contropiano barbara balzerani
Per la casa editrice Bietti è uscita, dopo cinque anni dalla prima, l’edizione aggiornata de “Gli anni della lotta armata. Cronologia di una rivoluzione mancata”, di Davide Steccanella.
Davide
è nato nel ’62, quindi nel ’68 andava in prima elementare e nel ’78 era
un giovincello carino con la testa piena di riccioli. Come è riuscito a
mettere insieme più di 500 pagine senza avere memoria diretta dei
fatti? Semplice. Si è documentato e ci ha fornito una cronaca
dettagliata degli avvenimenti dal ’69 al 2017, nonché una generosa
offerta delle fonti di cui si è servito.
Sembra
banale ma non lo è affatto, in un epoca come questa in cui gli addetti
ai lavori non sembrano obbligati a dimostrare quello che sostengono. In
un’epoca di verità irrelate che esulano dall’accertamento dei fatti per
approdare al sempre efficace adagio: “Calunnia calunnia, qualcosa
resterà”.
Qualcuno ha sostenuto che il libro esula dal giudizio dell’autore
essendo privo di commenti, come se fosse possibile un’operazione neutra
nella narrazione di fatti sociali. A mio parere, e qui sta uno dei
meriti maggiori del testo, lo sguardo e le suggestioni dell’autore sono
ben presenti nella scelta narrativa. In pieno quarantennale del
sequestro Moro, nelle celebrazioni dell’unica verità ammessa, infarcita
di dietrologia e pubblica morale prescrittiva, Davide è interessato a
ricostruire il contesto storico, la realtà politica e sociale, il
succedersi degli avvenimenti che possano aiutare a capire l’insorgere
della lotta armata che ha coinvolto migliaia di comunisti combattenti
per più di dieci anni.
Che
possano liberare il 16 marzo ’78 dalla narrazione alienata di un fatto
inspiegabile, misterioso e come proveniente da Marte, per restituirlo a
un passaggio, per quanto più importante di altri, della lunga storia del
conflitto di classe di quegli anni.
Infatti
il libro si apre con delle cifre: 269 gruppi armati, 36.000 inquisiti
di cui 6.000 condannati. Eppure la vulgata ufficiale parla di un pugno
di psicopatici, assetati di sangue, eterodiretti e, soprattutto estranei
alle dinamiche di classe a cui dicevano di riferirsi.
Ma nessuna guerriglia comunista in un paese nel centro dell’Europa
avrebbe vissuto più di un giorno, nè si sarebbe diffusa tanto se non
avesse avuto le sue radici proprio nel cuore dello scontro di classe più
significativo dal dopoguerra.
E
Davide da qui parte. Dal ’69 operaio e dai suoi alleati naturali: il
movimento degli studenti e i proletari delle periferie urbane. Uno
smottamento, una corrente d’aria nello scenario stagnante voluto
dall’abbraccio tra DC e PCI, che chiudeva in un blocco mortale ogni
spazio all’opposizione, per relegare la dinamica politica del paese alle
dispute istituzionali.
Questo
succedeva in anni di esplosione di protagonismo di ampi settori sociali
che sperimentavano sul campo quanto l’organizzazione e le lotte, fuori
dai limiti imposti da partiti e sindacati, fossero in grado di
contrastare lo sfruttamento, la fatica e il bastone dei padroni. In anni
di scontri di piazza, inventiva creatrice di obiettivi, strumenti di
lotta e forme organizzate. E conquiste, in ogni ambito del vivere
associato.
Sfogliando
il libro si snoda il racconto anno dopo anno. I gruppi
extraparlamentari, le strutture di base del movimento operaie, le prime
organizzazioni e le prime azioni armate, i riferimenti teorici, i
giornali, i documenti, i protagonisti. E la messa all’ordine del giorno
della lotta rivoluzionaria che attraversava il dibattito dei movimenti. E
non solo di quelli.
A
descrivere il clima di quegli anni Davide ci segnala alcuni episodi che
oggi sarebbe impossibile solo immaginare. Come l’autodenuncia di un
gruppo di intellettuali – da Giulio Argan a Paolo Mieli, a Sergio
Saviane, a Cesare Zavattini e via elencando – all’apertura di
un’inchiesta della procura di Torino contro dei militanti di Lotta
Continua. Queste le loro parole: ”Quando i cittadini da lei imputati
affermano che se è vero che i padroni sono ladri è giusto andare a
riprendersi quello che hanno rubato, lo diciamo con loro. Quando essi
gridano lotta di classe, armiamo le masse, lo gridiamo con loro…” A
significare quanto l’illegalità e la sovversione fosse entrata a pieno
titolo persino nel vocabolario del mondo accademico e artistico, tanta
la forza e l’attrazione di quel movimento che annunciava la “rivoluzione
mancata” di cui Davide parla.
Pagine dopo pagine e gli avvenimenti si incrociano con la memoria, a
volte in contraddizione, quasi sempre come riscoperta di tanta
generosità e ricchezza. Molti i rimandi e le testimonianze che
restituiscono corpo e sangue alla nuda cronaca dei fatti. Come quella
che racconta di Martino Zicchitella, morto durante un’azione nel ’76, di
cui resta, come fosse ieri, l’immagine del corpo morto a terra, il viso
pieno di sangue, quasi calpestato dalla piccola folla di poliziotti
accorsi. Così scrive di lui Giorgio Panizzari, compagno di militanza nei
Nuclei Armati Proletari, riferendosi alla precedente carcerazione di
Martino in cui maturò la sua scelta politica: “Ci arrivò notizia dei
violenti trattamenti carcerari che subiva, gli scrissi una lettera nella
quale gli chiedevo perdono per averlo tirato dentro ai Nap, e mi
rispose che nella vita aveva costruito molto, ma la cosa più bella era
quella che stavamo facendo. Stai tranquillo, mi scrisse, anche se quelli
mi torturano io mi sento bene, allora non mi espropriano delle mie
decisioni”.
Anno 1978 e Davide chiosa: Esce “Jazz” dei Queen,
“Io e Annie di Woody Allen vince l’Oscar e l’Argentina i mondiali
“casalinghi”. In Italia la juventus vince lo scudetto e i Matia Bazar
Sanremo con “E dirsi ciao”. Il capitolo si chiude con la considerazione
per cui se il ’78 era stato l’anno dell’azione più eclatante della
storia della lotta armata, il ’79 sarà quello della sua massima
espansione. E anche questa osservazione non sarebbe priva di significato
se solo ci si soffermasse ad analizzarla.
Ma
la vera singolarità, utile per contrastare gli eventi successivi, sta
nella nota 18 che riporta un articolo del blog di Paolo Persichetti, Insorgenze, titolato Cosa leggeva un brigatista nel settembre 1978?
Oltre
all’imbeccata, per chi veramente fosse interessato a capire,
dell’esistenza del metodo storiografico di analisi della enorme
documentazione esistente con cui si smontano leggende, fandonie, luoghi
comuni e crolla l’intera impalcatura dietrologica, la finezza è la
notizia del ritrovamento anche di un libro della Kollantaj nella base di
via Monte Nevoso. Tanto per non salvare neppure la critica di machismo
da parte del movimento femminista, critica reiterata nonostante che
nelle organizzazioni della lotta armata la presenza femminile sia stata
maggiore di qualsiasi altra formazione politica di sinistra. Inoltre un
campionario dell’internazionalismo rivoluzionario operaio e studentesco,
strumenti preziosi per capire un mondo in ebollizione tra rivolte
anticapitaliste, resistenze a regimi dittatoriali neofascistie processi
di decolonizzazione: un altro socialismo sembrava ancora possibile!
La
cultura, le pratiche politiche e valoriali del movimento rivoluzionario
si possono trovare in quella bibliografia, la cui analisi può aiutare
ad abbandonare tanti preconcetti di chi ha messo in piedi la rete di
controllo della memoria e che fa scrivere persino a uno come Gotor:
“Oggetti comuni a un’intera generazione di giovani: non marziani come
sono diventati lentamente nel ricordo obliquo e reticente dei loro
compagni di strada, man mano che costoro si separavano da
quell’esperienza umana e politica che li aveva lambiti senza
travolgerli. Più che dalle intenzioni, spesso salvati dal puro caso”.
Inoltre
testi sul mondo della “nuova” televisione dei padroni e delle
multinazionali, quando ancora il termine globalizzazione era
sconosciuto. Ma non c’era “L’origine della famiglia, della proprietà
privata e dello Stato”, di Engels che Marco Bellocchio mette in bella
vista in una delle scene più demenziali del suo Buongiorno notte,
in cui dipinge gli inquilini della “prigione del popolo” come degli
invasati che parlano a suon di slogan urlati. C’è da trepidare
nell’attesa della libertà artistica che l’ineffabile regista ex maoista
(non più seguace della nota norma cinese per cui solo chi ha fatto
l’inchiesta ha il diritto di parola) si concederà nella sua prossima
opera annunciata per il quarantennale del ’78!
Ma c’è dell’altro: analizzando le biografie dei militanti si può
tranquillamente smentire la vulgata della loro appartenza o alla cultura
dei fuoriusciti dalla FGCI emiliana o di quella mezzo cattolica della
facoltà di sociologia di Trento. Dalla “foto di famiglia” si può
riconoscere la fisionomia di avanguardie di fabbrica milanesi, torinesi e
genovesi. Di ex militanti di disciolti gruppi extraparlamentari o
provenienti dal movimento del ’77. Pezzi di autonomia veneta,
segnatamente di Porto Marghera. Ex appartenti a gruppi armati disciolti.
La componente della realtà sociale napoletana e delle periferie urbane.
Fino alle formazioni dei territori di provincia.
Scorre ancora il film dei ricordi. Assalto alla sede del comitato
regionale della DC, nella centralissima Piazza Nicosia, a due passi dai
principali palazzi del potere. L’edificio viene occupato, i presenti
immobilizzati, schedari e documenti portati via. All’esterno viene
neutralizzata una sopraggiunta pattuglia della polizia, con l’uccisione
di due dei tre agenti. Azione molto complessa, per il numero dei
compagni partecipanti, per la grandezza del posto e per la sua
collocazione in una zona molto militarizzata. Eppure, nella classifica
dietrologica del “non possono aver fatto tutto da soli”, non supera
l’attacco di via Fani.
E ancora. Come già era accaduto per i funerali di Walter Alasia, (“i
compagni della Magneti, che erano molti e noi della Breda ci siamo
disposti su due ali: ognuno aveva il suo garofano rosso, i pugni si sono
levati e si è intonato l’Internazionale”),
la bara di Barbara Azzaroni, militante di Prima Linea uccisa insieme a
Matteo Caggegi in un conflitto a fuoco, viene salutata da una folla
imponente di compagni, pugni chiusi e bandiere rosse. Segni dei tempi a
sconfessare tante fandonie.
Anni
’80. Mentre muta radicalmente la situazione internazionale, a Torino la
Fiat annuncia 15mila licenziamenti e 23mila cassa integrati. E’ la
controffensiva padronale, la spinta decisiva alla ristrutturazione
industriale in linea con la struttura produttiva del mercato mondiale
dell’auto.
Per
raggiungere questo obiettivo era necessaria l’eliminazione definitiva
dei comportamenti antagonisti e delle avanguardie che avevano fino ad
allora inceppato i tentativi di riorganizzazione della produzione e
delle attività lavorative. La “marcia dei 40mila colletti bianchi”
chiude la manovra a tenaglia e segna “il tramonto delle lotte operaie e
la fine di un’epoca”.
Giorgio
Cremaschi ha commentato che quella vicenda “ha cambiato la storia del
capitalismo italiano gettando le basi per tutto quello che sarebbe
successo nei successivi 30 anni”. Compresa la crisi dei gruppi armati,
le scissioni, i tradimenti, i tentativi falliti di riorganizzazione.
Compreso il declino della strategia che le Br avevano concepito e
sviluppato sulla centralità di un soggetto rivoluzionario capace di
porsi all’altezza della questione del potere e della riunificazione di
tutte le altre figure proletarie protagoniste di quella lunga stagione
di lotte radicali: la classe operaia delle grandi fabbriche. Gli anni
della sconfitta, all’altezza del tentativo compiuto.
Di
questo tratta diffusamente l’ultima parte del libro che, per aver
passato tanti anni a ragionarci su, lascio volentieri all’attento
lettore.
A futura memoria la citazione di Samuel Beckett tratta da Maelstrom, libro scritto da Salvatore Ricciardi: “Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallirai ancora. Fallirai meglio.”
Perché solo chi non ha paura di cadere sarà capace di alzarsi.
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