Classe dirigente. Derivati sul debito: a processo Morgan Stanley, Grilli e Siniscalco. Corte dei Conti: “Denaro pubblico gestito come privato”.
Prima udienza del
processo in cui la magistratura contabile contesta un danno erariale da 4
miliardi di euro alla banca d'affari, ai due ex ministri del Tesoro, al
direttore generale del ministero Vincenzo La Via e a Maria Cannata, che
per oltre 17 anni ha gestito il debito italiano. "Ignorati e
sottovalutati i rischi" di un contratto che in teoria avrebbe dovuto
tutelare lo Stato.
Il ministero dell’Economia ha mostrato “ignoranza e sottovalutazione” dei rischi nella gestione dei rapporti con Morgan Stanley. E ha “gestito denaro pubblico
come se fosse privato”. Così tra fine 2011 e inizio 2012 la banca
d’affari ha chiesto e ottenuto, senza che il Tesoro si opponesse,
problemi il rispetto di una clausola di estinzione anticipata di un derivato sul debito pubblico. Una scelta costata miliardi di euro alle casse dello Stato. È la tesi sostenuta dal Procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Massimiliano Minerva, nel corso della prima udienza del processo che vede sul banco degli imputati anche gli ex ministri all’Economia Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, il direttore generale del Tesoro Vincenzo La Via e Maria Cannata, che per oltre 17 anni – fino allo scorso febbraio – ha gestito il debito pubblico italiano.
I magistrati contabili contestano un danno erariale
di 4 miliardi complessivi e chiedono a Morgan Stanley di risarcirne 2,8
mentre ne pretendono altri 1,2 da Grilli, Siniscalco, La Via e Cannata.
Quest’ultima dovrebbe rimborsare oltre 1 miliardo. Questo perché il
contratto con Morgan Stanley, come argomentato da Minerva, era
“fortemente aleatorio, con fortissimi profili di rischio
e non di sola copertura”, come dovrebbe essere un normale contratto
derivato. Lo Stato, ha detto, “dovrebbe sempre avere sotto controllo il
proprio denaro e la propria esposizione”, ma il ministero non si è
comportato in questo modo. È rimasto “inerte quando ha
scoperto la clausola Ate (additional termination event)”, oggetto del
processo, “si è affidato a Morgan Stanley, senza negoziare e senza opporsi. Ma lo Stato poteva, aveva gli argomenti e quindi doveva opporsi all’esercizio di quella clausola”.
“C’è stata una gestione del denaro pubblico come se fosse privato“,
ha chiosato il procuratore, secondo cui dalle carte depositate emerge
come il Tesoro si rimettesse “alle indicazioni che provenivano da Morgan
Stanley”. Qui, aggiunge, “non si sta parlando di inadempimento contrattuale di Morgan Stanley ma di una violazione di un obbligo di servizio di natura fiduciaria nel rapporto complessivo instaurato con il Mef nella gestione del debito pubblico”.
Il giudice relatore Marco Fratini ha fatto sapere che Morgan Stanley e gli altri imputati hanno eccepito il difetto di giurisdizione
del giudice contabile. “Morgan Stanley lo ha sollevato sotto un duplice
profilo: per mancanza di un rapporto di servizio con lo Stato italiano e
per insindacabilità delle scelte di merito”
Il gip di Roma, nell’autunno del 2015, ha archiviato la posizione della Cannata che era stata indagata anche per manipolazione del mercato, truffa aggravata e abuso d’ufficio. Il tribunale dei ministri che il 22 gennaio 2016 ha poi stabilito che l’allora presidente del Consiglio Mario Monti e l’attuale ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non commisero alcun reato.
Tra 2013 e 2016, ricorda Reuters, i derivati hanno avuto un impatto negativo sul bilancio pubblico di 24 miliardi:
13,7 sono esborsi netti mentre 10,3 sono riclassificazioni statistiche.
Lo scorso anno i derivati hanno avuto sul bilancio pubblico italiano un
impatto negativo di oltre 8 miliardi, secondo le statistiche di
Eurostat. Gli esborsi ammontano a 4,25 miliardi ma, considerando anche
gli aggiustamenti contabili che incidono sul debito pubblico, il totale
sale a 8,324 miliardi.
Il Tesoro ha sempre sostenuto di aver utilizzato i derivati come
assicurazione contro il rischio di un aumento dei tassi, soprattutto
durante gli anni peggiori della crisi finanziaria. Ma, come spiegato
dalla procura della Corte dei Conti a febbraio 2017, alcuni dei contratti “evidenziavano profili speculativi che li rendevano inidonei alla finalità di ristrutturazione del debito pubblico
– l’unica consentita dalla normativa per operazioni in derivati – non
essendo ammissibile per lo Stato, investitore pubblico, assumersi rischi
rilevantissimi”.
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