In Alto Adige ancora nessuno sa che nelle stesse ore in cui i tedeschi sparano sulla folla inerme, a Berlino Adolf Hilter ed Eva Braun stanno per uccidersi. Ma si sa che Benito Mussolini è già morto, che le truppe tedesche stanno risalendo l’Adige per la ritirata. “In questo contesto è senza senso che qualcuno si sia accanito su una popolazione disarmata”, racconta Valente. La sua ricostruzione storica porta a una conclusione: gli otto morti furono causati da “un problema di confusione e disorganizzazione all’interno delle truppe germaniche e di confusione all’interno dei gruppi partigiani”. A fare da contorno, per giunta, il contesto ambiguo come quello altoatesino, di cui in quei giorni nessuno ancora conosce il destino. “Nessuno – dice Valente – sapeva il giorno dopo a chi avrebbe dovuto rispondere, chi avrebbe comandato”: l’Italia o la Germania?
Merano, la città che Mussolini scelse per rifugio (ma morì prima)
E’ la stessa tentata fuga di Mussolini a dare la misura della confusione che porta alla strage del 30 aprile. Prima di essere catturato il 26 aprile a Dongo, tra i suoi piani c’è proprio quello di un passaggio a Merano, dove evidentemente sa di poter trovare protezione prima del passaggio in Germania. Due giorni dopo, quando il Duce viene ucciso a Giulino di Mezzegra, in Alto Adige la situazione è già radicalmente cambiata: un migliaio di soldati tedeschi aspetta la ritirata, mentre i partigiani attendono l’ordine per poter entrare in azione.
E’ in questo limbo fatto di tensione e inquietudine che arriva il 30 aprile. A Merano nel periodo dell’occupazione nazista si erano formati dei piccoli gruppi di partigiani, mai diventati operativi ma con la prospettiva di intervenire al momento opportuno. Erano composti da ex militari che si preparavano a prendere in mano la situazione e gruppi di ferrovieri che anche nel periodo dell’occupazione si erano resi protagonisti di piccole azioni di sabotaggio. Una presenza potenziale, rimasta sopita, che “viveva l’attesa dell’azione via via in modo sempre più spasmodico” spiega Valente.
La Resistenza “parallela” dei sudtirolesi
Esisteva però anche una Resistenza “parallela”, quella dei sudtirolesi di madrelingua tedesca, che mai ha collaborato con il Cln di Bolzano, se non in una primissima fase. Anche in questo caso piccoli gruppi, alcuni nati già nel 1939 per fare propaganda anti-nazista. “Una Resistenza parallela – racconta Valente – perché mentre da parte italiana si guarda al ripristino del confine del Brennero, da parte sudtirolese si guarda alla ri-annessione all’Austria”. Chi fosse subentrato alla dominazione nazista non era scontato. “Per questo i gruppi partigiani italiani premono per fare un’azione”. Per questo, cioè, il 30 aprile hanno fretta. Quello stesso giorno i vigili urbani italiani tentano di occupare il municipio, ma vengono fermati dalla Schutzpolizei. Poi le cose sfuggono di mano. A capo del Cln altoatesino c’è Bruno de Angelis, un industriale milanese che raggiunse la moglie e i figli già residenti a Merano. Convince i partigiani a evitare l’intervento armato, ma consente di sfilare per le vie del centro.
Il corteo inerme, i colpi improvvisi
Le persone si radunano nella piazza di fronte all’inizio dei portici della città. Il corteo si divide in due gruppi, ai partigiani si mescola la popolazione che scende per strada sventolando il tricolore. De Angelis sa che armarsi contro più di mille soldati tedeschi è un suicidio, ma prende un tacito accordo con le autorità naziste affinché concedano almeno la manifestazione. Qualcosa però non funziona, “sicuramente c’è stato un problema di comunicazione all’interno delle truppe”, spiega Valente. In due punti distinti della città partono dei colpi: muoiono il bambino Paolo Castagna, lo studente Orlando Comina, il cameriere Andrea D’Amico, l’elettricista Dino Ferrari, il commerciante Otello Neri, il contadino Luigi Trabacchi, il direttore didattico Benone Vivori e il meccanico Luigi Zanini.
Condannato chi incitò, impuniti i soldati
Un tribunale ha poi condannato per collaborazionismo un’infermiera, Herta Maringgele, e tre componenti della famiglia Knoll. Sono stati loro a incitare i soldati ad aprire il fuoco. Chi ha sparato rimarrà impunito, perchè “gli Alleati impedirono alla giustizia italiana di processare i militari tedeschi”, racconta Valente. Nessuno sarà processato per quegli otto omicidi.
I condannati, chi ha aizzato i soldati contro la folla inerme, sono “dei fanatici filonazisti”, secondo Valente. A Merano, è vero, esisteva una parte di popolazione complice degli occupanti, ma “nella stessa misura in cui parte della popolazione italiana era complice del fascismo e della Rsi”. Se i sudtirolesi di madrelingua tedesca non parteciparono a quel corteo è proprio per quello spirito nazionalistico che in Alto Adige “si confondeva e sovrapponeva allo spirito della Liberazione”. Per quella bandiera italiana che in quel momento per loro significava l’oppressione del Ventennio fascista, più che la Liberazione dell’Italia.
Le truppe spararono per “un errore di comunicazione”
I sudtirolesi tedeschi non erano in strada e quattro di loro convinsero i militare ad aprire il fuoco, ma “a sparare furono i soldati nazisti”. L’unico “senso” che la sua ricostruzione dà a quelle morti è “un errore di comunicazione tra le truppe”, dato da quel clima in cui la gioia per l’imminente vittoria e la frustrazione per l’inevitabile sconfitta entrano in conflitto prima di diventare prese di coscienza definitive. “Purtroppo la lettura semplicistica dei fatti nell’immediato Dopoguerra è stata invece che ‘i tedeschi hanno sparato sugli italiani’”, rileva Valente. “Il modo di raccontare la storia in Alto Adige è spesso stato fatto in funzione di una rivendicazione di tipo politico – continua – Per reclamare un confine, un’autonomia o un’egemonia, ognuno ha raccontato la storia a modo suo. Gli italiani calcano la mano sull’occupazione dal ‘43 al ‘45, i tedeschi sul Ventennio fascista”. “Sono vere entrambe le cose, dipende dal perché le si raccontano”, conclude.
Proprio un anno fa, in questi giorni, è morto l’ultimo sopravvissuto alla strage. Si chiamava Pietro Lonardi e aveva 91 anni. Il 30 aprile 1945 aveva 18 anni: fu ferito gravemente dai soldati nazisti, gli venne amputata una gamba. Chi lo ricorda, sottolinea come nelle sue parole ci sia mai stato un desiderio di rivalsa. Per non aggiungere odio ad altro odio.
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