che ero povera, che si vedeva e che
quindi era meglio che non mi facessi troppo notare il giorno del
cerimoniale. Davanti ci sarebbero state quelle come la mia amica,
vaporose e abbondanti. Per me,un posto un po’ più indietro, che anche i
sacramenti esigono il rispetto dei prezzi e delle stoffe».
Dunque,
parola piena, per dirla con Lacan. Parola che storicizza, e linguaggio –
nella sua valenza di struttura simbolica – che evoca e non informa, non
gioca con sé stesso, confondendo e mischiando le carte. Linguaggio che
fa ri/nascere Verità e Storia
nell’altro e dell’Altro. Parola che è come un grido nella notte. Quel
grido del bambino che chiama l’Amore e lo rende partecipe, pur sotto le
bombe al fosforo bianco, sganciate da un’aviazione incurante e
chirurgicamente asettica, nella sua atroce potenza devastatrice. Parola
di una grande scrittrice, capace di lavorare una materia fatta di
volatili, vulnerabili segni, con le mani nude della poesia, solcata dal
dolore umano e masticata nella lotta per la sopravvivenza.
“Compagna Luna” “La sirena delle cinque” “Perché io, perché non tu” “Cronaca di un’attesa” “Lascia che il mare entri”. E ora, uscito alcuni mesi or sono, edito sempre da DeriveApprodi, il sesto libro: “L’ho sempre saputo”.
Chi
sia Barbara Balzerani, quale sia la sua storia, è o dovrebbe essere
noto. Guerrigliera, membro dell’esecutivo delle Brigate Rosse, fece
parte del commando che portò a termine il rapimento e l’uccisione del
Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Ha scontato, con una
detenzione trentennale ed il carcere duro, i suoi ideali marxisti e il
suo sogno – condiviso con un’intera generazione – di cambiare il mondo e
quelle regole economiche, quelle sovrastrutture sociali e culturali,
fondate su un illusorio e sperequativo contratto sociale.
Uscita
di galera, Barbara ha però trovato quel mondo – un mondo in cui il
conflitto degli interessi contrapposti era, non solo possibile ma
addirittura alla base del sistema democratico, ancorché
liberal-borghese; quel mondo, percorso da una secolare Lotta di
Classe, che vedeva in netto vantaggio i padroni, e che lei intendeva
cambiare, sovvertendo i rapporti di forza e di produzione a vantaggio,
questa volta, degli sfruttati – geneticamente mutato. Non
lo riconosceva più, quel mondo. Non poteva riconoscerlo. Nulla le
apparteneva, se non sé stessa. Il proprio corpo, che pure avevano
cercato di spossessarle. La sua voce chiara. La sua intelligenza, che
avevano tentato di addomesticare, senza riuscirci. La sua trama, le sue
vicende, le sue esperienze da rintracciare, ricostruire, donare.
In
quel mondo, devastato dal trionfo del neoliberismo, divenuto dittatura
orwelliana del pensiero unico, era come un’aliena. La celebrazione
ecumenica del pensiero dominante, del turbocapitalismo, della fine della
Storia, diffusa dai media e contabbandata dai social, la rendeva
estranea spettatrice di eventi che non avrebbe potuto immaginare. Non
avrebbe voluto immaginare! Lei, che si era battuta per il socialismo ed
il comunismo. Lei, che aveva combattuto, insieme ai suoi compagni, per
la condivisione collettiva dei beni e delle risorse, contro la trincea
individualistica degli Ego padronali e contro il paradigma arcaico dello
sfruttamento oligarchico delle masse. Lei si trovava, ora,
improvvisamente, a vagare, barcollante, tra i fasti spettacolarizzati
delle megalopoli high-tech, tra i grafici borsistici della finanza
selvaggia e globalizzata, tra le risacche del pensiero debole, tra i
profeti del relativismo etico, tra le maglie slabbrate dell’ermeneutica
afinalistica, tra le rovine post moderniste, post operaiste, post
ideologiche, post industriali.
Sbalzata
dalle onde gravitazionali di una perturbazione spaziotemporale, veniva
trascinata a largo, in una sorta di universo parallelo, abitato da
post/identità. Identità poster, affisse su un muro di facce avatar. Un
muro divenuto virtuale ma non per questo meno spietato, nella sua
dimensione di isolamento carcerario, “bachechico” – mi si passi la
forzatura lunguistica – nell’infinito spazio quantico dell’etere.
E
allora, Barbara si è messa a scrivere. A riannodare fili di memoria.
Memoria politica e familiare, di luoghi e di lotte. A ricucire e
tessere, attraverso la scrittura, brandelli di passato, per riconoscersi
e riappropriarsi di sé stessa e della sua Storia.
Finora
sono sei, i volumi scritti, che contano poco più di cento pagine l’uno.
Sei gioelli di letteratura, intima e militante, storica e politica,
cronachistica e magica, familiare e collettiva, che suonano come un
ceffone sulle guance flaccide del moralismo e dell’intellighenzia
borghese. Quella stessa intellighenzia che, attraverso lo scrittore
Antonio Tabucchi, passato a miglior vita, la fece espellere dalla Feltrinelli, con modalità ricattatorie, costringendo la casa editrice – che fu di Giangiacomo, editore e guerrigliero – a scegliere tra lui stesso, affermato intellettuale, e l’ ex brigatista.
Ovviamente,
la scelta era scontata. Il Mercato ha le sue regole. E contro quel
Mercato, e in deroga alle sue leggi, oggi Barbara scrive. I suoi libri
vengono letti in mezza Europa, malgrado non occupino gli scaffali di
quelle cattedrali erette alla dea Merce, che sono i Supermarket e i
Megastore. Non rischieremo mai di entrare in uno di questi lunapark del
consumo ed assistere alla miserevole scena, mostrata da Godard in “Crepa padrone, tutto va bene”, dove il Partito Comunista Francese vendeva, a basso costo, il suo programma politico ed elettorale.
La
letteratura della Balzerani è sporca di terra e di sangue, fatta di
ossa e di nervi. Non certo rimodellata dalla cosmesi plastificante, o
confezionata con la carta da parati e i nastrini rosa. I suoi libri
hanno l’odore dei mari e delle terre del Sud. Hanno il sapore del vino
robusto, la cui uva è bruciata al sole del mediterraneo e dei paesaggi
mediorientali o africani. Raccontano la confidenziale, inconfessata,
ruvida delicatezza di un ambiente familiare operaio, che a me ha sempre
ricordato quello rurale, narrato da Olmi ne L’albero degli zoccoli . Grondano
sudore e fatica proletaria. Ritraggono facce meticce, solcate dalla
povertà. Puntano il dito contro l’odio di classe dei signori del mondo:
«La
città è là, a due passi, con le sue case di mattoni e cemento, le
macchine, le luci, il benessere, la politica e il potere. Organizzata a
gironi che più si allontanano dal centro più non sembrano appartenere
allo stesso genere umano. Non sono più i luoghi delle occasioni di
incontro, di mescolanza, di scoperte, di riscatto. Sono fortini
respingenti per i plebei che vi transitano solo per offrire servizi, che
altro non è previsto possano fare. Che, scaduto il tempo, debbono
rimettersi in marcia per i loro luoghi, oltrepassando i tanti muri
alzati. Muri di diffidenza, di diversità di andatura, di padronanza di
spazi. Muri controllati dalla complicità di élite aggrappate ai
brandelli del privilegio di somigliarsi. Gli uni hanno bisogno degli
altri ma non si mischiano, non comunicano.
Sono
tutte così le città. Dal primo al quarto mondo. Le differenze sono di
grado non di modello. La tanto declamata universalità delle sorti
progressive mostra la sua faccia decrepita e cattiva. E’ la povertà a
creare la ricchezza, col prelievo forzato delle risorse e il trucco
degli interessi di un debito inesauribile. Il passato e il futuro è
scritto in tutta evidenza». (L’ho sempre saputo).
Raro
esempio, quello dell’autrice, di scrittura politica che sa trasformarsi
– con le cadenze dolenti di chi la sofferenza e l’ingiustizia, di
qualunque parte del mondo, le ha provate e le avverte sulla sua stessa
pelle – in tensione poetica. E perciò stesso, scrittura etica, che
riesce, attraverso lo struggente bianco e nero di immagini dai densi
contrasti emotivi, a incunearsi, scavare, penetrare, come una talpa
dagli occhi ben aperti, tra le contraddizioni patenti e intollerabili di
un sistema -il nostro sistema – fondato su quel Capitale finanziario,
mortale come le cellule killer di un cancro in metastasi e votato al
Moloch di uno sviluppo (non “progresso”, avrebbe precisato Pasolini) disumano e disumanizzante.
Una
bellezza letteraria asciutta, che nulla concede all’artificio della
retorica, pur nella perfetta cesellatura della parola e della frase.
Scabra eppure, a suo modo, musicale, con quel procedere per incursioni
brevi e improvvisate nelle impervie strettoie del pensiero. Ma
soprattutto, scrittura capace di divaricare la memoria, fino a renderla,
riprendendo il concetto espresso in apertura, Storia porosa, come il tufo napoletano descritto da Benjamin (La cittá Porosa,
appunto). Una “bellezza amara” la chiamerebbe Leo de Berardinis, fatta
di immagini che squarciano improvvisamente, con dolorosa violenza
metaforica, la pagina. Per citare Roland Barthes, siamo al Grado zero della scrittura. Una scrittura che però non rinuncia alla sua possibilità di farsi poesia letteraria.
Una
parola dura, quella della Balzerani, dunque – appena levigata dalla
umana sensibilità di chi sa trovare la tenerezza anche in mezzo alle
macerie di una città distrutta o al chiuso di una cella del carcere –
senza ipocrisie, netta, che non lascia scampo, e che costringe, chi
legge, ad interrogarsi, storicamente, sul proprio ruolo, in un’epoca e
in un mondo sfregiati dalla ferocia dell’avidità, dell’accumulo, del
profitto. Un mondo di cui l’ex guerrigliera ci lascia ascoltare,
avvertire, guardare, percepire, epidermicamente, le crudeli
disuguaglianze, perpetrate dalla minoranza ricca, spesso razzista, ai
danni delle masse povere e vessate. Masse costituite da donne e uomini
singoli, fragili nelle loro solitudini e di fronte all’angoscia,
tragicamente sofoclea, di un’umana esistenza che, oramai, sembra avergli
scippato – attraverso i costruttori di incubi in cemento, di città
sfavillanti alle stroboscopiche luci del consumo e di muri per tener
lontano lo scarto maleodorante di carni, destinate al macero della
produzione in serie – anche il sogno di un riscatto sociale, economico,
politico.
Masse
alle quali, la Balzerani, come una sorta di Antigone contemporanea,
restituisce giustizia e dignità, con la sua forza di combattente,
vomitata su una pagina che si trasforma in atto d’accusa e sentenza di
condanna contro quel potere che, una volta, ha voluto accusarla,
processarla e condannarla. E con lei, non solo una generazione intera,
ma quelle stesse masse proletarie e popolari, di cui le elite non
prevedono mai il riscatto, nella loro crudele, ferina arroganza.
Attraverso
le pagine dei suoi piccoli e preziosi romanzi, piangiamo lacrime
pesanti come pietre, versiamo sangue innocente per le strade,
soffochiamo sotto la coltre volgare del denaro, sentiamo l’isolamento
intimo del carcere, che rompe il pensiero e stupra il corpo. Quel
carcere dei padroni, esteso ad ogni latitudine, astratto eppur
concrentissimo, che vorrebbe spezzare la nostra resistenza e renderci
rassegnati.
Ma
l’indignazione, pagina dopo pagina, frase dopo frase, fonema dopo
fonema, monta assieme al vomito poetico, filosofico, politico,
esistenziale, dell’autrice. E il desiderio di quel mondo, diverso e
possibile, l’insopprimibile desiderio di Libertà dalla schiavitù del
bisogno e della sussistenza salariata, torna ad affacciarsi, come un
bambino, dalle sbarre di una culla.
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