“Marx coglie da una parte il lavoro come “essenza dell’uomo”, come ricambio organico “uomo – natura”, mezzo per la realizzazione dei bisogni dell’uomo e perciò dimensione universale del rapporto stesso tra uomo e natura.
Dall’altra parte individua nel lavoro salariato, la forma storica e
determinata del lavoro produttivo nella realtà dei rapporti di
produzione capitalistici, il vero centro, perno della produzione
all’interno di questi rapporti.
Superando la teoria del valore degli economisti classici, Marx afferma che alla radice della determinazione del valore c’è non una quantità fisica – in termini di orario – di lavoro, ma una quantità storica e sociale di valore, che la concretezza del doppio carattere della merce (attraverso il mercato) – valore d’uso e valore di scambio – e del lavoro che vi mette capo manifesta, ma allo stesso tempo nasconde e mistifica (in quanto i valori quantitativi non rispondono).
Lavori produttivi (e all’opposto improduttivi), nei rapporti sociali di produzione capitalistici, sono quelli che mettono capo non alla produzione di merci, fisicamente riscontrabili, ma alla formazione di valore e plusvalore.
Non è il lavoro concreto, che realizza il valore d’uso della merce, a determinare il lavoro produttivo, bensì la determinazione formale, puramente quantitativa: il lavoro astratto.
E’ la sussunzione formale del lavoro, la sottomissione completa della forza lavoro al capitale, a rendere il lavoro completamente produttivo.
Questo caratterizza anche l’appartenenza di classe: la collocazione del rapporto sociale di produzione determina la condizione oggettiva di appartenenza alla classe subalterna.”.
Fino a qualche tempo fa sulla base di quest’assunto si sarebbe commentato in questo modo: la condizione soggettiva, la coscienza di classe e lo schieramento nel conflitto con la classe borghese, e quindi con l’espressione politica di questa, determinava lo spazio della politica e della lotta per il potere.
Fini qui la valutazione di carattere generale ma si sarebbe constatato anche che: oggi è andato definitivamente in crisi il tentativo che ha segnato i decenni centrali del XX secolo di attenuare la contraddizione di classe attraverso uno sviluppo delle politiche sociali rivolte all’estensione dei diritti (welfare state) e dello sviluppo del “pieno impiego” attraverso politiche attive del lavoro sostenute dall’intervento statale.
Aggiungendo inoltre: la crisi acuta di queste politiche ha aperto una fase di pesante ristrutturazione rivolta prima di tutto al ristabilimento dei rapporti di forza dalla parte del capitale.
La “politica” è così apparsa impotente a contrastare questa tendenza che sta determinando una fase di paurosa regressione.
Sorge, a questo punto, un interrogativo di fondo sulla validità di queste risposte che – appunto – avremmo formulato fino a qualche tempo fa.
Un interrogativo generato essenzialmente dall’ingresso sulla scena della storia di un processo d’innovazione tecnologica fortemente accelerato, mai immaginabile in precedenza.
Un processo d’innovazione tecnologica che sta sottraendo quote molto ampie di quello che poteva essere classicamente considerato come “lavoro vivo” pur in una fase di arretramento di quella che – impropriamente – nel decennio appena trascorso era stata definita come “globalizzazione”.
Un fenomeno, questo dell’accelerazione nell’innovazione tecnologica accompagnato dallo spostamento secco verso l’ingigantirsi dello spostamento verso la finanziarizzazione dell’economia, di vastissime proporzioni che si sta imponendo al punto da porre il tema di una chiusura della dimensione lavorativa così come questa l’avevamo compresa tra il XIX e il XX secolo.
Siamo al punto in cui questo fenomeno, assieme a quello delle guerre, pare provocare una vera e propria situazione di sopravvivenza per intere fasce di popolazione in varie parti del mondo, cui rispondono imponenti fenomeni migratori rivolti in varie direzioni e non semplicemente verso quello che è stato definito “Occidente sviluppato”.
Il quadro complessivo è quindi segnato da una crescita disperante delle disuguaglianze, ben rilevato da molti economisti.
La sottrazione di “lavoro vivo” riguarda sia il lavoro manuale sia il lavoro intellettuale.
Emerge una vera e propria “crisi del lavoro” che, dalle nostre parti in Occidente, ha posto una questione(in questi termini inedita) che può essere riassunta sotto la voce “reddito di cittadinanza” ma che contempla anche tanti altri elementi sui quali riflettere.
Ci troviamo così stretti tra domande molto stringenti che di seguito si riducono in un’assoluta semplificazione.
Dobbiamo essere “contro” questo lavoro del soggiacere ai voleri di questo capitalismo dell’ipersfruttamento, dell’allargamento della materialità della contraddizione di classe ben oltre a quella che abbiamo sempre considerato la “frattura” principale, del precariato assunto come quasi forma esclusiva dello stare (in bilico) nel mondo del lavoro, della crescita degli infortuni e delle morti definite “bianche”, della crescita della sopraffazione di genere, dell’adattamento dei ritmi di lavoro ai modelli insensati della società consumistica.
Nello stesso tempo esiste la necessità di proporci di essere “per” il lavoro non solo come elemento fondamentale di sopravvivenza soggettiva ma anche come punto di crescita della dignità umana, del concorso di tutti a una maggiore capacità non solo operativa ma cultural.
Sono tanti i motivi che ci riportano, non tanto paradossalmente in questa fase di “arretramento storico”, al momento storico nel quale attraverso l’aggregazione sociale realizzata attraverso la comunanza del lavoro e la consapevolezza della lotta contro lo sfruttamento si realizzò la presenza politica del movimento operaio.
E’ questo il motivo di fondo per il quale dobbiamo ritrovare la strada per stare dalla parte del lavoro ridefinendo anche idee e modelli di progresso.
“Per il lavoro” nella nostra progettualità alternativa a quella dei padroni.
Siamo di fronte quindi a un bivio, a una contraddizione storica al riguardo della quale emerge la necessità di una sintesi, di una riunificazione di senso e di proposizione per obiettivi di riscatto in forme cui la riflessione collettiva non è ancora arrivata a determinare.
Il punto di partenza per riprendere il cammino perduto potrebbe essere allora quello di essere consapevoli di tutto ciò, delle difficoltà inedite che ci troviamo di fronte e del tentativo in atto di ricacciare il lavoro esclusivamente dentro la categoria dello sfruttamento indiscriminato costringendo a un ritorno alla condizione di “plebe”: una folla indistinta in una condizione di ricerca di mera sopravvivenza materiale.
In tempi di ricerca sul lasciato marxiano forse si potrebbe affermare che la ripresa del Marx del lavoro come “essenza dell’uomo” potrebbe rappresentare, a questo punto, l’appoggio ideale non meramente teorico, al fine di recuperare una visione pienamente politica dell’oggi e del futuro.
Sull’idea del lavoro come “essenza dell’uomo” si può far riprendere la lotta per il riscatto sociale su tutti i fronti, ponendoci al riparo dall’angoscia di questa presunta avvilente“modernità”.
Superando la teoria del valore degli economisti classici, Marx afferma che alla radice della determinazione del valore c’è non una quantità fisica – in termini di orario – di lavoro, ma una quantità storica e sociale di valore, che la concretezza del doppio carattere della merce (attraverso il mercato) – valore d’uso e valore di scambio – e del lavoro che vi mette capo manifesta, ma allo stesso tempo nasconde e mistifica (in quanto i valori quantitativi non rispondono).
Lavori produttivi (e all’opposto improduttivi), nei rapporti sociali di produzione capitalistici, sono quelli che mettono capo non alla produzione di merci, fisicamente riscontrabili, ma alla formazione di valore e plusvalore.
Non è il lavoro concreto, che realizza il valore d’uso della merce, a determinare il lavoro produttivo, bensì la determinazione formale, puramente quantitativa: il lavoro astratto.
E’ la sussunzione formale del lavoro, la sottomissione completa della forza lavoro al capitale, a rendere il lavoro completamente produttivo.
Questo caratterizza anche l’appartenenza di classe: la collocazione del rapporto sociale di produzione determina la condizione oggettiva di appartenenza alla classe subalterna.”.
Fino a qualche tempo fa sulla base di quest’assunto si sarebbe commentato in questo modo: la condizione soggettiva, la coscienza di classe e lo schieramento nel conflitto con la classe borghese, e quindi con l’espressione politica di questa, determinava lo spazio della politica e della lotta per il potere.
Fini qui la valutazione di carattere generale ma si sarebbe constatato anche che: oggi è andato definitivamente in crisi il tentativo che ha segnato i decenni centrali del XX secolo di attenuare la contraddizione di classe attraverso uno sviluppo delle politiche sociali rivolte all’estensione dei diritti (welfare state) e dello sviluppo del “pieno impiego” attraverso politiche attive del lavoro sostenute dall’intervento statale.
Aggiungendo inoltre: la crisi acuta di queste politiche ha aperto una fase di pesante ristrutturazione rivolta prima di tutto al ristabilimento dei rapporti di forza dalla parte del capitale.
La “politica” è così apparsa impotente a contrastare questa tendenza che sta determinando una fase di paurosa regressione.
Sorge, a questo punto, un interrogativo di fondo sulla validità di queste risposte che – appunto – avremmo formulato fino a qualche tempo fa.
Un interrogativo generato essenzialmente dall’ingresso sulla scena della storia di un processo d’innovazione tecnologica fortemente accelerato, mai immaginabile in precedenza.
Un processo d’innovazione tecnologica che sta sottraendo quote molto ampie di quello che poteva essere classicamente considerato come “lavoro vivo” pur in una fase di arretramento di quella che – impropriamente – nel decennio appena trascorso era stata definita come “globalizzazione”.
Un fenomeno, questo dell’accelerazione nell’innovazione tecnologica accompagnato dallo spostamento secco verso l’ingigantirsi dello spostamento verso la finanziarizzazione dell’economia, di vastissime proporzioni che si sta imponendo al punto da porre il tema di una chiusura della dimensione lavorativa così come questa l’avevamo compresa tra il XIX e il XX secolo.
Siamo al punto in cui questo fenomeno, assieme a quello delle guerre, pare provocare una vera e propria situazione di sopravvivenza per intere fasce di popolazione in varie parti del mondo, cui rispondono imponenti fenomeni migratori rivolti in varie direzioni e non semplicemente verso quello che è stato definito “Occidente sviluppato”.
Il quadro complessivo è quindi segnato da una crescita disperante delle disuguaglianze, ben rilevato da molti economisti.
La sottrazione di “lavoro vivo” riguarda sia il lavoro manuale sia il lavoro intellettuale.
Emerge una vera e propria “crisi del lavoro” che, dalle nostre parti in Occidente, ha posto una questione(in questi termini inedita) che può essere riassunta sotto la voce “reddito di cittadinanza” ma che contempla anche tanti altri elementi sui quali riflettere.
Ci troviamo così stretti tra domande molto stringenti che di seguito si riducono in un’assoluta semplificazione.
Dobbiamo essere “contro” questo lavoro del soggiacere ai voleri di questo capitalismo dell’ipersfruttamento, dell’allargamento della materialità della contraddizione di classe ben oltre a quella che abbiamo sempre considerato la “frattura” principale, del precariato assunto come quasi forma esclusiva dello stare (in bilico) nel mondo del lavoro, della crescita degli infortuni e delle morti definite “bianche”, della crescita della sopraffazione di genere, dell’adattamento dei ritmi di lavoro ai modelli insensati della società consumistica.
Nello stesso tempo esiste la necessità di proporci di essere “per” il lavoro non solo come elemento fondamentale di sopravvivenza soggettiva ma anche come punto di crescita della dignità umana, del concorso di tutti a una maggiore capacità non solo operativa ma cultural.
Sono tanti i motivi che ci riportano, non tanto paradossalmente in questa fase di “arretramento storico”, al momento storico nel quale attraverso l’aggregazione sociale realizzata attraverso la comunanza del lavoro e la consapevolezza della lotta contro lo sfruttamento si realizzò la presenza politica del movimento operaio.
E’ questo il motivo di fondo per il quale dobbiamo ritrovare la strada per stare dalla parte del lavoro ridefinendo anche idee e modelli di progresso.
“Per il lavoro” nella nostra progettualità alternativa a quella dei padroni.
Siamo di fronte quindi a un bivio, a una contraddizione storica al riguardo della quale emerge la necessità di una sintesi, di una riunificazione di senso e di proposizione per obiettivi di riscatto in forme cui la riflessione collettiva non è ancora arrivata a determinare.
Il punto di partenza per riprendere il cammino perduto potrebbe essere allora quello di essere consapevoli di tutto ciò, delle difficoltà inedite che ci troviamo di fronte e del tentativo in atto di ricacciare il lavoro esclusivamente dentro la categoria dello sfruttamento indiscriminato costringendo a un ritorno alla condizione di “plebe”: una folla indistinta in una condizione di ricerca di mera sopravvivenza materiale.
In tempi di ricerca sul lasciato marxiano forse si potrebbe affermare che la ripresa del Marx del lavoro come “essenza dell’uomo” potrebbe rappresentare, a questo punto, l’appoggio ideale non meramente teorico, al fine di recuperare una visione pienamente politica dell’oggi e del futuro.
Sull’idea del lavoro come “essenza dell’uomo” si può far riprendere la lotta per il riscatto sociale su tutti i fronti, ponendoci al riparo dall’angoscia di questa presunta avvilente“modernità”.
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