(clicca qui per ascoltare l'audio della puntata di "Valigia blu, poesia in viaggio senza meta" dedicata a poesia e impegno politico).
Quella sinistra persa nella vertigine tra “strutturale” e “sovrastrutturale” ha tralasciato di tirare il fiato in questi anni, salvo poi trovarsi spiazzata rispetto al peso specifico del cosiddetto "simbolico". La parola, la sua forza evocativa, non è tra gli strumenti della rivoluzione? O non lo è ancora in pieno? E’ davvero così? “Froci” e poeti appartengono ancora alla stessa categoria di persone poco desiderabili?
Per dirla “in poesia”, c’è un interessante verso di Saba che chiude “A un giovane comunista": “Ma tu pensi: I poeti sono matti./ Guardi appena; lo trovi stupidino./ Ti piace più Togliatti”.
Lo avessimo ascoltato di più, non Togliatti ma Saba! Forse oggi ci troveremmo in un’altra storia. Ma doveva andare così, anche perché quell’epoca, e quelle a seguire, sono stati i momenti in cui la politica, come linguaggio, era in grado di dominare gli altri linguaggi, soprattutto quelli artistici, a partire da quello poetico, a lei più vicino se vogliamo. La politica faceva sognare.
Negli anni, quella distanza non solo non è stata mai colmata, ma nemmeno osservata, curata, misurata. Si è lasciato che le cose andassero un po’ per conto proprio. Forse, a dire il vero, la “Rifondazione” ha, di tanto in tanto, buttato distrattamente un occhio. Ma niente più di questo. Già sento qualcuno pronto a farsi salire la bile agli occhi citando quintali di “collane” che editori di sinistra, più o meno ufficiali, dedicarono ai poeti. Ma, appunto, per la politica dovevano valere né più né meno di una collana, un bell’oggetto da esibire ai ricevimenti. La poesia poteva starci ma solo come fotocopia degli slogan e del programma politico: Realismo compagni!
Ad un certo punto, però, lo scontro diventa aperto, anche perché la poesia nella società reale, andava conquistando spazi sempre più ampi. La poesia, carne e sangue delle lotte, fu in grado di evocare. Ed evocando mobilitava. In quanto parola mobbilitante non poteva stare al fianco della politica, soprattutto di sinistra, perché si poteva correre il rischio di accendere forze incontrollabili. La politica faceva sognare, sì: ma era "quel" sogno. La poesia alludeva alla possibilità del sogno.
Sia negli anni sessanta che negli anni settanta, con tutt’altre premesse e direzioni, a rimetterci furono i poeti ovviamente. La società italiana era quella che era. E non si poteva ottenere più di tanto. Il “popolo” si riconosceva nei suoi capi, corrotti o irrimediabilmente riformisti che fossero. Una parte rifluì nella musica leggera, un’altra si disperse e la terza rimane ancora oggi, imbozzolata, a dare flebili segnali, rigorosamente dal sottosuolo.
Il punto è che quel divario tra poesia e politica si è andato approfondendo. Il divorzio è stato talmente violento da creare due entità nettamente distinte. Ma oggi che tutto è cambiato sta ancora una volta alla poesia lanciare il grido d’allarme all’umanità sfruttata.
Qualcuno ha calcolato che in Italia ci sono, tra sedicenti e blasonati, qualcosa come tre milioni di poeti. I premi letterari prolificano, così come i reading e gli eventi legati alla poesia. Si “pratica” poesia nei centri sociali, in riva ai fiumi, negli oratori, nei salotti, nelle biblioteche comunali, nelle sontuose sale dei comuni, nei locali tipo bar e birrerie, negli ospedali. Le persone sono alla ricerca di qualcosa. E farlo, in solitario, on line evidentemente non è la stessa cosa.
Gli editori hanno percepito che qualcosa si sta muovendo, ma sono troppo piccoli per porsi come punto di riferimento. E i grandi editori hanno parametri di sostenibilità talmente elevati, da non poter nemmeno pensare di approcciare la sfida. Ad entrambi sfugge che il fenomeno si sta riproponendo, in forma e in sostanza, in modo inedito. La poesia ha bisogno, almeno per il momento, di essere ascoltata, e non di essere acquistata.
I tre milioni, intanto, sono per la gran parte attratti dall’autopubblicazione, e non disdegnano una pratica intensiva dei premi letterari, spendendo cifre importanti per l’iscrizione. Insomma, c’è un fenomeno “di nicchia”. La nicchia, però, non ha aria. E se non passa aria la poesia non vive. Rischiamo di perdere un patrimonio notevole. Ma in una società che brucia ricchezze artistiche, paesaggi naturali e memoria storica con una velocità che ha dell’incredibile qualche poeta in meno non fa alcuna differenza.
Eppure, la storia lavora per la poesia. Beh, innanzitutto perché i linguaggi vengono via via usurati e triturati con terrificante normalità. Non è il caso qui di approfondire l’argomento, quasi lapalissiano. Non solo, quello che ci prospetta la cosiddetta società dei robot è una barbarica formalizzazione dell’universo dei “sensi”. In questo modo si entra nell’alveo stesso della mente e della coscienza, distruggendo, in nome dell’automazione, uno dei focolai più sacri della parola, l’ambiguità, il suo potere evocativo, il suo essere un sistema satellitare in cui i moti gravitazionali sono di una tale complessità da far “girare” la testa ed indurre al “senso della vita” e alla sua ricerca esplicita. Il bisogno di ignoto? Certo, continuerà ad essere soddisfatto. Sarà all’opera per questo una fantasia formalizzata perfettamente funzionante grazie all’industria culturale. Ad essere irrimediabilmente condannata sarà l’evocazione, ovvero la capacità dell’uomo di culturalizzare l’ignoto attraverso i simboli. Ne rimarrà almeno uno di campo aperto, l’asse del tempo, appunto. Siamo al solito "topos" capitalistico: la cultura senza cultura. Questa deficienza strutturale scatena un immediato bisogno di autenticità. Si rimetterà in cammino il popolo per cercare la "sua" autenticità come già accaduto in altre epoche?
Senza immaginazione non c’è rivoluzione e i poeti, si sa, sono degli incalliti romantici. E la ragione non è opzionale. La poesia o riesce ad immaginare oppure non ha senso, e non parla di “sensi”. E mentre il robot lavora solo dopo la formalizzazione, che rimane la più bieca delle operazioni di potere, la poesia va ad individuare con matematica precisione quelle regioni di senso che hanno qualche possibilità di essere connesse. E se anche non è possibile la poesia costruisce ponti.
La sinistra è nelle condizioni di iniziare una nuova storia nel rapporto con la poesia? Ovviamente, no. Anche perché non è nemmeno in grado di badare a se stessa. Serve però un cambio di paradigma. Per esempio cominciando con il dire che la poesia deve essere più presente nei valori e nelle pratiche della sinistra.
Una prima possibilità è far posto alla poesia nelle le piazze e nei convegni della sinistra. Il resto verrà con sé. Il secondo è sdoganare la parola “popolo”. Anche perché, se proprio vogliamo sottilizzare, il popolo è ancora la sede del linguaggio, soprattutto quello costituente. La classe al più ha, o ha avuto, un gergo.
Infine, oggi la cultura è una cosa estremamente seria. E non più, fortunatamente, l’esibizione di una cosa seria. Oggi gli ultimi del pianeta, esattamente come aveva preconizzato Pasolini, hanno un bisogno estremo di cultura. Se non altro perché devono cercare un loro posto in questo mondo in preda al caos perenne. In mano al capitalismo non è possibile farsi un’idea del mondo con tutto quel che ne consegue. Non lo è da consumatori di cultura, dico. Non lo è perché in fondo al capitalismo di cultura non gliene frega proprio niente. E’ un’esca come le altre. Al passaggio d’epoca, che ha tutta l’aria di essere antropologico, una nuova coscienza antagonista passa, pensate un po’ marxisti incalliti, per la sovrastruttura. E il simbolico diventerà un'arma.
Quella sinistra persa nella vertigine tra “strutturale” e “sovrastrutturale” ha tralasciato di tirare il fiato in questi anni, salvo poi trovarsi spiazzata rispetto al peso specifico del cosiddetto "simbolico". La parola, la sua forza evocativa, non è tra gli strumenti della rivoluzione? O non lo è ancora in pieno? E’ davvero così? “Froci” e poeti appartengono ancora alla stessa categoria di persone poco desiderabili?
Per dirla “in poesia”, c’è un interessante verso di Saba che chiude “A un giovane comunista": “Ma tu pensi: I poeti sono matti./ Guardi appena; lo trovi stupidino./ Ti piace più Togliatti”.
Lo avessimo ascoltato di più, non Togliatti ma Saba! Forse oggi ci troveremmo in un’altra storia. Ma doveva andare così, anche perché quell’epoca, e quelle a seguire, sono stati i momenti in cui la politica, come linguaggio, era in grado di dominare gli altri linguaggi, soprattutto quelli artistici, a partire da quello poetico, a lei più vicino se vogliamo. La politica faceva sognare.
Negli anni, quella distanza non solo non è stata mai colmata, ma nemmeno osservata, curata, misurata. Si è lasciato che le cose andassero un po’ per conto proprio. Forse, a dire il vero, la “Rifondazione” ha, di tanto in tanto, buttato distrattamente un occhio. Ma niente più di questo. Già sento qualcuno pronto a farsi salire la bile agli occhi citando quintali di “collane” che editori di sinistra, più o meno ufficiali, dedicarono ai poeti. Ma, appunto, per la politica dovevano valere né più né meno di una collana, un bell’oggetto da esibire ai ricevimenti. La poesia poteva starci ma solo come fotocopia degli slogan e del programma politico: Realismo compagni!
Ad un certo punto, però, lo scontro diventa aperto, anche perché la poesia nella società reale, andava conquistando spazi sempre più ampi. La poesia, carne e sangue delle lotte, fu in grado di evocare. Ed evocando mobilitava. In quanto parola mobbilitante non poteva stare al fianco della politica, soprattutto di sinistra, perché si poteva correre il rischio di accendere forze incontrollabili. La politica faceva sognare, sì: ma era "quel" sogno. La poesia alludeva alla possibilità del sogno.
Sia negli anni sessanta che negli anni settanta, con tutt’altre premesse e direzioni, a rimetterci furono i poeti ovviamente. La società italiana era quella che era. E non si poteva ottenere più di tanto. Il “popolo” si riconosceva nei suoi capi, corrotti o irrimediabilmente riformisti che fossero. Una parte rifluì nella musica leggera, un’altra si disperse e la terza rimane ancora oggi, imbozzolata, a dare flebili segnali, rigorosamente dal sottosuolo.
Il punto è che quel divario tra poesia e politica si è andato approfondendo. Il divorzio è stato talmente violento da creare due entità nettamente distinte. Ma oggi che tutto è cambiato sta ancora una volta alla poesia lanciare il grido d’allarme all’umanità sfruttata.
Qualcuno ha calcolato che in Italia ci sono, tra sedicenti e blasonati, qualcosa come tre milioni di poeti. I premi letterari prolificano, così come i reading e gli eventi legati alla poesia. Si “pratica” poesia nei centri sociali, in riva ai fiumi, negli oratori, nei salotti, nelle biblioteche comunali, nelle sontuose sale dei comuni, nei locali tipo bar e birrerie, negli ospedali. Le persone sono alla ricerca di qualcosa. E farlo, in solitario, on line evidentemente non è la stessa cosa.
Gli editori hanno percepito che qualcosa si sta muovendo, ma sono troppo piccoli per porsi come punto di riferimento. E i grandi editori hanno parametri di sostenibilità talmente elevati, da non poter nemmeno pensare di approcciare la sfida. Ad entrambi sfugge che il fenomeno si sta riproponendo, in forma e in sostanza, in modo inedito. La poesia ha bisogno, almeno per il momento, di essere ascoltata, e non di essere acquistata.
I tre milioni, intanto, sono per la gran parte attratti dall’autopubblicazione, e non disdegnano una pratica intensiva dei premi letterari, spendendo cifre importanti per l’iscrizione. Insomma, c’è un fenomeno “di nicchia”. La nicchia, però, non ha aria. E se non passa aria la poesia non vive. Rischiamo di perdere un patrimonio notevole. Ma in una società che brucia ricchezze artistiche, paesaggi naturali e memoria storica con una velocità che ha dell’incredibile qualche poeta in meno non fa alcuna differenza.
Eppure, la storia lavora per la poesia. Beh, innanzitutto perché i linguaggi vengono via via usurati e triturati con terrificante normalità. Non è il caso qui di approfondire l’argomento, quasi lapalissiano. Non solo, quello che ci prospetta la cosiddetta società dei robot è una barbarica formalizzazione dell’universo dei “sensi”. In questo modo si entra nell’alveo stesso della mente e della coscienza, distruggendo, in nome dell’automazione, uno dei focolai più sacri della parola, l’ambiguità, il suo potere evocativo, il suo essere un sistema satellitare in cui i moti gravitazionali sono di una tale complessità da far “girare” la testa ed indurre al “senso della vita” e alla sua ricerca esplicita. Il bisogno di ignoto? Certo, continuerà ad essere soddisfatto. Sarà all’opera per questo una fantasia formalizzata perfettamente funzionante grazie all’industria culturale. Ad essere irrimediabilmente condannata sarà l’evocazione, ovvero la capacità dell’uomo di culturalizzare l’ignoto attraverso i simboli. Ne rimarrà almeno uno di campo aperto, l’asse del tempo, appunto. Siamo al solito "topos" capitalistico: la cultura senza cultura. Questa deficienza strutturale scatena un immediato bisogno di autenticità. Si rimetterà in cammino il popolo per cercare la "sua" autenticità come già accaduto in altre epoche?
Senza immaginazione non c’è rivoluzione e i poeti, si sa, sono degli incalliti romantici. E la ragione non è opzionale. La poesia o riesce ad immaginare oppure non ha senso, e non parla di “sensi”. E mentre il robot lavora solo dopo la formalizzazione, che rimane la più bieca delle operazioni di potere, la poesia va ad individuare con matematica precisione quelle regioni di senso che hanno qualche possibilità di essere connesse. E se anche non è possibile la poesia costruisce ponti.
La sinistra è nelle condizioni di iniziare una nuova storia nel rapporto con la poesia? Ovviamente, no. Anche perché non è nemmeno in grado di badare a se stessa. Serve però un cambio di paradigma. Per esempio cominciando con il dire che la poesia deve essere più presente nei valori e nelle pratiche della sinistra.
Una prima possibilità è far posto alla poesia nelle le piazze e nei convegni della sinistra. Il resto verrà con sé. Il secondo è sdoganare la parola “popolo”. Anche perché, se proprio vogliamo sottilizzare, il popolo è ancora la sede del linguaggio, soprattutto quello costituente. La classe al più ha, o ha avuto, un gergo.
Infine, oggi la cultura è una cosa estremamente seria. E non più, fortunatamente, l’esibizione di una cosa seria. Oggi gli ultimi del pianeta, esattamente come aveva preconizzato Pasolini, hanno un bisogno estremo di cultura. Se non altro perché devono cercare un loro posto in questo mondo in preda al caos perenne. In mano al capitalismo non è possibile farsi un’idea del mondo con tutto quel che ne consegue. Non lo è da consumatori di cultura, dico. Non lo è perché in fondo al capitalismo di cultura non gliene frega proprio niente. E’ un’esca come le altre. Al passaggio d’epoca, che ha tutta l’aria di essere antropologico, una nuova coscienza antagonista passa, pensate un po’ marxisti incalliti, per la sovrastruttura. E il simbolico diventerà un'arma.
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